Kiwi – Angelo Sicurella
KIWI
Una mattina per puro caso ho infilato un dito nella metà di un kiwi. Era morbido e maturo e affondargli dentro quel dito e lasciare aperto un piccolo buco in quella metà di frutto mi aveva provocato una strana sensazione che non saprei spiegare. Un misto di eccitazione e di verità col mondo che mi aveva in un certo senso unito al perché della natura. Quella morbidezza di frutto mi era profondamente vicina e sensuale, simile alla morbidezza della carne, senza essere carne. La prima volta che affondai il mio pene in una vagina avevo appena 13 anni e fu per puro caso. Giocavamo a nascondino con un’amica di mia sorella poco più grande di me. Scoprivamo le prime cose e la prima volta che tirai giù i pantaloni era perché mi chiese di vederlo. Si fidava di me forse perché ero un po’ più piccolo e forse perché ero completamente inesperto. La sua vagina aveva dei peli neri fittissimi, le labbra erano rosa chiaro e nascoste da questi giovani peli. Un giorno venne da me con la faccia da ovetto kinder. Nascondeva una sorpresa. Aveva tolto ogni ombra di pelo e la sua vagina era diventata nuda, dodicenne. Mi venne un tuffo al cuore e lei mi chiese se poteva toccarlo. Fino a quel momento avevamo solo guardato. Quando lo prese in mano scese giù con la cautela di una principiante e lo mise in bocca che pareva non potesse entrarci. Aveva la bocca piccola, come la sua vagina. Io per ricambiare la appoggiai al muro e la leccai.
I suoi occhi si rivoltavano indietro e si chiudevano, come se entrasse in un abisso profondo di piacere e questa cosa mi faceva sentire profondamente bene e mi metteva dentro tanto desiderio di darle piacere. Ogni volta che doveva studiare con mia sorella, poi faceva ripetizioni con me. Ripeteva quello che avevano studiato e mentre ripeteva io la leccavo. Poi un giorno abbiamo cominciato un gioco. Se lei sbagliava a rispondere alle domande doveva fare punizione e quindi inginocchiarsi e succhiarlo. Se invece diceva il giusto ero io a dovere fare qualcosa per lei. E fu da quella volta che tornarono in ballo i frutti. Eravamo in cucina quando ho preso per la prima volta una carota che assomigliava al mio pene. Abbiamo cominciato a giocarci. Inizialmente la strusciavo e basta. Poi, all’ennesimo struscìo la entrai. Non avevo entrato mai niente dentro di lei, eccetto che la mia lingua. Fu una sensazione strana, sia per me che per lei. Eppure ne entrò un pizzico, giusto due dita di carota. Il giusto per farla sobbalzare dal letto. Mi guardò tra il piacere e il pentimento. Nel panico di quello che avevo fatto rimediai tuffandomi con la lingua su quella vagina piccina e bagnata. Ma lei si alzò e se ne andò. Non dormii tutta la notte. Non rispondeva ai messaggi e non la vidi per due giorni.
Due giorni dopo si presentò a casa mia dicendomi che doveva parlarmi. Mia madre era in giardino ad annaffiare i fiori e a curarsi delle piante. Fuori era una primavera di sole tiepido. Mi portò nella mia stanza e mi abbassò la cerniera. Lo tirò fuori e lo mise in bocca. Fino a quando nell’arco di un nano secondo non era già grosso nella sua bocca, al massimo della sua erezione. Avevo il calore che mi infuocava le tempie e la nuca e mi girava la testa. Non me lo aspettavo. Ma ancora di più non mi aspettavo quello che venne subito dopo. Mi disse che l’avevo violata con una carota e che quindi dovevamo essere pari. Tirò fuori una zucchina svuotata, sembrava un preservativo naturale. L’aveva svuotata a casa sua, aveva avuto questo pensiero. La mise come cappuccio al mio pisello e cominciò a masturbarmi. Fu in quel momento che mi tornò in mente il dito nella metà del kiwi e fu in quel momento che non controllavo più cosa stava accadendo. La consistenza morbida e liscia della zucchina sul mio glande mi provocava un effetto di piacere estremo. Tolsi il cappuccio dal pene e con foga glielo diedi in bocca. Sapeva di zucchina era certo e a lei piaceva. Mi aveva in qualche modo sverginato. La sua vagina era bagnatissima. Quando la toccai sembrava di mettere la mano sotto un rubinetto di acqua calda appena chiuso. La adagiai sul letto e provai a entrare. Lei mi guardava compiaciuta e un po’ spaventata. Riuscii a trovare dove entrare ma non riuscivo a entrare. Poi sleng! Qualcosa scivolò e una parte di pene le entrò dentro. Emise un gemito che per poco mia madre non ci scopriva. E dopo pochi secondi sono uscito con l’esplosione incontrollata di una fontanella di acqua semitrasparente. Ero venuto. Lei mi guardò spaventata. Anche io lo ero. Potevamo rimanerci secchi. Non avrei più giocato a pallone per il resto della mia vita e lei non sarebbe più scesa a giocare con me. Non sapevo come scusarmi. Ci siamo rivestiti. Ho pulito per terra, sullo stereo, sulla sedia. Non pensavo di poter fare tanto. Quasi a tratti mi veniva da ridere. Ma mi veniva anche da piangere. Lei mi disse che doveva andare a casa a studiare. Abbiamo rinviato di parlarne. Per i giorni successivi non ci siamo visti. Mi sentivo in colpa per aver combinato quel casino e mi sono detto che avrei dovuto allenarmi affinché non accadesse che solo quando volevo io. Era un allenamento difficile. Avevo sempre gli ormoni a mille. Ogni qualvolta trovavo un frutto che faceva al caso mio lo portavo in stanza e lo penetravo. I miei preferiti erano l’arancia, il kiwi, un ananas maturo, un avocado denocciolato da dietro, la papaya. Immaginavo che per ogni frutto lei ne assaggiava il gusto come aveva fatto per la zucchina, togliendo quello che sul mio pene rimaneva del frutto. La sola idea mi faceva scoppiare il cervello. La notte mi mancava terribilmente il fatto che non la sentissi per giorni. Non capivo se mi ero innamorato o se fosse il calore di un piacere carnale. Quando un pomeriggio ci trovammo a giocare all’ennesimo nascondino, mi nascosi con lei. E mentre mio cugino andava in giro per cercarci, nel vento caldo di quel pomeriggio presi il coraggio di spostarle le mutandine e di toccarla con un dito. Aveva una gonnina a metà coscia ed era accovacciata davanti a me. Mi guardò che sembrava furibonda, tolsi subito la mano e pensai “sei un cretino!”
