Vomitorium (1)
di Gianni Biondillo e Franz Krauspenhaar
GIANNI BIONDILLO:
Franz,
Voglio farti una proposta più che decente. Se non ti aggrada portai rifiutarla subito.
Pensavo: ora scrivo a Franz e, come di fronte a una birra virtuale, mi metto a parlare a ruota libera. E poi lui mi risponde, di seguito a questa mia email. Poi io rigiro la sua e allego un mio commento, una risposta a una sua domanda, una mia nuova domanda, o cazzeggio, o elucubrazione. E così ancora lui.
Insomma, alla fine avremo una specie di dialoghetto tutto da inventare, che ancora non so dove ci porterà. Senza troppo leccare le parole, senza preoccuparsi della bella forma, così come si fa al bar.
Poi, tutto questo, sempre se ti va, lo pubblicherei su qualche Blog, tipo Nazione Indiana, o quello della Lippa o di Giulio, o il tuo, vediamo un po’.
L’unica vera regola è: tutto quello che scriveremo, tutto quello che ci diremo, non verrà censurato. Se ci viene la cattiveria su qualcuno la teniamo, se ci viene la cazzata la teniamo.
Nei tempi che ci pare, nelle dimensioni che ci pare.
Ora tu potresti dire: “perché io?”
“Perché no?” potrei battistianamente risponderti. E, dicendo “battistianamente”, mi accorgo già di darti una piccola autentica risposta.
Ci conosciamo ormai da oltre un anno e mezzo. Al di là della simpatia umana sento una forte analogia fra di noi che non ha nulla a che vedere con la nostra scrittura, diversissima l’una dall’altra, né con la nostra storia personale. E cioè che siamo due scrittori “anomali” nel panorama editoriale italiano.
Mi spiego:
Da quando sono uno “scrittore ufficiale” ne ho conosciuti molti di “scrittori ufficiali”.
Premetto: gli “scrittori ufficiali” sono gli scrittori che hanno pubblicato un libro. Tutto qui. La categorizzazione che ne farò qui sotto non fa nessun riferimento all’effettivo valore delle loro opere. È l’aspetto sociale e sociologico che mi interessa.
Come dicevo, gli “scrittori ufficiali” si dividono in (perdona l’assurda generalizzazione):
1) L’iperuranio.
Sono gli Eco, le Maraini, i Baricco, etc. Quelli che campano con i diritti dei loro libri. Gli unici veri “autori puri”. Se insegnano, o se scrivono un articolo o vanno a una conferenza, non lo fanno perché ne hanno un effettivo bisogno ma perché dà loro un’ulteriore dose di lustro alla posizione sociale che detengono.
Sono lassù, lontanissimi. Non sanno niente degli uomini, delle donne, dell’affitto da pagare, dei blog, delle polemiche sui blog, di quanto costi un chilo di pane. Sono gli unici scrittori che la televisione vorrebbe avere in video e sono gli unici scrittori che in televisione non ci vanno. Sono l’emblema, il simulacro della letteratura italiana contemporanea. Sono intelligenti, liberal, dotti, consolatori, ecologisti, inoffensivi. Sono pochi. Di persona non ne conosco neppure uno.
2) I “veri scrittori”.
Questi campano di ciò che ruota attorno alla scrittura. Mi spiego meglio. Non sono i diritti delle (in media) 4/8.000 copie che vendono a romanzo che li mantiene in vita. Devono far altro. Ma lo fanno “attorno” alla scrittura. Cioè lavorano come editor, dentro case editrici, tengono corsi di scrittura creativa, fanno i giornalisti, i redattori, i correttori di bozze, i copy, i più fortunati scrivono sceneggiature per il cinema o per la fiction, i più sfortunati mettono a frutto la laurea in filosofia o in lettere (i “veri scrittori” o sono laureati in filosofia o lo sono in lettere) e insegnano. Chi all’università, chi al liceo, chi alle medie, chi, ancora alle elementari.
Hanno voluto essere scrittori fin da bambini. Hanno seguito il percorso istituzionale, si sono laureati (chi in lettere, chi in filosofia), scrivono su riviste letterarie, e/o su blog letterari, sono di sinistra, hanno dai 30 anni in su (al di sotto ci sono i “giovani scrittori”, sottocategoria che ora non voglio analizzare). I più famosi hanno circa 40 anni, vivono in un monolocale, sono scapoli, non vogliono figli, scrivono dalla mattina alla sera, sanno sempre cosa dicono, cosa vogliono dire, cosa diranno, hanno un’opinione su tutto, non vogliono padri o padrini, studiano per diventare padri o padrini. Alcuni di essi sono scrittori straordinari, sanno di essere la letteratura italiana, non il suo simulacro, altri sono convinti di essere la letteratura italiana e non lo saranno mai. Si conoscono tutti. Vanno a mangiare la pizza assieme. Molti di questi li conosco di persona.
