Un pozzo in Lettonia

di Valentina Parisi

Regīna Ezera, Il pozzo, Iperborea, 2019, pp. 352, euro 18,50, traduzione di Margherita Carbonaro.

 

“Perché siamo tutti infelici? Perché?” Molto probabilmente Regīna Ezera non se ne rendeva conto mentre cinquant’anni fa cedeva alla sua protagonista Laura il peso di queste parole, eppure quell’interrogativo, ovviamente lasciato senza risposta, infrangeva l’ottimismo obbligatorio della narrazione sovietica con una veemenza insospettabile in una frase così apparentemente apolitica. Con buona pace del paradiso socialista e della speranza nella costruzione di un “uomo nuovo” l’autrice lettone, all’epoca quarantenne, proclamava con inusitata chiarezza che l’esperimento, se mai tentato, non era comunque riuscito, e uomini e donne continuavano a essere irrimediabilmente “vecchi”, inchiodati all’orizzonte chiuso delle loro frustrazioni. Questa, almeno, era la conclusione che pareva trapelare dalla trama di Il pozzo, forse il più perfetto tra i tanti romanzi scritti dalla Ezera, e certamente il più famoso, visto che nel 1976 l’industria cinematografica sovietica ne trasse un film di enorme successo, La sonata del lago dai toni inequivocabilmente melodrammatici. Come se soltanto qui, ai confini dell’Impero, sullo sfondo degli immensi acquitrini baltici, fosse permesso innamorarsi.

Abusato ovunque ma non in Urss, il topos letterario dell’amore impossibile calza a pennello al rapporto che, pagina dopo pagina, si va delineando tra Rūdolfs e Laura – lui una rivisitazione della figura cechoviana del medico annoiato, riproposto qui in chiave più guascona, lei una maestra elementare introversa e sfuggente, gravata oltre che dalle responsabilità quotidiane e dalle preoccupazioni per i due figli, anche da una tragedia privata che, di colpo, ha cambiato la sua vita. Suo marito Ričs, un gigante fanciullesco con un debole per il bere, ha infatti commesso un delitto in stato di ubriachezza e ora, rinchiuso in carcere, si materializza tra le mura domestiche esclusivamente sotto forma di lunghe, nostalgiche missive. Inevitabile che la donna cominci a ricambiare le attenzioni dell’affascinante dottore di Riga che trascorre le sue vacanze estive ospite di anziani contadini sull’altra sponda del lago. Anche se, man mano che la narrazione volge al termine, si fa sempre più netta la certezza che, alla fine, sarà il senso del dovere, o un’ennesima tragedia, a spazzar via la possibilità seppur remota di un happy end.

Fin qui sembrerebbe la trama prevedibile di un melenso polpettone, e invece Regīna Ezera ne ricava un romanzo magnifico, complice la finezza psicologica con cui sa restituire i tratti dei suoi personaggi, nonché l’empatia tutta personale con cui guarda ai loro destini. Come spiega la traduttrice Margherita Carbonaro nella sua postfazione, in “fondo” al Pozzo e alle sue origini v’è infatti un irrisolto nodo autobiografico: l’amore non corrisposto per il drammaturgo Gunārs Priede, che abitava sulla riva opposta del fiume Daugava, non lontano dal villaggio sperduto di Brieži dove Ezera visse dal 1965 fino alla morte, avvenuta in solitudine nel 2002. È affascinante vedere come la sostanza magmatica prelevata dal vissuto dell’autrice si stemperi sulla pagina in una geometria acquatica dall’evidente simbolismo. Nel romanzo il fiume che separa i (non) amanti si trasforma in un lago senza nome, che equivale però allo pseudonimo scelto dalla scrittrice (Ezera è infatti la forma femminile derivata da ezers, che significa “lago”). La straziante emorragia di un amore impossibile che fluisce piano verso il mare diventa dunque uno specchio d’acqua chiuso, una superficie verbale riflettente dove recuperare la propria immagine.

A sua volta, la forma circolare del lago trova un corrispettivo in sedicesimo nella riserva d’acqua latente che si cela in fondo al pozzo, dove Laura torna più volte a calare il secchio. Quasi non assolvesse a un banale compito domestico, ma interrogasse piuttosto il proprio destino. Nel contempo, il soprannome con cui gli abitanti locali chiamano il lago – “la Biscia” – allude alla cangiante mutevolezza della sua superficie e all’inafferrabilità delle presenze che, di volta in volta, sembrano profilarsi sulle acque. In barca o a nuoto, l’inoltrarsi nella “Biscia” diventa per i protagonisti l’occasione per restare soli con se stessi e con i propri pensieri, tagliare i ponti con il quotidiano, sottrarsi alla forza di gravità.

Intriso di una sensibilità quasi panteista, Il pozzo trascende tuttavia la finitezza dello sguardo soggettivo per dilatarsi in una narrazione polifonica dove le suggestioni della mitologia baltica e le sopravvivenze di un vitalismo paganeggiante mai sopito coesistono in maniera bizzarra con i realia della campagna collettivizzata. Una dimensione che il lettore scopre innanzitutto attraverso lo sguardo distaccato e sornione di Rudolf, l’intellettuale di città attratto da quel mondo a parte, eppure consapevole che Laura, il lago e i suoi fantasmi di lì a breve non potranno che trasformarsi nel fondale scolorito di una villeggiatura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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