Oggi è morta mia madre. O forse ieri, non so
di
Francesco Forlani
Quando ho telefonato ai miei fratelli e sorelle per chiedere com’era andata la cosa, già alla prima chiamata non riuscivo a ricordare se il fatto era successo l’otto, il nove o il dieci novembre, di un anno fa. Ma non ho detto niente, se non che quanto loro, forse di più, mi rammaricavo del non esserci stato, causa di forza maggiore – il lavoro prima di tutto, lo sai, mi aveva ripetuto alla vigilia la sorella più grande, mamma lo diceva sempre – e che mi faceva piacere saperli tutti e cinque insieme.
E’ stato con mio fratello Geppi che ho potuto esternare il dubbio che ormai oltre al fastidio che ogni dubbio porta con sé si accompagnava al dolore di una consapevolezza, ovvero di non essere all’altezza di quel dolore, di non governarlo, gestirlo, appropriarmene come se in quella distrazione, incertezza del ricordo, si annidasse un piano di fuga. E mi ha leggermente confortato il fatto che nemmeno lui si ricordasse, immediatamente, precisamente, la data del decesso.
Se non esiste un quando, non potrà gioco forza nemmeno esistere un dove. Ecco allora che nel caso di mia madre un solo aggettivo prevaleva sugli altri; non defunta, morta, spenta, estinta, ma scomparsa. Ora si sa che le cose che scompaiono un giorno potranno riapparire un altro e per quanto non ci sia nulla di più doloroso di una inutile speranza, pur di speranza si tratta.
In francese lutto si dice deuil. Deuil ricorda l’italiano doglie, come le doglie di un parto, e basta tirare una linea tra queste due parole, un tratto in treno da Bardonecchia a Modane, per scorgere d’un colpo un unico filo tra nascere e morire. Il riferimento alla lingua francese me l’ha suggerita forse l’associazione tra la mia disattenzione e quella del protagonista de l’Étranger, Mersault in uno dei più struggenti incipit letterari.
Scrive Camus: Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo”
Qualche anno fa mi era capitato di ascoltare alcuni dei capitoli dello Straniero letti dall’autore in persona. In quella voce si trovavano tutte le chiavi dell’opera. Le parole attraverso la voce di Camus avevano quasi un altro significato e comunicavano qualcosa che nemmeno un accurato studio avrebbe potuto rivelare.
Albert Camus legge Lo Straniero.
L’unico, secondo me a esservi riuscito in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Buzzati, quando raccontando (Cronache terrestri) l’incontro con Albert Camus lo descrive così:
Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.
che in un’edizione francese diventa:
Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste
Cherchez l’erreur
Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Evvai…
Insisto su questa storia delle cattive traduzioni perché proprio un caso del genere mi ha fatto riflettere sul perché non mi ricordassi non dico l’ora ma il giorno in cui è scomparsa mia madre.
Nell’edizione inglese esistono infatti (cito da wikipedia) tre versioni di quell’incipit.
Gilbert translation: “Mother died today. Or, maybe, yesterday; I can’t be sure. The telegram from the Home says: YOUR MOTHER PASSED AWAY. FUNERAL TOMORROW. DEEP SYMPATHY. Which leaves the matter doubtful; it could have been yesterday.”
Ward translation: “Maman died today. Or yesterday maybe, I don’t know. I got a telegram from the home: Mother deceased. Funeral tomorrow. Faithfully yours. That doesn’t mean anything. Maybe it was yesterday.” (“Maman” is an informal French term translating to “Mom.”)
Laredo translation: “Mother died today. Or maybe yesterday, I don’t know. I had a telegram from the home: ‘Mother passed away. Funeral tomorrow. Yours sincerely.’ That doesn’t mean anything. It may have been yesterday.”
Solo una delle tre versioni, restituisce seppure non a fondo, lo slittamento di senso che Albert Camus introduce nella narrazione, passando dal familiare e colloquiale maman del figlio al freddo e burocratico , mother del telegramma.
Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile: «Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.» Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.
Del resto nel primo caso la mamma muore mentre nel secondo decede. Mi dico allora che in quella forma colloquiale, mamma, mà, diremmo oggi, si racchiude un atto di resistenza, all’ineluttabilità della morte. Dico mà come se lei fosse presente e mi rivolgessi a lei – come quando mia madre mi telefonava in Francia e lasciava dei messaggi in segreteria che erano delle domande, ovvero presupponevano un interlocutore che evidentemente era assente. “Tutto a posto? Verrai a Natale? Se devi lavorare non fa nulla…” eh già. E io quando ascoltavo la registrazione le rispondevo – o ero tentato di replicarle – in differita. Ecco perché non riesco a formularmi la parola madre, oggi e più che mai la frase, mia madre è morta. Solo mà mi viene da dire e in certi momenti penso perfino di chiederlo a lei: mà, tu quando ci hai lasciato?”
ps
Quando un anno fa, circa, successe il fatto, al mio ritorno in rete, dopo una quindicina di giorni trovai delle autentiche e spontanee testimonianze d’affetto. Non li ho mai ringraziati né ho detto loro quanto servirono quelle parole. Lo faccio ora.
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[ sans paroles ]
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dopo tanta pioggia come per incanto……. il sole
“Che cos’è il tempo? Se non me lo chiedi lo so; ma se invece mi chiedi che cosa sia il tempo, non so rispondere”.
Agostino
leggo l’esigenza di fuggire dal personale, nell’analisi linguistica la comunanza disarmante di chiunque, spoglio nel dolore.
(………)
“Solo mà mi viene da dire e in certi momenti penso perfino di chiederlo a lei: mà, tu quando ci hai lasciato?”
io invece le domando sempre: “mà, quando torni?” :-)
a me cade tra 2 giorni, comincio a confondere l’anno, se sono 2 o 3 o 4 anni…tutto confuso. ma la data me la ricordo bene, è la stessa di mia nonna, sua madre e la chiamava, anche lei diceva “mà…” mentre si allontanava con l’occhio appannato, ma fisso su qualcosa o qualcuno che stava aspettando. tutti abbiamo qualcuno da aspettare.
grazie di questo tuo ricordo che è anche un poco il mio, carissimo francesco.
un forte abbraccio
Grazie di tutto questo. Francesco.
Proprio così.
Giovanni.
E’ capitato anche a me, col babbo. E’ capitato che stai come un cane, e non soltanto lì, al momento, ma anche per un paio d’anni. Poi elabori? Poi… Poi decidi che hai elaborato.
E’ capitato anche che “L’étranger” sia la pietra d’angolo della mia vita (oltre che della mia libreria): fate pur voi l’equazione, per me non ci vogliono né parole né tempo. Ci vuole soltanto un dolce, lunghissimo silenzio.
Caro Francesco, in una lettera a Franz Haas, datata 8 ottobre 1996 Anna Maria Ortese parla di suo (di Franz) padre appena “partito” e scrive:
“La vita su Suo Padre sembra chiusa; ma nulla si chiude. Voi tutti che lo avete amato lo portate in voi, per sempre, come una rara ricchezza. Lacrime e gioia insieme, per sempre. E di lui che era così amato, chi può assicurare veramente qualcosa sul Suo oggi?
In realtà, ciò che è nato non muore mai. Solo, tramonta. Ciò che vale per il sole può valere per le anime. Non cessano, scompaiono dalla nostra vita.
Continui a parlare con Suo Padre, gli dica che gli vuole bene – lo ringrazi di quanto ha ricevuto insieme ai suoi fratelli. Era un uomo buono – cosa rara – questo l’ho capito anch’io.
E non dica mai la parola “morto” parlando di lui alle bambine. Dica “partito”. Si abitueranno a non credere alle pur rispettabili apparenze. A non credere solo agli occhi”.