3) Gli “anomali”.
Non riesco a trovare un’altra definizione.
Fra questi mi ci metto, metto anche te. Oppure, non so, Andrea Vitale, medico di base a Mandello del Lario o Tullio Avoledo, che lavora nello studio legale di una banca di Pordenone. Scrittori, come vedi, diversissimi. Hanno fatto un percorso di studi anomalo, rispetto “i veri scrittori”. Hanno, spesso, una famiglia, dei figli, un lavoro che non c’entra nulla con la scrittura. Non hanno pubblicato niente su Nuovi Argomenti a 18 anni, non hanno mai pubblicato un solo articolo su nessun quotidiano prima che il loro primo romanzo avesse (fortunatamente) successo. Continuano a fare un lavoro che non c’entra nulla con la scrittura (non campano certo dei diritti), sanno quanto costa un chilo di pane, nessuno chiede mai loro un’opinione sullo stato della letteratura italiana contemporanea. Hanno uno sguardo obliquo.
Per ora mi fermo. Dimmi se la mia proposta ti interessa, se hai voglia di continuare questa mia chiacchierata. Se sì, aggiungi, qui sotto quello che vuoi. Hai capito che voglio parlare di un mondo che ho visto all’improvviso irrompere nel mio mondo e con il quale sto facendo quotidianamente i conti. Vorrei capire se anche dalla tua parte è lo stesso.
Ciao, Gianni
FRANZ KRAUSPENHAAR:
Caro Gianni, accetto lo scambio d’impressioni. Ti avverto però fin d’ora che sei andato a sceglierti un interlocutore anomalo tra gli anomali. Ma sì, che ti avverto a fare? Questo lo sai bene, ormai mi conosci.
Forse è meglio partire punto per punto, se non altro per cercare di chiarirsi vicendevolmente le idee; io questa tua proposta la vedo così, come un tentativo di chiarimento che potrebbe coinvolgere eventualmente anche altre persone che con la scrittura hanno un rapporto che chiamerei d’intimità.
1. Sono lassù, lontanissimi, è vero. Si, gli iperurani. Li ho visti solo in tivù. Quanto sono alti? Magari sono più bassi di come ce li immaginiamo. Sul fatto che non sappiano niente degli uomini e delle donne io però non sono sicuro. Sono uomini e donne anche loro, tanto per cominciare. E sono persone molto intelligenti. Non so, forse bisognerebbe conoscerli davvero di persona e chiedere loro, a bruciapelo: “Quanto costa un chilo di pane?”. Se Dacia Maraini, per fare un esempio, mi desse la risposta esatta, credo che non ne sarei sorpreso. Chissà perché, ma sulla Maraini su questo tipo di cose pratiche io ci conto. Eco sta sicuro che ti direbbe quanto costano le sigarette. E dimmi tu se questo è stare totalmente nell’iperuranio… No, io penso che questi scrittori siano persone dentro il mondo; semplicemente, fanno parte di quello che una volta si definiva il “bel mondo”, o “jet set”. Sono come i grandi capitani d’industria o i grandi playboy alla Guenther Sachs (così io li vedo) e non devono preoccuparsi ogni giorno delle cose pratiche. Sono totalmente immersi nel loro mondo di scrittura proprio per questo. Ma essendo degli intellettuali hanno una visione del mondo approfondita. Vanno più a fondo dei “ricchi scemi” proprio per questo, credo. E’ una mia impressione. Per il resto, non so proprio come immaginarmeli dal vivo: dovrei conoscerli proprio di persona.
2. Anch’io conosco qualche “vero scrittore”, come li chiami tu; tutti a mio avviso eccezionali. Ma guarda che, a proposito di giovani, tra i giovani scrittori ci sei dentro anche tu! Fino ai 40 in Italia sei un giovane scrittore, non te la scampi! Io ho superato la quarantina (si, lo so, sembra impossibile, a vedermi…) e dunque io non sono più un giovane scrittore da qualche centinaia di giornate. Tiè! Per il resto penso che questa tua categorizzazione sia grosso modo esatta. Però non so cosa dire al proposito, perlomeno ora. Attendo nuovi stimoli da parte tua, ecco.
