Due poesie sopra i destini delle mamme

di Francesca Genti

 

Le mamme delle poete

le mamme delle poete si siedono sul divano,

è tardo pomeriggio e aspettano le figlie.

le vedo dalla cima di una stella;

accendersi una sigaretta, farsi un bicchiere,

incrociare e scrociare le gambe,

girare gli anelli, mangiarsi le unghie.

 

le mamme delle poete sono inquiete,

è tardo pomeriggio e aspettano le bimbe,

poete appunto, non luminari della scienza,

né capitane d’industria né avvocati,

non donne che sanno organizzarti una casa,

una vacanza, un veglione per venti persone.

poete appunto, inabili alla vita,

perennemente offese dalla durezza della realtà,

le vene azzurrate da micro apocalissi,

e una passione smodata per le ciliegie sotto spirito

(ma niente soldi per il dentista!).

 

nell’attesa che le separa dalla visita

si chiedono veloci dove hanno sbagliato,

le rivedono in stellina dentro i cieli,

quando erano soltanto puro desiderio

senza ombra di dubbio, e una felicità,

morbida e tiepida, dalla nuca profumata,

quando dicevano le cose buffe a tavola

e aspettavano sveglie i topini dei denti.

 

forse le avevano allattate poco

o lasciate troppo davanti alla televisione,

saranno stati i campi steineriani?

o la sopravvalutata pedagogia montessoriana?

più acqua? meno acqua?

 

più luce, madre mia, ancora sulla terra.

le mamme delle poete sembrano marat,

nel celebre quadro all’oldmasters,

o vecchie ofelie preraffaellite,

nel famoso dipinto alla tate gallery,

sdraiate sui cuscini del divano,

confuse con i fiori dei tessuti,

il vino rovesciato lungo i polsi,

allorché queste figlie poete,

(un tempo così brillanti e allegre,

un tempo così belle e in salute),

si mettono comode, si tolgono le scarpe

e raccontano di problemi esistenziali,

o di come si sono fatte fottere marito e lavoro

 

da qualche campionessa più giovane e furba

(qualcuna la cui madre avrà allattato meglio

e di sicuro cucinato tutte quelle torte

che nell’abbaglio delle loro giovinezze

loro mai si sono sognate architettare).

 

le mamme delle poete reagiscono

ognuna a suo modo alla cattiva sorte.

se sono di indole frivola

partiranno per un lungo viaggio,

un grand tour di shopping compulsivo,

che neanche elton john nei momenti più bui.

se sono inclini alla saccenza

chioseranno l’avevo capito da quella poesia*.

se propendono per il lugubre

si chiuderanno in un atroce silenzio

e puzza amara sarà, fino ai prossimi natali.

 

le rivedono in stellina fluorescente,

trilli subacquee sulla spiaggia,

così carine nei loro costumi di sirena,

così della vita fiduciose,

pescioline nel brillare della luna,

di ogni marea, di ogni compleanno,

di ogni adorazione del piedino

(tutti gli altari d’oro dell’infanzia).

 

forse le avevano allattate troppo,

o quella volta giù dal fasciatoio,

sarà stata la baby sitter ninfomane?

o i racconti horror della zia?

più vino? un po’ di vino?

 

più luce madre mia, ancora sulla terra.

*

(le mamme delle poete infatti,

anche se hanno condotto studi umanistici

tendono a leggere l’opera delle figlie,

con approccio gossipparo,

una sorta di inesaurita Eva Tremila).

 

 

Malgaro elettrico

mio padre, he was a country boy

in un piemonte vertiginoso e fosco.

 

nella provincia cosidetta Granda

(la Shangri-lah dei fragoloni a Peveragno)

si fece largo, tra le gambe di mia nonna.

con un suo sacchettino di plasma

con un suo pacchettino di ossa piccole

nello zaino un sasso e una ricotta

e i suoi semini da piantare per il mondo.

insomma, nacque. come tutti i bimbi.

 

alla fine di una rovinosa guerra.

 

nella provincia cosidetta Granda

(dei partigiani a vocazione GL)

nacque, bimbo bello, in questa terra.

in amarezza e luce. e abbagli e cadute.

 

e nuvole che turbano lo sguardo:

 

in baratri di nostalgie cobalto

mia nonna infatti cadde

giù nel buco, proserpina borghese,

si ruppe la borraccia della serotonina;

fantasmi di giovinezza non sbocciata

minacciarono la vita dell’infante.

 

giorni e giorni di fitto temporale

fitte al cervello elettrizzato male

mani magre non riuscivano a tenere

l’autunno sconfinava nell’inverno

e questo fagottino, bimbo bello,

diventava triste e macilento

 

non riuscivano a trovare più l’azzurro

 

ma un pomeriggio più tenero degli altri

nella provincia cosidetta Granda

(quella effigiata da pittara e delleani)

su prati dai colori psichedelici

apparve una fata in forma di vacca

“non preoccuparti” disse alla ragazza

“riposati, riprenditi l’azzurro”

“io mangio l’erba e i fiori

do il latte io a  tuo figlio”

“tu dormi, riposa nell’azzurro”.

 

e fu così che mio padre si riprese

e diventò mio padre, appunto.

oggi ancora lo è. he is, a country boy

che prende suo nipote sulle spalle

e per fargli ammirare meglio le vacche

e le loro boasse impastate di fiori

prende la scossa sul malgaro elettrico.

 

 

4 COMMENTS

  1. Non conosco Francesca, ma mi piacerebbe … queste poesie mi sembrano molto riuscite, nello stesso tempo ironiche, profonde e di gran sentimento, nonostante gli sberleffi. Mi riconosco come mamma, come poeta, come figlia…

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