Credo fosse sabato 10 novembre…
Sono date che non dimentico: (14 novembre 2005) e (30 gennaio 2006) ed ora che ne ho accennato non posso continuare il mio ragionamento…
L’anniversario della morte di mia madre sarà il 16 dicembre, sono passati 18 anni e ancora non riesco a pensare con il cuore che non la rivedrò mai più. Chi mi conosce dice che da come parlo di mia madre sembra che sia ancora viva. Io penso che se si alimenta il ricordo di qualcuno, attraverso le piccole cose quotidiane, i ricordi spiccioli, le cose buffe, i modo di dire propri, la persona continua a vivere. E’ un pò l’essenza di certa letteratura sudamericana, la morte è solo un passaggio.
Ma nella morte di una madre c’è sempre da parte del figlio/a una mole di non detto, di non fatto, di “avrebbe potuto essere” con la quale non si riesce mai a fare i conti del tutto. L’ultima volta che ho visto mia madre viva nel reparto del policlinico di Napoli, abbiamo litigato, come sempre accadeva quando i nostri caratteri così simili si incontravano e si scontravano. Sono tornata a Roma con un dolore già ben radicato nel mio cuore. Dopo pochi giorni il telefono ha squillato alle 6 di mattina e io ho rivisto mia madre sul tavolo di marmo della camera mortuaria dell’ospedale. Non ci sono state ultime parole, mani che si stringono come ad afferrare l’ultimo soffio di vita, lacrime silenziose. C’è stata la nuda, evidente freddezza della morte. Forse per questo mi viene spontaneo pensarla ancora nei suoi modi di essere terreni, a volte eccessivi, che non passavano inosservati; forse per questo ho una sua foto da giovane con me in braccio, accanto a due foto sue da bimba, e accanto non lumini, non fiori, ma un campione del suo profumo preferito: mia madre era prima di tutto una DONNA.
Scusate questo lungo sproloquio, ma leggendo le bellissime parole di Francesco, in questa domenica mattina uggiosa, a ridosso del mio anniversario e in procinto di cominciare una radioterapia per combattere il male che si è portato via mia madre, le parole mi sono sgorgate spontanee e inarrestabili. Alcune cose non si elaborano mai.
Grazie Francesco.
Credo che quando mia madre se ne andrà mi sentiro’ molto ma molto meglio.
Bel pezzo furlèn!
subentra uno stordimento.
dopo un po’ viene fame.
ci puoi mettere un paio di settimane prima di versare una lacrima.
post bellissimo.
asciutto.
alcune cose non si elaborano mai, rimangono sospese, assurde e si continua a parlare in differita e li si tiene vivi. E’ molto bello il post
lucia
mancano i nostri, si allontanano, “scomparsi”, ombra traccia eco cicatrice, dentro noi; nelle culture africani una persona “muore” definitivamente quando muore l’ultimo che ha un ricordo di lei..V.
quando mia madre ha cominciato a vacillare sono emersisensi sensi di colpa misti a malinconie ma anche rabbia, sono stata un giudice terribile, mi faceva rabbia la sua mancanza di egoismo, il suo personale modo di amarmi. ben bene ho analizzato ogni emozione per assassinarla. provavo un senso di pudore nel riconoscere che il suo affetto era assolutamente gratuito, forse la forma d’amore + pura che possa esistere.
più che uno ‘slittamento di senso’ m’è risultato uno smottamento, un terremoto dei sensi tutti, letterali e illetterali…
grazie anche da parte mia
gianni
A proposito delle voci. L’appropriarsi di una voce mi pare sia una forma particolare di antropofagia. Sarebbe interessante sapere se esistano degli studi in proposito.
Grazie, una finestra sul ricordo che rimorde.