3. Si, io sto in questo gruppo. Non ho voluto studiare, da ragazzo, a scuola andavo veramente male. Non ho fatto l’università e mi sono messo a lavorare subito dopo il militare perché non mi andava di campare sulle spalle dei genitori. Scelte che a mio modo di vedere oggi le cose sono state sbagliate. Ma indietro non si torna e quindi amen. Ora mi arrangio, diciamo. Sono un autodidatta. Ho una passione tremenda per la letteratura. Scrivo da quando avevo 10 anni, anche se ho cominciato a considerarmi scrittore solo da qualche anno. Di questo tipo di scrittori che fanno diciamo così altro e che nella letteratura ci sono cascati dentro non più giovanissimi conosco solo te, caro Gianni.
In ogni caso, vorrei che mi chiarissi cosa intendi per “sguardo obliquo”.
Grazie, e a presto.
Franz
G.B.
Lo sguardo obliquo… allora… ho come la sensazione che “i veri scrittori” abbiano una lettura “verticale” del mondo. Specialistica, attenta, ficcante, ma tutta dentro la disciplina. Parlano di contaminazione, ma in realtà non la frequentano. Parlano di fumetti ma non li leggono. Oppure risolvono il mondo dei fumetti a Tex e Diabolik.
F.K.
In effetti è vero; nel senso che ho anch’io quest’impressione. Però, anche qui, bisognerebbe interrogarli a uno a uno, magari con una lampada puntata sugli occhi… A parte gli scherzi, anch’io li vedo impressionati soprattutto dalla macchina letteratura, e ad essa teneramente avvinti. La loro è una passione esclusiva.
G.B.
Sanno tutto del mondo della letteratura, ma sanno solo quello. Non sanno come si calcola l’area di un cerchio (che hanno studiato alle medie, quindi dovrebbero saperlo), cos’è il secondo principio della termodinamica, cose così, ma non solo. Risolvono tutto all’interno del binomio: cultura-politica, che potrebbe anche andare bene, ma danno a “cultura” una valenza essenzialmente letteraria. E’ colpa delle nostre Università, lo so. Di un certo residuo crociano che letterarizzava ogni attività intellettuale, relegando a “tecnica” tutto il resto. È una cultura logocentrica la nostra. I migliori critici d’arte o di cinema (laureatissimi in lettere o in filosofia), non sanno nulla della tecnica che sta dietro la disciplina che analizzano. E infatti raccontano i film, si fermano al “messaggio” del film, non lo “vedono”.
F.K.
E’ fatale essere così quando si è scelto il proprio percorso di studi senza indugi. Hanno fatto bene, sono i credenti nella letteratura, perlomeno buona parte di loro. Io personalmente nella letteratura non credo, ma questo è un discorso che possiamo approfondire più avanti perché può essere davvero interessante e foriero di sorprese. Sul principio della termodinamica però ne so poco o punto anch’io. Di cinema me ne intendo, nel senso che – sempre da autodidatta- l’ho studiato a fondo. E’ vero quello che dici sui critici che “leggono” il messaggio del film come se questo fosse un romanzo.
G.B.
Gli storici dell’architettura sono, in questo senso un’anomalia nella storiografia d’arte. Perché sono, per la maggior parte, laureati in architettura, e quindi hanno un percorso di studi diverso, più, appunto, obliquo.
Per obliquo, insomma, intendo una capacità sincretica che mette insieme stimoli che vengono da diversissime discipline senza la naturale e un po’ obbligatoria gerarchia di valori che, appunto, le facoltà umanistiche inculcano.
F.K.
In questo io non sono solo obliquo, sono anche ubiquo…
G.B.
Un’altra precisazione: gli scrittori anomali non sono, necessariamente, la feccia, i paria. Quasimodo lavorava al genio civile, Montale non era neppure laureato (e cantava come tenore), Gadda era un ingegnere, Svevo vendeva vernici…
Per farti un altro esempio, forse più chiaro. Ti parlo di due casi editoriali di questi ultimi anni. Ammaniti per me è uno “scrittore anomalo”, Piperno è un “vero scrittore”. Ormai sono il primo proiettato nell’iperuranio e il secondo proiettando. Ma Ammaniti mi sembra più cane sciolto, meno dedito alla “carriera di scrittore”. Mi spiego? Mi sbaglio?
F.K.
Lo so, lo so. Mai pensato agli anomali come a dei paria, tutt’altro. Vogliamo aggiungere anche un nome straniero, per esempio quello del medico Céline? La letteratura è piena di medici, a proposito. E di architetti. E, di nuovo in casa nostra, Mario Tobino? Era uno psichiatra, ecco. Eccetera eccetera.
