Tempimorti #2
di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (foto)
(#In ufficio) Sono nel dominio vacuo e inospitale del post-insonnia. Un luogo nient’affatto gradevole. Penso a Kafka, Beckett: se la fine è la fine di tutto, allora lo è anche della fine stessa: quindi la fine uccide se stessa e si condanna a non finire. La fine non finisce. È quello che viviamo tutti. Giorni di ossessione: i cinesi. Ormai sono notti intere che non dormo completamente: mai del tutto insonne, mai del tutto riposato. Penso ai cinesi, ai cambiamenti, alle urgenze del clima, al neoliberismo, alla tenaglia, all’oblio, al limbo, all’impotenza. Vorrei fare qualcosa ma non so cosa e tutto mi pare oltre le mie forze. Descrivere. Bisogna continuare a de-scrivere. È l’unica. E lamentarsi, vedi alla voce cahiers de doléances (cfr. Bruno Latour).
(#Lavanderia a gettoni). Questo odore di disinfettante che rinchiude l’aria in un guscio detergente. Una cappa plumbea di odore caldo, una specie di panificio del sapone, la traccia indiana sul confine tra un profumante che dovrebbe coprire un odoraccio ma è esso stesso un odoraccio remixato. Sono le 7 del mattino, sono qui soltanto per usare l’asciugatrice. Mi sono sempre piaciute le lavanderie, la loro esperienza urbana, intrinsecamente provvisoria, da studentato perpetuo, luogo di socializzazione tra gente in calzoncini e ciabatte che non ha più niente di pulito se non pochi stracci addosso. Invece qui, a Pae, la lavanderia a gettoni è una stanzetta piccola, dipinta di giallo, con alle vetrate decalcomanie di bolle di sapone. Tre lavatrici (due da 9 kg, delle quali una ha un cartello «Guasta», una da 16 kg – per un piumone matrimoniale: è quella l’unità di misura) e due asciugatrici. Cartelli con le istruzioni sul muro. Telecamere a circuito chiuso, una tinozza di plastica azzurra, quel ceruleo standardizzato per queste tinozze da Interstock, un carrellino di metallo bianco e un po’ rugginoso, nessuna sedia comoda ma panche di legno con la seduta scomoda attaccate al muro e un tavolo centrale per piegare i panni asciutti. Ci vogliono 24 minuti per asciugare il mio carico di panni. Cerco più volte di aprire la porta, ma il gancio di ottone che serviva per l’operazione è stato strappato dalla porta stessa, così come l’asola di ferro, sul muro, che serviva per ricevere l’uncino. Con la porta chiusa l’effluvio ambiguo è ancor più insopportabile. C’è un mucchio di riviste sulle panca: due pile più o meno identiche di settimanali, mensili scandalistici, tabloid, «Chi», «Gente», «Grand Hotel», «Panorama» e così via. Accanto, una più misera pila di dépliant illustrativi di pizza-a-taglio, mindfulness, corsi di Yoga, corsi di nuoto e giocoleria per bambini. Prendo un blocchetto di quei volantini e tento di bloccare la porta, ma non funziona: non funziona neanche con tutto il mazzo, quindi rimango con l’odore soffice di muffa e deodorante.
(#In ufficio). In attesa si apra Photoshop. Storicamente le mie percezioni si sono rivelate errate. Statisticamente quello che vedo, il ragionamento che ci faccio dietro per spiegarmi cos’ho visto, è sbagliato.
(#In auto). Credo di essere dalle parti di Monteroni d’Arbia, zona Buonconvento, Cassia. Poco avanti Siena, verso l’Amiata. Sono uscito dal raccordino, ho imboccato una strada piovosa piena di capannoni ai lati, imboccato una di queste viuzze liminari ad uno dei capannoni. Sono officine, argenterie, mobilifici, showroom con sanitari domestici, magazzini all’ingrosso di stoffe, un’insegna dice «TOYS» con font puerile, tutto nebuloso, ogni lettera ha un colore diverso e una forma lievemente obliqua, divergente, come se le lettere della scritta T O Y S fossero state ritagliate ciascuna da una rivista diversa e incollate sullo sfondo dell’insegna da un maniaco. Ho accostato e spento il motore. Siamo qui, tutti e tre. Le ragazze già dormono. È per questo che ci siamo fermati: il postprandiale. Mando indietro il sedile, stendo le gambe sopra il volante. I muscoli si liberano dalla prigionia della posizione seduta. L’anidride carbonica delle giunture scoppietta. Sul tettuccio cade una pioggia continua, fragrante, catatonica. Sento che qui il tempo, tutt’altro che morire, rinasce. È tempovivo, appena rigenerato. Qui dentro posso contemplare le pozzanghere trafitte dalle stilettate fittizie delle gocce d’acqua, gli aghi di pino caduti più avanti, ridotti quasi a poltiglia, il grigio cementizio che non stritola, perché siamo protetti nel guscio di madreperla dell’automobile. Il suono attutito dall’esterno è anch’esso protettivo. La quasi totale assenza di umanità in transito o, semplicemente, in attività, è protettiva. La dismissione è protettiva. La dissipazione senza angoscia, l’osservazione di questa dispersione di minuti è protettiva, di più: è desiderio realizzato, fa godere. Insieme al tempo che scorre scemano anche le ansie, le emergenze, i doveri. Persino la desertificazione d’intorno, questa piana pre-montuosa plumbea, sottratta alla sua storia rurale e al suo destino industriale, povera, incarognita, depressa, ora come ora, è ansiolitica, è geo-Xanax urbano.