Lei si mise a correre per fare battimani e mio cugino mi scoprì, così toccò a me fare la conta. Quando andai in giro per cercare tutti, trovai tutti tranne lei. Non era in terrazzo, non era in giardino, non in cucina, non in salotto, in balcone, nello studio. Era in bagno. Adagiai la porta al muro perché pensavo si fosse nascosta dietro. Ma era dietro l’armadietto alto, di fianco alla doccia. I miei cugini, dopo così tanto tempo, avevano preso a dare due calci al pallone. Lei chiuse a chiave. Chi di altri aspettava un esito della mia ricerca probabilmente aveva perso le speranze. Tranne mia cugina. Lei era la direttrice e l’arbitro di ogni gioco. Dentro il bagno mi lanciò uno sguardo che non avevo mai visto scritto sul suo corpo e fu quel giorno forse che capii cosa poteva essere la malizia. Anche se era una malizia bambina. Ma alla fine forse il bambino ero io e lei, anche se di poco, era già molto più grande di me. Mi abbassò i pantaloni e mentre provavo a entrare dentro di lei in piedi, lei si girò, si abbassò con la schiena e guardandomi mi fece cenno. Io provai a entrare ma sbagliai buco e lei sobbalzò come il gatto Silvestro che aveva appena incastrato le dita del piede in una trappola per topi. Ero una frana, questo ormai era chiaro. Quel buchetto mi aveva stretto così tanto il pisello che a momenti mi facevo male anche io. Era una sensazione strana e avevo violato lei per la seconda volta. Ormai era assodato che fossi il suo primo esperimento su tutto. Per tutta la settimana non passò da casa e quello che mi rimase era solo di allenarmi. Avevo preso una dimestichezza coi frutti che la desideravo su di lei. Ma i frutti non ansimavano. Il suo gemito invece mi conficcava il cervello come spine gentili. Quando il lunedì si presentò a casa mia mi disse che dall’ultima esperienza aveva capito una cosa importante. “Da lì non rischiamo niente”, mi disse. Fu così che la posizione dell’armadietto divenne una delle nostre posizioni più amate. Scoprimmo che si diceva “a pecora” e la cosa ci faceva morire dal ridere. Le raccontai della mia passione per i frutti e dovetti scoparmene uno davanti a lei che si toccava. Poi, prima che arrivasse il momento in cui stavo per esplodere e lui era rosso come la lava di un vulcano, mi chiedeva di metterlo dentro e dietro, a pecora, perché così, se venivo, non c’era più nessun pericolo. Lei ansimava e gemeva e godeva come non avevo mai sentito fare a nessuno. Ormai era chiaro, mi ero innamorato.
Angelo Sicurella, Palermo 1981, è un compositore e cantante del progetto solista omonimo, già autore e cantante degli Omousmo. Scrive di storie quotidiane, utilizzando l’erotismo e la pornografia come strumento per intrufolarsi nelle singolarità delle vite degli individui e nelle piccole crepe delle relazioni umane.
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Il rigetto del mondo per rispettare una conformazione spirituale che aborrisce le bestialità terrene è il sogno impossibile dell’asceta. Ogni tentativo di astratta redenzione approda allo scacco, poiché la parola stessa è pregna di una interna carica pornografica, una predestinazione all’incesto tra il pensiero e la pelle: i nostri pori ipersensibili sono dannati conduttori di fruste fantasie carnali, accoppiamenti di sterili concetti, plastico presagio delle squallide anatomie del desiderio. Solo l’amore trasfigura le insulse geometrie delle stilizzate figure in fittile contatto e in ogni caso l’accento tonico sul sesso è sempre sbagliato, in quanto eleva a legge un dettaglio antiquato. Il santo sublima la natura e le sue impure pantomime fino a fare della rinuncia estasi e così non sfugge alla beatitudine, topos inesauribile, nicchia dove cresce la grandezza come un branco di gargolle sull’epidermide marmorea delle cattedrali.