Su Ammaniti e Piperno non so che dirti. Se non che Ammaniti l’ho letto e mi piace molto, l’altro ancora non l’ho letto. Sul “cane sciolto” non so. So che io, tanto per fare un esempio, sono proprio un cane sciolto. Ecco, su di me posso parlare tranquillamente, mi conosco piuttosto bene.
G.B.
Insisto: non sto valutando l’opera (e il valore letterario dell’opera) di ogni singolo scrittore. Mi interessa, come dire, l’aspetto sociologico. Che immagine si ha, al di fuori, del mondo della letteratura oggi? E che immagine se ne ha, al di dentro? E, soprattutto, che aspettative ha ogni singolo scrittore? Le stesse sia che si tratti di “vero scrittore” o di “scrittore anomalo”?
Non rispondermi: le vendite. Perché è ovvio, anche se molti “veri scrittori” ti diranno che non sono affatto interessati a vendere. Quello che mi dà da meditare è: perché i “veri scrittori” dicono che non sono interessati alle vendite? A cosa sono veramente interessati?
a te la palla, Gianni
F.K.
E’chiaro, non stiamo valutando le opere. Però non so cosa dirti, davvero. Posso fidarmi (e fino a un certo punto) delle mie impressioni. Dunque te lo dico: ho l’impressione che al mondo “di fuori” della letteratura non gliene freghi niente o quasi. Il mondo letterario è un mondo grosso modo conchiuso, abbastanza elitario, incline all’autoreferenzialità. La letteratura non è popolare, cioè non è un genere artistico popolare; e dunque alla gente diciamo così comune di questo “genere” gliene può importare qualcosa solo a sprazzi. Molta gente ha letto solo Faletti e si fida del mondo letterario di Faletti, cioè si fida di quel che c’è scritto nei suoi romanzi. Tutto quello che non è fiction all’interno della letteratura è materia per addetti ai lavori: fine del discorso.
Sulle aspettative è difficile dire. Credo che tutti abbiano voglia di vendere milioni di copie, sarebbe assurdo non volerlo. Forse la faccio troppo semplice, ma mi rifiuto di pensare che chi scriva credendoci (per non parlare di chi scrive non credendoci) non voglia (seppure nell’anticamera di un sogno) arrivare alla fama e perché no alla gloria. Pertanto sulle aspettative penso che, al fondo, qualsiasi scrittore ne abbia, eccome. Poi è ovvio che c’è chi sceglie le strade più facili (che poi facili non sono per niente, alla resa dei conti) e chi le più difficili. A mio avviso scrivere è maledettamente difficile se si vogliono unire contenuti di un certo peso con capacità comunicativa. E’ qui che sta la scommessa più forte. Scrivere comunicando emozioni – principalmente – tenendo stretto il lettore, avvincendolo, dandogli anche degli scossoni, picchiandolo pure a sangue, perché no, ma alla fine regalandogli piacere e intelligenza e profondità di vedute e profondità di “campo”: questo è il compito che uno scrittore moderno può darsi. Questo è il tentativo che si può fare. L’impresa è quanto mai ardua: per essere così devi sfondare il muro televisivo e quello degli autori stranieri, dei fabbricanti di bestseller.
Insomma Gianni: scrivere “semplice” è maledettamente difficile. Non basta il talento, ci vuole un grande lavoro dietro, bisogna riscrivere innumerevoli volte. Su questo argomento possiamo discettarne a profusione più avanti, e possiamo parlare anche dell’”officina” dell’artista.
Franz
(…a suivre)
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4) Poi ci sono gli scrittori della domenica. A proposito, che giorno è oggi?:-/
GRANDIOSI!!!
Siete davvero ano(r)mali!!!
Conoscete Pierre Bourdieu? Io lo sto studiando da poco tempo (quindi vi risparmio il mio entusiasmo da neofita) però mi sembra che sui vostri temi abbia delle cose molto interessanti da dire. Saluti.
I biologi: Antonio Pascale, Marco Vespa.
I giudici: due famosi li conoscete ma ci sono anche Elisabetta Liguori e Stella Magni (forse non sono propriamente giudici ma nel Tribunale lavorano).
Vediamo chi trova lo scrittore con il mestiere più “anomalo”.
