Il romanzo della pluralità
di Monica Pezzella
Proprio di recente un’inchiesta di Vanni Santoni per L’Indiscreto ha affrontato un quesito che divide da anni i critici letterari: è possibile scrivere oggi un romanzo dei nostri tempi e del nostro Paese che, al pari del grande romanzo americano, potrebbe imporsi come “il grande romanzo italiano”?
Leggendo Leonardo Luccone e il suo La casa mangia le parole (Ponte alle Grazie) mi sono detta che forse eccola qui, una possibile risposta, che si rivela però più enigmatica e trasversale di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Il grande romanzo italiano parrebbe essere in realtà un grande romanzo americano; un romanzo che rompe gli argini dell’italianità tradizionalmente intesa.
A dispetto di una cocciuta resistenza contro le americanate e il traduttorese – avversione ottusa perché non sta al passo coi tempi e non prende atto di una oggettiva contaminazione ostinandosi a scambiarla per copia – l’architettura di La casa mangia le parole si pone al di là e al di sopra della tipicità della letteratura italiana perché supera quello che ne è, più che una caratteristica, un limite – poiché caratteristica etichettabile.
Il romanzo italiano medio – lasciamo fuori i capolavori della letteratura, che in quanto tali godono di unicità – è quasi sempre orgogliosamente piccolo. Piccolo non per le dimensioni, ma per l’inquadratura, la portata della realtà in esso contenuta, per il focus ristretto e lineare, semplice e premuroso di non chiedere al lettore troppo sforzo e pertanto concentrato sul mondo singolare di uno o più personaggi. Una o più persone, ma un mondo singolare, un mondo soltanto.
La storia narrata è quasi sempre una miniatura semplificata delle realtà plurime e caotiche che riempiono di senso il singolo e in cui il singolo è inevitabilmente invischiato.
Prendiamo a esempio il caso più banale: la storia di un uomo. L’inquadratura segue un uomo in campo ristretto, tagliando fuori tutto ciò che non lo riguarda o lo riguarda solo marginalmente, mantenendo la sequenza di immagini il meno inquinata possibile, affinché lui – l’uomo – sia il più a fuoco possibile: non una sbavata sagoma di colori misti, ma un pantone ben definito, un figurino dai contorni ininterrotti di cui tutto ciò che sappiamo lo sappiamo per somministrazione diretta.
Eppure la realtà procede diversamente; o meglio, l’uomo procede diversamente nella realtà. Quell’inquadratura ristretta è un artificio, non esiste e non è autodefinita; essa esiste piuttosto unicamente in relazione e in contrasto con le altre realtà che interseca, e sono proprio queste a definirla nel momento in cui reagisce alla loro intromissione. La definizione di un personaggio o di una storia non è molto diversa da una relazione sentimentale: quest’ultima è tanto più forte e tanto più resiste al tempo quanto più in essa entrano in gioco elementi esterni che la identificano per contrasto e l’alimentano di novità contro la routine. Una relazione che non funziona è una relazione che si è chiusa tra quattro mura e due singolarità. Il romanzo italiano che non può aspirare a essere il grande romanzo italiano è un romanzo incanalato in una narrazione singola.
Luccone sposta, allarga e stringe l’inquadratura nella pluralità.
La farsa di una coppia che finge di stare ancora insieme; un’azienda che entra a pieno titolo tra i protagonisti del romanzo; gli appunti scritti da un italoamericano ambientalista; la pulsazione della città sotto il cielo cangiante e della terra sotto il cemento, che sia quello di Roma o quello di Boston; l’ardita carrellata di vite di ogni singolo membro della suddetta azienda; la riscoperta di un altro tempo mentre si guarda un albero; la dislessia vista dall’interno; la richiesta di un rapporto a tre confessata su un blog; la disanima di un odore del bosco. Non si tratta, no, di coraggiose digressioni. È semmai il coraggio di usare tutto lo sguardo di cui un uomo – in questo caso Leonardo Luccone – dispone per abbracciare e restituire l’idea del fermento del mondo. In una sequenza temporale frammentaria e una lingua che cambia di continuo e resta impeccabile.
Nessuno aveva mai avuto il coraggio di farlo: valicare apertamente, platealmente il confine dell’italianità formato famiglia; nessuno lo fa per timore, certo, di essere tacciato di aver scritto la temuta “americanata”.
Qualcuno lo ha già detto, di Luccone e de La casa mangia le parole: qualcuno lo ha già tacciato di prolissità, formalità, americanità. Ben vengano gli altri che verranno: quelli che non si sono ancora accorti che se un romanzo italiano oggi assomiglia a un romanzo americano è proprio perché – diamo credito alla realtà – l’Italia oggi assomiglia all’America.
Non c’è bisogno di aver visto letto ascoltato e scopiazzato film libri musica in traduzione. Non abbiamo più bisogno di copiare. L’originale da cui copiavamo – se mai abbiamo copiato, perché in arte raramente si copia, più verosimilmente si trae ispirazione – ci appartiene. Si chiama contaminazione.
Qualche anno fa lo stesso Luccone, che ha scritto un grande romanzo, non sarebbe stato d’accordo. Adesso chissà.
Mi piace molto quest’articolo che lancia una sfida ai romanzieri italiani, indicando una possibile via per entrare nel panorama della grande letteratura internazionale. Credo però che non sia necessario guardare soltanto ai grandi autori americani (sebbene Franzen ed Ellis, nel mio caso, abbiano un posto di rilievo): ritengo che il tema del recupero delle proprie radici possa essere una di quelle strade per realizzare grandi affreschi contemporanei del nostro paese.