Il trattamento della marea – secondo movimento

 

di Chiara De Caprio

[Qui il primo movimento]

 

Un passo al centro

II

[Sonoro: Archive, Bullets]

 

Nizza, MAMAC, sabato 27.07.19. M. avanza alla destra dell’opera Que fare en un lieu à moins que l’on y songe di Henri Olivier, a sinistra un’addetta alla sicurezza

 

(a). 3. [almeno in quest’istante, a formulare anche solo l’idea]

 

Le file la costringono a fermarsi; distinguono fra nazioni e provenienze: le identità respinte, gli stanchi intorno a lei, Madame, please, the passport in your hands. Sa di dover oltrepassare l’uomo-che-siede. Considera se restare in piedi o attendere, anche lei, seduta; o se quella posizione più bassa non sia una limitazione dello sguardo e debba, dunque, preferirsi centrale. Eppure, al centro si è esposti su troppi lati; al contrario, una posizione decentrata potrebbe far apparire la fila stessa in modo diverso

Non riesce a calcolare il tempo del loro fronteggiarsi; forse solo alcuni minuti dinanzi all’uomo. Lei farà saltare palazzi, madame? cospirerà contro il Presidente? venderà informazioni? saprebbe ripetere che cosa ha imparato sulle barriere? che cosa sa delle gabbie fra le terre di mezzo? ha mai provato a oltrepassarle? vorrebbe indicare chi è il nemico? se lo ha riconosciuto, perché lo ha fatto entrare?

ma allora; allora, chi potrebbe anche solo pensare, in generale, ad una sicurezza completa? I movimenti dimentichi e imprecisi, come se non ne avesse più una memoria corporea. Non fino in fondo, non con convinzione. Le sembra, a volte, il distacco l’unica forma dell’esserci. Aber vielleicht doch nicht gar so sehr

Scavato nella carne, il movimento con cui supera la postazione della Polizia: come un balzo provocato dalla risentita irritazione di chi l’abbia troppo attesa; o, forse, dalla svagata lentezza con cui lei stessa eseguiva quanto le era chiesto. Scegliere, oltre le confortevoli ed eleganti voliere, oltre lacci e reti per meduse; oltre le barriere. Hey, Sir, have a look in my eyes. Underneath my skin there is a violence. It’s my personal responsibility – not yours – do not use the gun in my head

it’s my personal responsibility do not use the gun, it’s my personal responsibility do not use, its’ my personal responsibility, it’s my personal, it’s my

it’s my

Nizza, ingresso della Bibliothèque Louis Nucéra, venerdì 26.07.19

 

(b). 3. [pensare, in generale, ad una sicurezza completa]

 

Avanzo lungo un viale alberato. Alla mia destra una piazza: una chiesa si leva dal fondo, il giallo chiaro della facciata regolare e quieta, il candore ostinato delle statue che la sormontano. Mi sembra, a distanza, di riconoscere un Cristo e una croce, obliqua nella sua pesantezza. Mi domando chi lì chieda perdono per colpe che ancora non sa di aver commesso. Quasi senza volere, mi pare di levare io stessa lo sguardo verso quel corpo; riaffiora, quasi trattenuta, la memoria di passi che rimbombavano su pavimenti lisci, interrotti da lapidi e preghiere sillabate a bassa voce. Per che cosa o chi saprei dirle, per che cosa.

Il parco – mi racconta G. – era un parcheggio. Ma ora Nizza si vuole verde: un’ecologia dell’esistente, per le rassicuranti strutture che preservano le forme assunte dal reale, e separano ciò che sopravvive da ciò che s’inabissa. Sposto lo sguardo avanti, e ancora avanti: il prato ben tenuto, le sagome in legno di animali su cui bambini sperimentano movimenti e posizioni; intorno carrozzini, sciami di adulti, ampie borse femminili e veli, pantaloni corti e cellulari che risuonano.