Non so perché, ma il ragionamento di Biondillo me ne ricorda uno di quel capoccione di mio padre, che suonava più o meno così: il mondo è tutto interessante, però non c’è dubbio che l’Occidente è un passo avanti al resto del pianeta. Nell’Occidente, però, bisogna preferire l’Europa, perché gli americani sono un po’ scemi. L’Europa è piena di nazioni meravigliose, perà diciamocelo francamente, come l’Italia non ce n’è. In Italia, se devo essere sincero, non vivrei né al nord né al sud: quelli del nord sono fissati coi soldi, quelli del sud stanno sotto il tallone della mafia: il centro dell’italia è la zona migliore. Il centro, d’accordo, però non Firenze, città museo, non Perugia, troppo piccola, non Siena, avvelenata dal folclore: Roma è in realtà l’unico posto dove si può vivere bene. Intendiamoci, non tutta Roma: i quartieri nord sono pieni di ricchi cafoni, quelli a sud sono troppo popolari e caotici: il quartiere perfetto è il quartiere Trieste. Oddio, anche il quariere Trieste è pieno di gentaccia e di confusione. Alcune strade però sono più tranquille, via del Giuba ad esempio, dove viviamo noi. Non la parte dove c’è l’alimentari, però, la parte di qua, che è più assolata. Il numero undici è un bel palazzo, ma il nove, il nostro, ha il garage e anche il portiere. E’ meglio, dai. Il terzo piano è il più vivibile, perché l’ascensore a volte si guasta e arrivare ai piani più alti diventa una fatica. I piani bassi lasciamoli perdere, si sente il traffico. Terzo piano, via del Giuba, quatiere Trieste, Roma. Ecco il posto perfetto, il resto non vale granché.
Sinceramente, Lodoli, non so perché ti abbia fatto venire in mente questo ragionamento.
Tuo padre aveva, a quanto pare le idee chiarissime, io sto cercando di chiarirmele.
Il mio è un discorso “in fieri”, non è detto che non cambi idea strada facendo. E’ una cosa che faccio spesso, appena qualcuno mi dà i giusti stimoli per rivedere le mie posizioni di partenza. Non sono tetragono in quello che penso, né cerco di dimostrare alcunché.
Tu, tra l’altro, sei, nella mia semplicistica generalizzazione, un esempio perfetto di “vero scrittore”. Non ho mica detto che siano la feccia dell’umanità! Tutt’altro, ne conosco alcuni di enorme valore umano e artistico. Appartenere a una delle mie suddette categorie non salva o danna automaticamente nessuno.
Molto divertente, Lodoli. Mi hai fatto tornare in mente la mia PIANEROTTOLANIA (I had a dream…), scritta al tempo in cui ero assai allarmato per l’invenzione della Padania.
È ancora in rete [cerca ‘pianerottolania’ in ‘Google/groups’]
Copio-incollo:
I had a dream… ho fatto un sogno: la Padania. Com’era bella e verde e
vivibile la mia Padania! Ma il sogno, un po’ alla volta, si è ingarbugliato.
Troppa gente, troppe diversità. C’erano quelle brutte famigliacce della
Padania meridionale, per esempio. E allora, sul sogno precedente, si è
innestato un nuovo sogno: la secessione della Padania del Nord dalla Padania
del Sud.
Com’era bella, adesso, la nuova Padania, la mia Padania del Nord! Tanto più
bella e verde e vivibile della precedente…
Ma il sogno si è ingarbugliato di nuovo. Troppa gente. Troppe diversità.
C’erano quegli zoticoni del meridione della Padania del Nord, per esempio. E
allora un nuovo sogno si è innestato sul precedente. Staccare il Nord della
Padania del Nord dal nuovo Sud… Quanto più bella e verde e vivibile della
precedente appariva adesso la mia Padania del Nord-Nord!
Ma non era finita.
Ogni volta sull’ultimo sogno si innestava un nuovo sogno. Da un lato, è
vero, la mia Padania del Nord-Nord-Nord-Nord-Nord… continuava a
rimpicciolire, PERDENDO SEMPRE NUOVI MERIDIONI, dall’altro diventava sempre
più bella e verde e vivibile… finché, verso il mattino, l’ultimo sogno, il
più puro di tutti, non mi ha dischiuso
PIANEROTTOLANIA
Ah, com’era bello e verde il mio pianerottolo… !