(#Q8). In attesa che la pompa mi riempia il serbatoio di GPL. Dal vetro opacizzato per la condensa, punteggiato dall’acne della pioggia, s’intravedono due macchie più luminose, rifrazioni dell’insegna. Scatto una foto col telefonino. La foto è bella, mi soddisfa: due aloni pallidi in un cosmo nero, palpitante di formazioni d’acquerugiola stellare. Il benzinaio è un po’ tocco, però: borbotta tra sé e sé, non gli s’attacca mai l’augello al dispositivo del gas delle vetture; attacca briga con molti clienti. Da un po’ di tempo non vedo Mustafà: spero non lo abbiano barattato con questa specie di naziskin che, oltretutto, mi dava l’impressione di prendersi gioco di Mustafà stesso. Non mi sorprenderebbe, tuttavia. Il tempo di oggi è il tempo della Belva.
(#In cucina). Attendendo che il lavello si colmi di acqua e sapone. Schiuma e bolle iridate. Shining libro (più del film): è evidente che i fantasmi siano poco più che dispositivo drammaturgico. Nel film, invece, il Male è Totale: è storico, metastorico, è cosmogonia malvagia, è fondazione nazionale al nero, è oscura teologia, è mito perpetuo saturnino e rete neurale di HAL 9000 trasferita nel corridoio con tappeti e arazzi arabescati con fantasie sioux o comanche (lo scrive Ghezzi: Shining è lo stesso film di 2001: Odissea nello spazio). Il che rende ovviamente il film molto più grande del libro. Ma non m’interessa, mentre il lavello si riempie e penso a quest’oggi, alla pausa pranzo trascorsa in auto, chiuso nell’abitacolo con l’alito tiepido del riscaldamento e la pasta fredda trangugiata diaccia tutta sullo stomaco, ma, curiosamente, senza abbiocco post-prandiale, mentre, appunto chiuso in auto, scrivevo e godevo, autentica ‘gioia di vivere’, mi viene in mente che Jack Torrance è sì un alcolizzato, padre violento figlio di un padre a sua volta violento, ma soprattutto Jack Torrance è un tizio che non scrive più. E allora lo assalgono gli spettri. Come dire: finché scrivi sei salvo. Il che fa di Shining libro una variante di Sherazade. E questo è tutto.
(#In cucina). A e C giocano con la zia. A tenerissima stende la pasta per le tagliatelle che mangeremo a pranzo. C le scatta una foto anch’essa tenera: la piccola ha due treccine ai lati, corte come i suoi capelli che ora hanno una tonalità giallo limone. È una scena di quiete domenicale, in questa bella cucina dove, da fuori, arriva una luce pallida. Il grande vento di scirocco scuote le fronde dei castagni perché si facciano male: ma qui dentro non entra alcun dolore. È il tempo della festa: non posso fare a meno di pensare a domani, agli impegni di frustrante quotidianità salariata che mi attendono. Scrivo a F, dicendogli che la domenica il realismo capitalista si realizza con tutta evidenza nelle oscillazioni tra «peggio» (il lavoro che c’è là fuori, fatto di gretto sfruttamento, di selvaggio liberismo da caballeros) e «meno peggio» (il mio lavoro, noioso e stolido, che disattiva ogni acume, ma almeno con stipendio regolare e diritti lavorativi garantiti: una pacchia per qualcuno, la morte per altri, ma pur sempre quintessenza di un /ufficio/). F risponde che è per via della «festa» (ponte lungo dei Morti): dopo ogni festa ci fanno sentire in colpa per esserci divertiti, per non essere stati connessi al lavoro. La festa è un lemma interessante, viene dalla Comune di Parigi, da Rimbaud e poi Marx e infine Furio Jesi (bibliografia da rinvenire in rete: del resto ogni giorno, un poco alla volta, cerco ‘bibliografie’ in rete, qualcosa per fuggire, derive, piani di uscita o, come dice F, «se il foglio è occupato dal salario scrivi sui margini»: è quello che faccio – o cerco di fare ogni giorno un poco – scrivere sui bordi): le cannonate di Mac Mahon hanno cancellato la festa, il trionfo dell’alternativa, la vendemmia degli entusiasti, degli insorti, del popolo: non gli avevano perdonato la sconfitta di Sedan, ma non era neanche questo: era la possibilità, la liberazione del desiderio, una mesata di democrazia. Niente, via, tutto finito, spazzato via, piombeggiato. Ci fanno provare vergogna, durante la festa, dal 1871 fino a ora: non c’eri, i doveri ti aspettano, il bromuro del capitalismo è un farmaco da banco del supermercato – e se non è vergogna è ansia e se non è ansia è depressione e se non è depressione è bipolarismo e se non è bipolarismo è disturbo narcisistico di personalità: e su tutto è teologia del capitalismo (Benjamin).