Ma, sotto i primi alberi, seggono in gruppetti, le gambe accavallate o distese, le braccia conserte o lungo il corpo: una forma di resistenza e abbandono. Non saprei dire perché la percezione me li abbia istantaneamente detti diversi: venuti da un altro luogo, sì, e ora fermi e distanti nell’attesa. Sono richiedenti asilo, che hanno varcato la frontiera; sono qui – mi spiega ancora la mia guida – mentre si decide che cosa siano, dove potranno andare, e come.

M. e A. mi chiedono il pane e formaggio che abbiamo comprato per loro; ridono mentre scartocciano un sottile pezzo di cibo e lo sagomano col caldo delle mani: “a che cosa assomiglia? che cosa potrebbe essere?”. Poi qualcosa le attira: e sono già nel verde, con balzi e capriole, e la voce dell’una che rincorre quella dell’altra. Inseguo la loro corsa fin dove riesco: e vedo il muro che pure non c’è, la nebulosa nera alla nostra sinistra, cupa e silente. Rinuncio, almeno in quest’istante, a formulare anche solo l’idea: a pensare, in generale, a una pace completa.

 

Nizza, La Coulée verte (Promenade du Paillon), sabato 27.07. Richiedenti asilo in attesa di risposta, M. e A. con del formaggio

 

(b). 4. [ma più si sente preda]

 

Monaco è il suo abbaglio. Ci arriviamo con un autobus di nizzardi in semi-vacanza, l’informalità del nostro e loro abbigliamento: i sandali, gli asciugamani dai colori vistosi. Dai finestrini scorgo i dirupi della costa; e poi il fasto delle ville, il biancore dei sassi lungo le spiagge, le insegne che saturano man mano il mio sguardo. Qui più che altrove, un messaggio perentorio, silente e intrusivo; come sussurratomi da barche lussuosamente attraccate, dal ghiaccio dei frappuccini di Starbucks, dall’odore dolciastro del cibo: dosi di zucchero e conservanti che mi intimano di preservarmi senza troppo fastidio.

Un’ombra si riversa sulla spiaggia: il sole alle quattro del pomeriggio è già inaccessibile dietro l’altezza dei palazzi; eppure il mare trattiene il suo azzurro chiaro. Indico a M. un pontile in roccia, e procediamo lungo la sua profondità. Anche noi prendiamo la rincorsa per un tuffo: dapprima quasi sincrone, poi portate su dalle due velocità del nostro diverso peso. Nel risalire, getto lo sguardo sul lato di mare che il pontile divide dalla striscia d’acqua che ci ha appena accolto; ma qui si mostrano involucri di plastica sminuzzati e sbiaditi, tra scaglie di pesci che seguono la scia persistente di una schiuma biancastra e punteggiata di bolle: come la bava di una creatura che invii così i minacciosi segnali della sua presenza.

Sentiamo freddo; alle cinque il sole è troppo debole, gli asciugamani sono inzuppati d’acqua e rigidi di sale, e un principio di fame ci spinge a tornare indietro: di nuovo, ma in ordine inverso, i salottini tirati a lucido, le eleganti marche di vestiti, il rombo dei motori delle Ferrari che squarcia di tanto in tanto la trama cantilenante e acuta dei gabbiani. Compriamo pane e salumi in un supermercato, e ci attardiamo a mangiare su una panchina: forse, un raccogliere sguardi di biasimo e stupore.

Mentre inseguo la distanza dai treni che ci attendono, mi volto ancora verso il mare. Quasi mi trafigge il giallo delle gru e l’arancione di pesanti macchinari con cui vengono costruite piattaforme sull’acqua. La costa – mi spiega V. – è satura di palazzi, ma il mare può ospitarne di nuovi: appartamenti galleggianti, più o meno questa l’idea. Mi domando se basti la parola cementificazione. Mi pare più appropriato, forse, affiancare costruzione a distruzione, e domandarmi che cosa, esattamente, stiamo facendo; quali campi lasciamo confluire in nuove determinazioni del senso: che ancora non so decifrare. Resto senza fiato, nel difetto semantico che non riesco ad articolare.