Epperò c’era quell’odiosa famigliaccia della porta accanto… ”
Ciao. Lucio
Sinceramente, Biondillo: davvero non capisci perché il tuo discorso abbia fatto venire in mente a Lodoli quell’aneddoto? Basta rileggere la tua tassonomia e notare come ad ogni categoria – tranne che alla tua, quella degli anomali – si associno dei difetti che inficiano o vanificano gli indiscutibili pregi. Restando sulla metafora spaziale o geografica, a me viene sempre in mente l’esempio della mappa. A New York, molti anni fa, vidi un atlante del mondo (di quelli appesi a parete) diverso da quelli a cui ero abituato. Al centro, anziché avere l’Europa, c’era il continente americano. Quando tornai a casa e ne parlai con alcuni amici i più mi dissero che quello era sbagliato e il giusto era il nostro. Perché fa riferimento al meridiano di Greenwich, perché non spezza il continente asiatico e via discorrendo. La verità elementare è che la superficie di una sfera non ha un centro. Lo si può stabilire per convenzione prendendo riferimenti arbitrari, come chi si appella a Greenwich; ma in generale la maggior parte delle persone situa questo centro dove lui vive, e vede e ragiona solo in base a quelle prospettive di senso. Ecco, io credo che la vexata e polverosissima quaestio dell’ombelicalismo in letteratura stia tutta qui, nell’incapacità di sentire la marginalità della propria condizione esistenziale; che è forse l’unica cosa che accomuna tutti. Ed è un paradosso affascinante, perché suggerisce che solo chi sia consapevole della propria perifericità sia poi in grado di parlare a tutti, di rendere universale e riconoscibile la sua personalissima esperienza di vita. Meneghello diceva che il punto di partenza è sempre autobiografico, sia che si scrivano noir, saghe spaziali o diari, ma non dev’esserlo il punto di arrivo; perché qualunque frammento di fantasia o di esperienza personale, per ordinaria che sia, contiene in sé gli elementi costitutivi della realtà a cui appartiene, quasi lo schema essenziale, i semi del proprio significato, una specie di DNA del reale. Compito di ogni autentico scrittore è quello di estrarre, svolgere e convertire in simbolo e paradigma questo DNA. Càpita allora che libri come “I cani del nulla” di Trevi, che ribadisce nel sottotitolo “Una storia vera” il proprio autobiografismo, o “Corpo” di Scarpa, che pare la circumnavigazione di se stesso e che inizia con la perlustrazione del proprio ombelico, risultino meno solipsistici ed autoreferenziali di un romanzo storico scritto da un inglese e ambientato nella Ciociaria dell’ottocento.
E non è questione di “crederci”, perché ci credono tutti in ciò che scrivono; e nemmeno dell’ “urgenza” o della “necessità”, perché a tutti “scappa” di dire le proprie stronzate.
E’ solo questione di talento, un dono che si riceve e che si deve saper restituire, qualcosa in grado anche di privarti della titolarità dei tuoi enunciati, facendoti dire ciò che non sapevi o non volevi dire.
“Ma basta parlare di me, parliamo di voi: cosa pensate di me?” Oscar Wilde
Io sono talmente anomalo che nemmeno sapevo il significato di “iperurani”: l’ho cercato su Google…
…se non ricordo male fu un sociologo ad affermare che … “è bene ricordare che, a parte una trascurabile eccezione, l’intero Universo è composto dagli “altri” ” … ;)
L’aneddoto di Lodoli su suo padre mi ha divertito molto; però mi pare un po’ presto per fare il processo alle intenzioni. Biondillo è partito da poche categorie (in realtà, a mio avviso, se ne potrebbero creare di innumerevoli, pari al numero degli scrittori…) per cercare di capirci qualcosa in più. E io ho accettato questo scambio per la stessa ragione. Ciò che Gianni ha scritto nel suo commento è vero: si cerca umilmente di capire, soprattutto. Ma per fare questo sono indispensabili gli altri, quelli che nella letteratura ci sguazzano da molto più tempo.
Grazie, Sergio, trovo molto pertinente quello che scrivi.
(L’esempio del planisferio è una cosa che mi ossessiona da anni, tra l’altro).
Insisto: io sto cercando di capire. Non difendo nessuna categoria (e perché mai, poi?)
Forse è vero che trovo i difetti negli “altri” perché non voglio vedere i miei. Sono qui per questo. Se avessi voluto “parlare male” degli assenti non avrei messo in pubblica piazza questi miei pensieri.
Non c’è malizia, insomma. Credici.
