El siglo de oro

di Gabriele Galloni

Osservo mio padre che guarda un film al computer. Un musical. Ogni tanto alza gli occhi verso di me; sorride a disagio. Domani io e lui partiremo per le vacanze pasquali. Un viaggio che avrei volentieri evitato; ma la morte di una madre comporta anche degli oneri. Tra questi, di solito, il riavvicinamento forzato con il genitore rimasto. E così.

 

 

Mio padre ha quarantadue anni. Devo spezzare una lancia in suo favore e dire che ne dimostra venti di meno. Mi schernisce spesso, per questo: io ho la cosiddetta panza e rispetto a lui sono cupo e basso. Basso anche per la media di questo paese – quindi basso davvero. Mio padre si allena molto; ultimamente ci alleniamo insieme. Mi dice che a vent’anni, la mia età, sollevava settanta chili su panca piana. Io ne faccio a malapena trenta. Mio padre afferma che la bassezza non è uno svantaggio per un sollevatore di pesi: tutt’altro. Più sei basso, più hai possibilità di mettere massa muscolare in breve tempo. “Però quella panza…”

 

 

Il musical finisce, sfuma in una canzonaccia volgare cantata in coro da tutti i personaggi. Mio padre chiude il pc, si alza e va di là in cucina. Mi chiamerà a cena pronta. Nel frattempo finisco di fare la valigia e, come da tradizione, in mezzo alle canottiere (almeno dodici: sudo molto) nascondo un coltellino svizzero. Non sia mai che nel sonno mio padre decida di umiliarmi e fottermi alla sua maniera giovanile. Mai capitato; ma la prudenza non è troppa mai – come posso fidarmi di una persona che mi ha eiaculato per scherzo dentro un bucaccio umido?

 

 

Andremo a Roma e ci resteremo per cinque giorni; i cinque giorni più lunghi della mia vita, li immagino; o quantomeno i più alienanti. Io e mio padre non abbiamo granché da dirci. Sono io che lo ascolto per la maggior parte del tempo. Quando mi parla delle proteine in polvere e quando mi racconta di mia madre da giovane. Mio padre è un nostalgico vero, checché possiate pensarne voi che lo conoscete appena. Lo so: il suo vitalismo, la sua energia. Ma fidatevi quando vi dico che mio padre è un piagnone; spesso si allena in lacrime, non riesce proprio a trattenerle. E non piange soltanto per mia madre. Tanti e vari i motivi del suo pianto.

 

 

A Roma non ci sono mai stato. Uno scrittore l’ha definita uguale a Los Angeles ma con le rovine. Paradossalmente sono stato a Los Angeles; ero molto piccolo e ricordo solo una grande luce.  Mia madre era fissata con l’America, le varie routesixtysix, le strade infinite, la polvere che si alza al passaggio di una macchina, cascame trito e ritrito da donna cresciuta negli anni ’80. Mio padre dice che Roma dovrebbe piacermi. Io non ne vedo i motivi, i presupposti. Non posso ascoltare il piagnone ottimista durante i pasti. Mi chiudo, letteralmente; curvo le spalle più di quanto non lo siano già e mangio in silenzio. Non penso a nulla, semplicemente smetto di ascoltare mio padre; che pure continua a straparlare.

 

 

Partiamo di mattina presto, nonostante le mie rimostranze. Mio padre mi dà del ragazzino e io non posso dargli completamente torto, perché durante il viaggio mi guardo spesso nello specchietto laterale e il mio viso è quello; quello di un bambino, per l’appunto. Una specie di gigantesco neonato con le guanciotte macchiate dall’acne (ma neanche troppo).

Per rendere il viaggio più snervante, mio padre si ferma a ogni autogrill che incontriamo. All’ottavo compra una compilation di successi anni settanta. Tre dischi; tutta la gloria di quello che mio padre descrive come el siglo de oro del Novecento.

“Sai cosa è successo negli anni ’70?” mi domanda.

“Sono successe tante cose negli anni ’70,” rispondo.

“Dimmene una.”

“L’omicidio di Kennedy,” butto lì distratto.

“Acqua, oceano. Kennedy è stato ucciso nel ’63. Hai altre due possibilità.”

“Il golpe di Pinochet.”

“Bravo. Poi?”

“Moravia che pubblica il suo capolavoro, La vita interiore.”

“Non conosco. Ancora: vai.”

“I Residents pubblicano…”

“Basta con le tue nozioni culturali. Avvenimenti storici; concreti; che riguardino l’umanità.”

Rifletto.

“Negli anni ’70 sono nato io,” conclude mio padre.

 

 

A Roma fa caldo e si sta male.

Alloggiamo in periferia, in un quartiere chiamato Casetta Mattei e che sembra l’appendice stronza di una cittadina marittima. L’hotel dispone di una piscina coperta; per prima cosa andiamo lì. Nello spogliatoio mio padre passa in rassegna davanti allo specchio le pose da culturista che conosce. Mio malgrado ho una erezione di cui forse mio padre si accorge, perché tutto a un tratto smette di posare e mi dice laconico andiamo. Non avrei dovuto indossare lo slip attillato. Mio padre mi chiama coscine di pollo.

Mio padre nuota; io rimango nella parte dove l’acqua è bassa. Faccio qualche capriola, qualche verticale. Per fortuna non ho gli occhialetti: in questo modo, se sono sott’acqua, mio padre è soltanto una macchia sfocata che si avvicina e si allontana. È come tenere gli occhi chiusi quando un pensiero imbarazzante ti visita.

 

 

 

 

 

 

3 COMMENTS

  1. Hai descritto le psicologie dei personaggi tramite dialoghi e atteggiamenti. Nulla è banale, ma graffiante agli occhi di chi legge. Grazie.
    Ciao :)

  2. un padre sempreverde che non riesce a nascere, forse anche lui nato da uno sputo di sperma dimenticato troppo presto, abortito anche dal figlio che è completamente fuori dalla portata del padre, figlio che è trattato dal padre come un ragazzino dietro la lavagna e che erra con questa lavagna nominale annessa sulle spalle alla ricerca di un angolo nel quale esercitarsi. lo salverà l’ omicidio effettivo più che quello affettivo metaforico del paterno dio o una fuga in costume da bagno mentre il padre si dissolve nell’ acqua clorata? quante trame quante morti e quante fughe possibili. per me la scrittura incalzante, ruvida, mai sentimentalistica vivaddio! lascia apposta sigillate fra le trafilettature cronachistiche certe camere stagne e segrete sepolte ” a caso” perché il lettore ci metta del suo.
    buona serata
    paola

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