Sarebbe bello riservare ai vivi la stessa energia di pensiero che dedichiamo loro, da morti. Ma un genitore è più difficile rispettarlo, che ricordarlo.
macondo tieni conto che quando si ascolta davvero una voce il tuo corpo e la tua laringe prendono la stessa forma, in qualche modo la tua voce diventa la voce dell’altro. E la voce tra gli strumenti musicali è il più emotivo, quello più direttamente collegato con la radice del tuo respiro. Una sorta di antropofagia reciproca. Mi informo di nuovo, ma mi pare che sia stato Alfred Tomatis a studiare quello che ti ho detto all’inizio.
nei momenti immediatamente successivi alla scomparsa di chi mi è stato vicino mi sono sorpresa per le strade che prendevano i pensieri, scomposti: fughe, non potevano essere altro.
Ferma invece la speranza, come dici bene tu, che si trattasse di una semplice scomparsa transitoria. In ogni caso uno spostare in là.
A proposito di Buzzati, mi viene in mente il racconto “I due autisti”
L.
Per te Francesco,
Quando ho letto, ero senza parola.
Il cuore in due.
In questo momento, dopo un anno fa’
vorrei raccogliere tutto il calore nelle miei mani
e fare un gesto dolce sul tuo volto
una carezza dolce con un murmuro.
Il tuo pezzo, effeffe, è qualcosa di intense che tu offri,
una parte de tuo cuore.
véronique
Queste parole, così come la voce di Camus, riecheggiano di una potenza sublime e mi fanno pensare a quanto i legami familiari siano banali e allo stesso tempo profondi, insondabili.
E’ proprio come dici… è come se tutto quello che è iniziato con la nascita/la vita, trovasse il suo senso e la sua reale pregnanza soltanto nella morte.
grazie!
g
caro Francesco, mia madre è “partita” cinquantasei anni fa, ma non c’è notte ch’io non la pensi e non parli con lei. Il dolore del bambino non era nulla rispetto alla disperazione dell’adulto. Ti abbraccio.
Credo sia un modo per ignorare la morte.
Grazie, per aver condviso con noi un pezzo così imporatante.
@ lucia
antropofagia recicproca, dici. May be. Ma nel caso della voce d’una persona (d’un artista o scrittore scomparso, poniamo) come la mettiamo con la reciprocità? Qualcosa mi dice che c’entra anche una sorta di sindrome di Zelig.
errata corrige: nel caso d’una persona scomparsa
te souviens-tu francesco…nous étions à Nice, assis sur un mur dos à la mer et tu as regardé passer une petite dame âgée. Tu m’as dis : elle me fait pensée à ma mère…
je t’embrasse
mimma
@ macondo
è un modo di usare le possibilità mimetiche (che io chiamo capacità d’ascolto e Tomatis postura d’ascolto) e anche se con una voce registrata è meno evidente che dal vivo se gliene dai la possibilità ( e ascoltare qualcosa che ami o ti tocca facilita) il tuo corpo si mette in modo simile e ti arriva qualcosa di più profondo e diretto e “sei” l’altro per un momento. E anche “scomparso” nella voce rimane lui vivo. Se è dal vivo succede vicendevolmente e io lo uso per insegnare. Un mio pensiero forse sciocco è che questo sia il motivo per cui la voce esercita un fascino più immediato degli altri strumenti e in genere arriva più velocemente in luoghi profondi. Pensa alla viola d’amore che aveva doppie corde: la prima vibrava perché toccata, l’altra per simpatia in modo quasi uguale. Gli ascoltatori sono le seconde corde.
@ effeffe
…
…
Ô mère, c’en est fini de ces questions remâchées au long des ans,
dans l’usure de toute résignation, comme une herbe d’amertume.
Ô mère, un oiseau m’a donné la seule réponse. De deuil en deuil,
il a fallu toute une vie, toute ma vie pour recevoir enfin ce don
immérité: le secret qui va nous joindre.
Ô mère, écoute: il n’y a plus d’ailleurs.