Entro nella stazione, al termine di un’altissima rampa di scale: il fiato corto, la serie interminabile di tornanti che ora mi sbarrano il passo e le nuove ingiunzioni all’acquisto dei negozi. Il treno è sul binario, in procinto di partire. Un timore, o forse il suo desiderio: che parta. Mi fermo fra una panchina e un tabellone luminoso che non indica alcuna destinazione.

Ma poi corriamo, quasi ridendo, V., B., e io, le bambine tenute per mano: saltiamo dentro e le porte si richiudono all’istante. No, non abbiamo i biglietti giusti. Respiro, come per trovare l’equilibrio sul treno che sposta, nella sua corsa, il mio baricentro. Siamo illegali in questa vettura, come coloro che hanno rinunciato al diritto di comprare: come disposti ad essere espulsi.

Principato di Monaco, domenica 28.07. Vista da una galleria sulle costruzioni in mare

 

(a). 4. [è la serie interminabile di tornanti che sbarrano il passo]

 

ancora altri spazi vasti e automatici prima di arrivare; scivola lungo il silenzio di una stazione semivuota. Nella nuova hall che si apre al suo arrivo in stazione, profumi, abiti e gioielli lasciano il posto a torri d’oggetti a basso costo. Tutto un comodo-mondo in scaffali: come se in quella selezione vi fosse una routinaria, decifrabile, operazione di senso 

una vetrata le restituisce la notte che trascolora. Le luci sui binari e il nero intorno come un taglio in quell’ottundimento e un laccio per l’emorragia. Non bastano i suoi sforzi per renderlo ordinario, finanche gaiamente mondano, o persino vettore di una disciplina emotiva: quel vortice di oggetti e consumo le provoca un deflusso di energia, una perdita interna di concentrazione. Prosciuga tutti i suoi spazi interni

ma più si sente preda di questo ottundimento, più elementi, particelle e venti cominciano a vorticarle intorno, e dentro. Plastiche alla deriva nei mari, gas che saturano l’aria, detriti che si inabissano nel sottosuolo. Polveri si depositano, fra i capelli, nei pori e nelle cavità del corpo. Velano gli occhi, si addensano fra naso e gola 

come se due mani le si serrassero intorno al collo, come se intorno i corpi cominciassero a sovrapporsi a velocità insostenibile; distanti, eppure troppo vicini, dotati di uno spossante potere di penetrazione. Sparire o far sparire: i lucidi pavimenti bianco-latte aperti sotto i suoi piedi, le luci spente e i soffitti volati via; e via, via i cuscini, le borse, le hostess dal necessario sorriso da viaggio e gli uomini in viaggio per affari. E via, via, via. Forse un timore, o il suo desiderio

la latente euforia della fine del mondo, il difetto semantico della sua fine

Nizza, incrocio di strade vicino al MAMAC, venerdì 26.07. A. sul ciglio della strada e donne con ciambelle sulle strisce pedonali

 

 

2 COMMENTS

  1. Una scrittura davvero molto bella (mi era sfuggito il primo movimento), e uno sguardo che sento vicino.
    In alcuni punti tutto si condensa, come nella chiusa “la latente euforia della fine del mondo, il difetto semantico della sua fine” – quando le frasi diventano versi.

    Complimenti a Chiara De Caprio e grazie a Ornella

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa di studi di traduzione e di letteratura francese del XX e XXI secolo. È autrice del saggio "Tradurre il pastiche" (Mucchi, 2018). Per Marchese editore ha tradotto e curato L'aquila a due teste di Jean Cocteau (premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012) e Tiresia di Marcel Jouhandeau (2013). Ha scritto una tesi di dottorato in Letterature comparate sul Kitsch e il romanzo contemporaneo ed è uno dei membri fondatori del collettivo italo-francese di traduttrici meridiem. Suoi articoli e recensioni sono apparsi anche su Alfabeta, L'indice dei libri del mese, Le parole e le cose. Seguendo questo link, la lista completa dei suoi post: https://www.nazioneindiana.com/tag/ornella-tajani/ - Cliccando su "View all posts", una lista parziale