In oltre: sottoscrivo tutto quello che dici, e due volte sottoscrivo: “Meneghello diceva che il punto di partenza è sempre autobiografico, sia che si scrivano noir, saghe spaziali o diari, ma non dev’esserlo il punto di arrivo”.
a suivre
Volevo dire una cosa a Sergio. Secondo me, ci sono quelli che non ci credono. Perchè dovrebbero crederci tutti? Io ci credo, tu ci credi, egli… non ci crede. I mestieranti. Non ditemi che non è pieno, di mestieranti. Un mestierante non crede fino in fondo in quello che fa.
Meneghello, si. Tutto giusto. Oppure no?… Autobiografico dev’ essere il punto di partenza, mai d’arrivo. Secondo me, invece, si puo’ pure finire in pieno autobiografismo, non essere per niente universali, ecc.
La domanda da farsi, semmai, a mio avviso è: “Cosa mi ha lasciato questo libro? Quanto ha inciso su di me? E’ passato senza lasciare traccia tra una dormita e l’altra o mi ha scosso dal mio torpore?”.
A me il commento di Lodoli e la Pianerottolania hanno ricordato una bella poesia di Leonardo Zanier (Identitât), col risultato che mi sono dimenticato quel che stavo per scrivere.
No, eccoci, due cose:
– le tre categorie mi vanno bene, non sono certo che i “veri scrittori” sappiano necessariamente degli uomini più dell’iperuranio. A lavorare attorno alla scrittura c’è rischio di vivere in uno zoo.
– le tre categorie mi vanno bene se sono limitate alla narrativa. Se il poeta è uno scrittore, non campa mai con i diritti, difficilmente di ciò che ruota attorno, e quindi normalmente è anomalo. O serve un’altra categoria? Forse quella degli scrittori della domenica di Angelini?
(io sono uno scrittore del sabato pomeriggio)
Vincenzo, io la domenica non scrivo. A parte che nei blog…;-)
bellissima questa frase di sergio garufi:
” E’ solo questione di talento, un dono che si riceve e che si deve saper restituire, qualcosa in grado anche di privarti della titolarità dei tuoi enunciati, facendoti dire ciò che non sapevi o non volevi dire. ”
ma io toglierei ”qualcosa in grado anche di privarti della titolarità dei tuoi enunciati”.
Sono un chimico anomalo: scrivendo mi guadagno da vivere e mi posso permettere il lusso di mantenere la mia attività creativa di scienziato. In università a stento mi tollerano, e son terrorizzati dai miasmi e dalle luce radiante che passano sotto la sconnessa porticina in legno del mio laboratorio, incastrato, giù nella cantina del dipartimento, tra caldaia e magazzino…
Va beh, basta. Gianni, quando mi passerà il 38 di febbre e mi tornerà pure la voce, proverò, come ti ho promesso, a dire qualcosa di sensato. Adesso sono cotto, stracotto. Anzi, brasato.
Caro Gianni, la difesa della propria categoria è
un peccato che appartiene a tutti, e so bene che non intendevi fare l’apologia di te stesso. A volte penso che dipenda dal fatto che la nostra weltanschauung si esprime fin nelle cose e nei gesti più quotidiani, spesso inconsapevolmente. Io mi lavo i denti in un certo modo perché credo che sia il migliore, che così si debba fare; e forse solo l’evidenza incontestabile dei conti stratosferici del dentista riuscirà a convincermi del contrario. Ecco perché amo Cioran e Manganelli: perché col proprio esempio cercano di instillare nella coscienza altrui un po’ di sano schifo di sé. Detto questo, confesso pure la mia idiosincrasia verso le tassonomie – la tua o quella di Northrop Frye – che come Todorov considero la spia della semplificazione. Sono talmente arbitrarie e congetturali che hanno senso giusto come scherzo pedante, come parodia e caricatura del desiderio di incasellare la realtà sfuggente delle cose. Un perfetto esempio è la tassonomia borgesiana che compare ne
“L’idioma analitico di John Wilkins” (quella da cui prese avvio “le parole e le cose di Foucault), e che divide gli animali in a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c)ammaestrati, d) lattonzoli, e)sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h)inclusi in questa classificazione, i) che si agitano come pazzi ecc. Sono categorizzazioni prive di senso a maggior ragione oggi, cioè in un momento in cui cadono le barriere fra i generi e vige la contaminazione. Ieri citavo “I cani del nulla” di Trevi: dove lo mettiamo questo libro inclassificabile? La miglior definizione che ho letto ne parlava come di ‘un saggio autobiografico’, ma è una definizione che scardina i soliti schemini; praticamente un ossimoro. Investire sulla prima persona o sulla terza, sulla guerra in Iraq o sulle proprie delusioni d’amore; tutto ciò fa riferimento alle intenzioni, non garantisce assolutamente nulla. La domanda da porsi è quella di Franz: ‘cosa mi ha lasciato questo libro?’ Solo questo è ciò che distingue la buona dalla cattiva letteratura, ‘uno che scrive’ da ‘uno scrittore’.