(Gustave Roud, Requiem)
La mia adorata madre se n’è andata poco prima di quella di Francesco, ricordo la vicinanza del periodo proprio qui dal blog che ci fecero le condoglianze. Credo che il modo di sentire queste cose sia unico e personale in modo quasi incomunicabile. Io per esempio non sarei mai riuscita a fare accostamenti intellettuali con questa tragedia. Non lo so, io sono disperata e non lo “elaborerò” mai né forse me ne importa. Da quando mia madre se n’è andata io sono come impazzita, mi si è rotto qualcosa dentro, sono ancora qui ma non sono più io. Già prima mi restava oscura l’espressione “elaborazione del lutto”, ora mi suona falsa. Ho tantissima energia, vado avanti per reazione, non mi frega più niente di niente e non mi sento vicina o compagna di sorte a nessuno, pur con il massimo rispetto per tutti. Ecco, fatta anche da parte mia un po’ di confessione. Un abbraccio al caro Francesco.
Caro Francesco, ho letto questo tuo pezzo con una sorta di incredulità. Dentro di me pensavo: ma ci riuscirà? Davvero ce la farà fino alla fine?
Ce l’hai fatta. E’ un piccolo capolavoro di mimetismo. Psicologicamente è insidioso. L’evento di cui parla – un evento importantissimo per ogni appartenente alla specie umana – è descritto in maniera laconica, per non lasciare trasparire una sola goccia di emozione. Hai alzato una serie di schermi impenetrabili, il non ricordare la data esatta, e poi Camus e lo straniamento, il concetto di intellettuale ecc. Tutto per trasfigurare un processo di rimozione. Nel tuo testo, che viene filtrato e decantato fino a rappresentare una campana di vetro il cui contenuto sembra ignoto, io posso cercare senza trovarli riflessi del mio dolore, o della mia preoccupazione (mia madre è tutt’ora vivente), e resto col fiato sospeso per tutto ciò che qui viene non detto e non mostrato.
Ma: come diceva Jimi Hendrix: “io voglio scoprire quello si nasconde tra le note” la campana di vetro lascia trasparire ombre, immagini. E tra il non detto e il non mostrato c’è un intero mondo.
scriverne è l’unica soluzione
caro franzisko, leggendoti ritrovo qual è il pregio dei saggisti migliori: intessere la vita con la letteratura, far vedere come ogni fatto della vita abbia un ordito letterario, che solo ci aiuta a comprenderlo appieno, a compierlo. Come questo tuo pezzo, che porta a compimento il lutto.
Non c’è nulla di più soggettivo come l’elaborazione del lutto di un familiare stretto.
E’ un distintivo senza chiacchiere della maturità.
Riprendersi il più velocemente possibile da un tale evento probabilmente è ciò che desidererebbe il familiare che ci ha lasciato.
Oppure è la strada che ci preserva di più dall’infezione dei globuli di dolore che scorrono in vena.
Sono vicino, Francesco, anche se non sembra, anche se mia madre è ancora in vita.
Dario
molto bello.
Splendido pezzo, sul valore catartico della letteratura. A un corso di traduzione letteraria in pillole faccio tradurre a laureandi oberati racconti scritti dopo l’11 settembre 01, e ciò che ne esce sono i lutti personali che ciascuno alberga: il babbo, l’amica…
Il mio l’ho nascosto, o rivelato, in due righe di commento ad una traduzione. E leggendoti ho gioito al pensare che quel che resta di mia madre (1 anno, 2 mesi e 2 settimane) sta là, FISICAMENTE al confine tra Bardonecchia e Modane, e se non fosse in un’urna oggi sarebbe sotto la neve.
“Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista”.
è tutto in quel “grazie a Dio”, il significato di questa descrizione.
quando un paese disprezza i propri intellettuali già dall’aspetto fisico (dove ci si rallegra di non trovare segni dell’intellettualità nel soma di uno scrittore francese) è predisposto ad ogni ulteriore forma di stupidità.
come quando, anche qui, non si può scrivere la parola “intellettuali” senza pre-mettere “i cosiddetti”.