(#Pausa pranzo) A vederlo da fuori, cioè passandoci accanto con l’auto, l’ex-bar Luisa (ex Arcangeli pure), appare sempre più in disfacimento, in dis-aggregazione. Cataste di sedie irrimediabilmente sciupate, slabbrature di forassiti, calcinacci. Ma dopo, con l’intenzione di fermarmi lì davanti per consumare il mio pranzo nel Tupperware, vedo che ci sono due muratori che stanno portando via dall’interno secchi di detriti e disgrazia. Stavolta, immagino, qualcuno avrà già pensato a un piano di ristrutturazione per trasformare il vecchio bar in una tavola calda alla moda. O magari, invece, diventerà qualcos’altro; il terzo concessionario, dopo gli altri due che occupano i cubi in quest’area di cemento posta accanto al cimitero (che in definitiva non è che un arcipelago di pompe di benzina/autolavaggi/neon/cubi concessionari/parcheggi privati con pilomat delimitante/aiuole sfibrate). Un salone come gli altri, con le auto parcheggiate dentro, il baule aperto, lucidate, su un tappeto lindo di moquette, tanto da chiedersi come le abbiamo materializzate lì. E accanto alle auto le scrivanie in compensato Ikea, il porta ombrelli ai piedi del tavolo, una coppa smaltata in ottone (qualche premio aziendale? Il miglior venditore del trimestre?); la tristezza di questi uffici, la loro squallida referenza gestionale, da foglio Excel, ma anche, al tempo stesso, una sorta di sedazione cartesiana, qualcosa di ordinato, un effetto placebo del settore terziario o, più probabilmente, un’illusione per chi guarda da fuori, attraverso la protezione dello schermo di vetro, fuggevolmente, una cosa estranea tra tante cose estranee, ma solo più pulita. Ineccepibile lo sgomento metafisico, poi, che offre, a tal proposito, la visione della saletta contrassegnata come «Area di consegna»: uno spazio di circa 10×5 m, praticamente sgombro di tutto: ogni oggetto disposto ai lati: macchinetta del caffè con cialde, uno schedario, due pile di sedie (plastica+seduta di tessuto sintetico ceruleo), alcuni birilli arancioni stradali, come quelli che vengono utilizzati nelle scuole guida, per gli esami della patente A; un aspirapolvere, anch’esso accanto alle sedie. Due piante (a me la specie è ignota), dal fusto lungo, magro, le foglie esanimi e lanceolate, senza più grazia, solo ciuffi da appartamento, da perimetro disinfettato.
È difficile commentare, scusa se decido di farlo tenendo presente le sensazioni che il testo mi ha evocato. Leggendo, ho pensato spesso a un dentro. I frammenti iniziali mi hanno riportato a immagini di protezione: i panni al sicuro nella lavatrice, i tre nell’auto, la benzina nella pompa. Questo senso di appartenenza, questo sentirsi al sicuro da, permette di guardare il fuori e di capirlo, senza correre rischi.
Quando poi dal lavandino pieno d’acqua in cucina si passa alla cucina stessa, è come se il pov cambi totalmente. Si è fuori. L’oblò della lavatrice è aperto, l’auto ha il cofano alzato, la benzina è schizzata fuori. I pensieri perdono la sicurezza e proprio perché si scontrano con l’esterno, si fanno reali.
Hai scritto senza reticenze, a ruota libera e si sente; così io nel commentare;)
Ciao :)
scritto dal fuori del dentro di sè, eppure intimo o postintimo? aduso al reale, come un mantra.
nulla scivola addosso e lascia diademi di diamanti un po’ grezzi, alveolati da brillori intermittenti come breaknews inaudibili e diamanti morti, infestanti di nostalgia la nostalgia. la scrittura riflessiva ma che non vive di luce riflessa, ha il suo ritmo asciutto e incalzante da dove nascono domande almeno a me lettrice, come da una maratona filosofica.
i tempi morti sono quelli nei quali abbiamo tempo di non morire, di saperci vivi, forse.
lettura piaciuta. complimenti, anche al fotografo.
p.
scritto dal fuori del dentro di sè, eppure intimo o postintimo? aduso al reale, come un mantra.
nulla scivola addosso e lascia diademi di diamanti un po’ grezzi, alveolati da brillori intermittenti come breaknews inaudibili e diamanti morti, infestanti di nostalgia la nostalgia. la scrittura riflessiva ma che non vive di luce riflessa, ha il suo ritmo asciutto e incalzante da dove nascono domande almeno a me lettrice, come da una maratona filosofica.
i tempi morti sono quelli nei quali abbiamo tempo di non morire, di saperci vivi, forse.
lettura piaciuta. complimenti, anche al fotografo.
buon pomeriggio
paola
ps: ” Invece qui, a Pae…” mi suona personalmente emblematica la risulta della ricerca su Wikipedia per Pae:
Physical Address Extension/Estensione dell’indirizzo fisico