Leccatemi bastardi non talentuosi leccatemi!
Sergio, d’accordissimo, ma io NON parlavo delle opere. Io ho la prova provata (ed è nei libri che ho letto) che “iperurani”, “veri scrittori”, “anomali”, “cazzi&mazzi”, tutti hanno chi scritto un libro di merda, chi un grande libro. Non dico assolutamente che solo quella “categoria” può scrivere un bel libro o l’altra non può che scriverene uno “brutto”. Sto cercando di aprire una porta, magari con il chiavistello sbagliato, spero che nei prossimi interventi si chiarisca quello che intendo.
A proposito, che me l’ero dimenticato la volta scorsa. La bellissima battuta del padre di Lodoli non è del padre di Lodoli. L’ho vista in tivù, tantissimi anni fa, fatta da Gino Bramieri. Un maestro, praticamente.
F.K.: infatti tu non sei uno scrittore della domenica…
Mi pareva di essere stato abbastanza chiaro. Gianni, se fossi d’accordo con me smetteresti di parlare di “iperurani”, “scrittori veri” e “anomali”, per la semplice ragione che io non credo alle tassonomie in letteratura, sia che esse riguardino gli autori (come la tua), o i generi(come quella di Fry in “Anatomia della critica”). E’ un concetto che deriva dalle scienze naturali ed è stato indebitamente applicato all’arte da pionieri dell’analisi strutturale come Propp; che difatti ricorreva spesso ad analogie con la botanica e la zoologia. I motivi della mia idiosincrasia ho cercato di spiegarli attraverso alcune citazioni (quella di Borges), ma potrei sintetizzarli con le parole di Todorov, quando scrive – riferendosi a Frye – che ‘dire che gli elementi di un insieme possono essere classificati significa formulare su questi elementi l’ipotesi più fragile che esista’.
Per usare un’immagine gaddiana cara a Carla Benedetti, mentre noi stiamo sulla ‘tolda traballante’ della nave a compilare schemi e repertori, la realtà fluida della vita ci sfugge
e ci confuta, cambia di continuo forma e posizione. Dividere gli scrittori in tre categorie significa ignorarne infinite altre, o postulare che non si può appartenere a più d’una. La tua tassonomia istituisce delle categorie puramente teoriche (oltre che arbitrarie e congetturali)e logicamente incoerenti (descrivi e critichi gli “iperurani” ammettendo di non conoscerne nessuno) perché lo impone il principio del tuo sistema, teso a postulare che fra gli “iperurani” come Eco, che non sanno niente della vita perché vivono reclusi nel loro attico d’avorio in P.zza Castello; gli “scrittori veri” che parlano solo di letteratura perché non conoscono altro; e gli “anomali” che invece hanno ‘uno sguardo obliquo’, ‘una capacità sincretica’ che attinge ai più diversi stimoli; i migliori siano naturalmente questi ultimi. Ora, confesso di non aver mai letto un tuo libro, però vedo spesso il tuo nome e la tua foto su Repubblica o Stilos, leggo le classifiche di vendita di TTL de La Stampa e noto con piacere che stai riscuotendo un notevole successo, che ti auguro continui ed aumenti. E se diventassi un ‘anomalo iperuranio’? Che faresti, t’inventeresti una categoria ad personam o ti appoggeresti al sillogismo bocardo (-gli “iperurani” non sanno quanto costa un chilo di pane -biondillo è un “iperuranio” -alcuni “iperurani” sanno quanto costa un chilo di pane)?
Bravo Sergio. E’ qui che voglio arrivare. Mi stai anticipando, maledizione!
Avete rotto il cazzo con ‘sti “iperurani”. Parlate (e scrivete) come magnate.
ma, mon Dieu, Massimiliano: io mansgio pvopvio comsà!
Ma nella scrittura, caro Sergio, sono importanti anche le distinizioni oltre che gli accostamenti. E una griglia di partenza (solo di partenza) può aiutare a riflettere. Non credo proprio che GB volesse fare sul serio. Osservava, rifletteva, descriveva e invitava a intervenire. Anch’io mi diverto a volte a creare categorie, meglio se paradossali e provocatorie, ma non mi sogno di ignorare davvero gli infiniti incroci, i milioni di colori e, in ogni caso, l’unicità di ogni voce.