“i cosiddetti intellettuali”.
la voce, la letteratura intessuta con la vita, mà é anche la nostra terra…ho appena finito di leggere il tuo libro e questo pezzo mi sembra una sua parte integrante. A presto
Bello.
bellissimo
“Dico mà come se lei fosse presente e mi rivolgessi a lei – come quando mia madre mi telefonava in Francia e lasciava dei messaggi in segreteria che erano delle domande, ovvero presupponevano un interlocutore che evidentemente era assente. “Tutto a posto? Verrai a Natale? Se devi lavorare non fa nulla…” eh già. E io quando ascoltavo la registrazione le rispondevo – o ero tentato di replicarle – in differita”.
e questo.
Le voci sono la cosa che più si ha paura di dimenticare.
Ed anche di risentire, avendo la fortuna di averle registrate.
In questo film bellissimo, INCOMPRESO di Comecini, che mi ha inquietato molto da bambina, quella prova lì di chiudersi occhi orecchie e non respirare soprattutto, c’è la cancellazione per sbaglio di una registrazione su nastro della voce della mamma durante un temporale.
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Io sono un appassionato di scritture autobiografiche, soprattutto ora che “autobiografia” è diventata una parolaccia. Il famigerato ombelico, quando per miracolo si eleva a specchio del mondo, è la cosa che mi interessa di più in letteratura. Questo pezzo di Francesco, che a mio avviso è fra gli scritti più belli che abbia letto su NI, ha molti pregi. In primis quello di spingere il lettore a confrontarsi col proprio vissuto, a ricordare i propri lutti e le proprie dimenticanze. E qui il supporto, il fatto che sia su un litblog anziché su carta, fa la differenza, nel senso che permette al lettore questo confronto immediato, lo pone subito in relazione attiva con l’autore e il suo testo. Affinché questo si verifichi è necessario che la voce che ascoltiamo abbia una proprietà transitiva, non venga confinata sulla pagina. Di solito succede per un effetto combinato di riconoscibilità e sorpresa, ossia quando dice qualcosa che pensavamo ma non avevamo mai espresso. Per ottenerlo io penso che si debba partire dalla consapevolezza che viviamo tutti in un mondo senza centro, e che la marginalità è una condizione che ci affratella tutti. La morte di un genitore è uno di questi momenti rivelatori. Uno esce dalla funzione in chiesa, o dal cimitero, e vede che il mondo va avanti uguale, ci ignora bellamente, sulle strade c’è il traffico di sempre, i clacson, la gente che si manda affanculo, come se nulla fosse successo. Poi passano gli anni e quel lutto terribile si scontorna, non ricordiamo più certi dettagli. Per Francesco la data precisa della morte della madre, per me i tratti del viso di mio padre, che cerco di ricostruire guardando le sue foto. Sono dimenticanze che generano sensi di colpa, quasi fossero dei sintomi delle nostre vie di fuga dal dolore. Viene da chiedersi se quel trauma, che pensavamo costitutivo della nostra stessa identità, quasi come certe cicatrici che compaiono sui documenti come segni distintivi, non sia stato eliminato, rimosso dalla coscienza per quieto vivere. Ma non è così. Sono solo ricordi depositati nel profondo, che riemergono nei modi più strani e inaspettati. A Milano in questi giorni c’è una bella mostra su Magritte, uno degli artisti più saccheggiati dai pubblicitari e dai grafici. Ci trovi tante scolaresche che ammirano la sua solarità, quei gioiosi cieli azzurri e le nuvolette. Poi ad approfondire scopri che nelle sue lettere si lamentava di ricordare poco o nulla del suicidio della madre, avvenuto quando lui aveva 12 anni, e però la figura femminile con un velo che le copre il volto (sua madre si buttò in un fiume e fu ripescata con la sottoveste attorcigliata sulla faccia) ricorre frequentemente nella sua opera, è un’ossessione che non lo abbandonerà mai. Con certe cose non smettiamo mai di fare i conti.
sarà l’età, sarà che perdere significa dover assumere un maggior carico di responsabilità, sarà che a parlare di nascita e di morte, la banalità è sempre in agguato- anche perché entrambe sono banali, rispetto alle aspettative “letterarie” che contengono in sé-.
sarà per tutto questo, per la capacità di scriverne restando in equilibrio e schivando i pericoli. sarà perché il dolore e la solitudine sono così diversi da come uno se li aspetta.
che così, spontaneamente, mi viene da ringraziarti.
grazie francesco,
cristiano
chapeau!
r
L’elaborazione del lutto è una pia illusione. Si puo’ solo rielaborare. “Rivendere” la propria grande sofferenza. La propria perdita indissolubile. Voglio ancora più bene a Francesco dopo aver letto questo pezzo, questo tenero squarcio, questo amore rigato d’inchiostro.
Voce fuori dal coro (se si può).
A me, con tutto il rispetto per il tuo dolore privato, la scomparsa di ‘maman’ suona piuttosto letteraria.
Suona talmente letteraria che la letteratura non ha potuto fare ameno (sic) di affacciarsi nella tua commemorazione, con tanto di citazione.
Voglio dire: il pezzo è abbastanza bello, ma il dolore mi sa tanto di inautentico.
Mi lasciano basito gli attestati di solidarietà e di compartecipazione di ritorno che ho letto nei commenti: diciamo il cordoglio postdatato.
Non era questo che volevi.
Il dolore, quando c’è davvero, è una faccenda talmente privata che non ha bisogno di ‘complicità’.
Tantomeno di pubblicità.
Al massimo lo si vive da soli o lo si condivide con i diretti interessati.
Quello che volevi era ottenere ammirazione per essere riuscito a fare letteratura di te stesso, partendo da un piccolo pretesto.
Ci sei riuscito benissimo.
Dirò di più: con un approccio narrativo più posato, meno “veloce”, potresti tirarne fuori un ottimo racconto postmoderno.
Un racconto fatto di richiami al personale, citazioni congrue e rimandi pertinenti.
Un racconto che, zigzagando in apparenza, arrivi al cuore e alla testa di chi legge, direttamente o meno.
Un buon esempio di metaletteratura (mica facile!)
Il tuo spaesamento circa la data del decesso, e la relativa mancanza di dolore – leggi indifferenza – è rivelata proprio dal tenore della citazione.
A Mersault non importava niente che la madre fosse morta – una seccatura come un’altra nel mare piatto della sua indifferenza esistenziale, niente più che una complicazione burocratica (mi pare di ricordare che nella veglia lui poi accettasse di mangiare qualcosa e di concedersi una sigaretta davanti al cadavere della madre, cosa che scandalizzò non poco i presenti ed ebbe un peso non indifferente nel processo per l’assassinio dell’arabo sulla spiaggia).
Parentesi nella parentesi: della serie: farsi la barba o uccidere, che differenza c’è? (per gentile concessione del Vasco da bagno nazionale).
Questo è palese nel finale, quando scrivi:
– Dico mà come se lei fosse presente e mi rivolgessi a lei – come quando mia madre mi telefonava in Francia e lasciava dei messaggi in segreteria che erano delle domande, ovvero presupponevano un interlocutore che evidentemente era assente. “Tutto a posto? Verrai a Natale? Se devi lavorare non fa nulla…” eh già. E io quando ascoltavo la registrazione le rispondevo – o ero tentato di replicarle – in differita -.
“Come se lei fosse presente”, “mi telefonava in Francia”, “messaggi in segreteria”, “interlocutore…assente”, “quando ascoltavo la registrazione”, “le rispondevo…in differita”.
Segnali chiari, che il testo sottolinea, di una distanza – o indifferenza – e della recisione di un legame ombelicale madre-figlio che solo nella morte – ovvero in absenti corpore – può essere ricostruito o vagheggiato nel pensiero.
L’insistere sulle varie possibilità di traduzione è pretesto più che contesto, ed è anche questo spia della difficoltà di rapportarsi, a suo tempo, al “solido” di un rapporto mai giunto a pienezza o compimento.
Le disquisizioni accademiche sul “deceduta” o “morta”, su “mamma” o “madre” rafforzano questa impressione, come se il tutto (la vita) potesse ridursi più o meno all’uso preciso dei termini corretti.
Il rapporto tra “il marcio” (la morte) riferito agli intellettuali in traduzione (esiliati all’estero?) rispetto a un decesso concreto (quello della madrelingua) lo lascio a chi vorrò intervenire dopo.
Comunque una bella lettura.
(Segnalo un refuso: “Il riferimento alla lingua francese me l’ha suggerita”)
Mi segnalo un refuso personale:
“Il tuo spaesamento circa la data del decesso, e la relativa mancanza di dolore – leggi indifferenza – è rivelata proprio dal tenore della citazione.”
Perdònomi.
Altro autorefuso (marò’)
“lo lascio a chi vorrò intervenire dopo.”
(Magari dopo interverrò di nuovo, chissà, se non sarò bannato per l’eterno)
Io invece apprezzo e con-sento.
… secondo me sig. Sciola non è il pezzo a sfociare nella letteratura ma la letteratura ad invadere il pezzo come un salvagente cui lo scrittore si aggrappa per non colare a picco.
non è facile gestire un pezzo che parli del proprio dolore intimo, soprattutto quando a scrivere è un uomo, maschio, che deve parlare di “mamma” … dunque la letteratura, l’analisi linguistica, la citazione … non sono altro che un modo per nascondersi in ciò che è già stato detto sì da sentirsi meno a nudo, meno fragile, meno solo nell’esressione del proprio dolore.
poi, quelle che lei chiama “disquisizioni accaddemiche” non sono altro che semplicissimi collegamenti linguistici, di una naturalezza infantile quanto spontanea che qualunque persona, che ami le lingue e ne abbia fatto il proprio mestiere, compie in modo quasi inconscio… parola e pensiero sono l’uno dipendente dall’altro, per un traduttore questi passaggi si arricchiscono e si moltiplicano in un istante a dismisura… mi creda, parola di traduttrice.
Condivido pienamente il commento di Natàlia.
Nel testo bellisssimo di Francesco, c’è un pudore, una sincerità
che sottolinea lo stile sobrio.
E’ nella voce giusta, riservata che ho sentito l’anima, l’amore che un figlio ha per la sua mamma.
Si puo dire che questo amore si è sublimato nella scrittura come una lacrima nera sotto il sole.
L’immagine del deserto( accompagnando la voce di Camus) è questo: il cammino attraverso la solitudine della pena per raggiungere il canto.
Questo testo rimanerà nel mio cuore: solo qualche pezzo sul blog restano stampati nella memoria( “nella giostra della rete”, come lo diceva Franco Arminio)…
Una cosa io non ho capito:
si constata che si è fatta letteratura? (Figuriamoci, la scoperta!)
Oppure si vuol dire che non bisogna, o è troppo difficile,
fare letteratura di certe cose?
Perchè la figura banale del signor Ciola, a quanto pare a me,
non fa altro che ciurlare nel manico degli altri per far vedere
che lui ce l’ha più lungo.
Vizio evidente, dal momento che ogni suo commento segue sempre
e solo un unico canovaccio.
fratello,
dall’altra parte del mondo dove ora sto ti dico che, come tu ben sai, la porta di casa, come lo scorso natale, è sempre aperta. Ti abbraccio.