Sfide
di Sergio Nelli
In questo periodo mi viene di pensare spesso alla distinzione tra esserci ed essere sviluppata in modi diversi, tra gli altri, da Heidegger e da Sartre (che non sono nemmeno filosofi miei, ma che importa?). Ecco quella trascendenza dell’ente di cui parla Heiddegger, o la progettualità (la libertà ontologica che sbocca in progetti e in valori, in vie d’uscita) di cui parla Sartre mi sembrano mostruosamente compresse dall’imponenza granitica di quel che c’è. E’ come se tutti dicessero: non ci sono vie d’uscita; è come se ogni comportamento ribadisse che c’è un solo grande corso che si governa da sé. A ognuno di noi non resta altro che schiodare la rosa del futuro dalla croce del presente, ritagliarsi un giardinetto fiorito perché non sia mancata la festa, com’è giusto. La mostruosa bolla di idolatria scoppiata con la morte di Wojtyla e con gli assurdi festeggiamenti di massa per un nuovo papa retrivo e arroccato nella difesa di cose morte, mi sembra l’epifenomeno di un segno di impotenza collettiva, una totale perdita del senso di trascendenza dell’ente. Un’impotenza a cui non deve essere estraneo quel dislivello prometeico patito dagli esseri umani rispetto a un mondo supertecnicizzato incontrollabile e sproporzionato nell’offerta di cui parlava una quarantina d’anni fa il filosofo Gunther Anders.
Tutto continua ovviamente ad accadere! E, mentre da ogni parte vengono ammonimenti a un realismo che contribuiscono ad annientare la visibilità del possibile, invisibilizzando nel frattempo la devozione richiesta al Leviatano, in quella sfera che vorremmo più libera, più critica, più vitale, cioè il cosiddetto mondo della cultura, troviamo spesso un ansimare tra un bricolage di buoni propositi e il richiamo generalizzato a una necessità inattaccabile.
E’ in questo contesto, in questa disposizione di sensibilità, che ho letto tanti interventi, a partire da quelli di Carla Benedetti sulla “monocultura del best seller” (il primo s’intitola Genocidio culturale), fino a La restaurazione di Antonio Moresco, con il dibattito che ne è seguito.
Trovo davvero inessenziale mettersi a discettare sul termine, e mi pare anche strano che si pretenda per esempio da Antonio un discorso già sbozzato e rifinito in cui non si distinguano da subito le spinte antagonistiche, le forze buone e positive che ci sono. (mai come oggi, leggo sulla Restaurazione).
Viviamo d’altronde da tempo un fortissimo malessere e un senso di intossicazione e di asfissia e Moresco ha provato a dire alla sua maniera, con un forzare che non è mai malvagio, alcune ragioni di questa intossicazione.
L’oggetto che Kafka aveva pensato, privo di una qualsiasi ragione d’essere, battezzandolo Odradek, quell’oggetto oltre a invadere le nostre vite come realtà e cose e come industria pubblicitaria incaricata di stimolare la fame, di inventare bisogni, – come suggeriva Anders guardando al mondo determinato dalle ultime rivoluzioni tecnologiche – sembra avere intaccato sempre più profondamente e in maniera intollerabile l’impresa editoriale. Col risultato che ci troviamo invasi da una massa di merci senza distinzione che come un globster soffoca con il suo corpo in espansione le espressioni di creatività, indebolisce la forza che da queste potrebbe sprigionarsi, appiattisce il gusto, le aspettative, le differenze, la felicità, la qualità. Questa massa di parole di immagini di significati sarebbe l’unica risposta alle aspettative umane, ciò che una volontà senza soggetto vuole: tra le altre cose, una serie di linguaggi ridotti, impoveriti, dentro i quali non è più possibile combattere alcuna battaglia sugli stili, sui valori, sulle cose necessarie, sugli orientamenti, sugli orizzonti ecc. ecc.
Il fatto incredibile è che non troviamo solo l’industria che fa l’industria con il suo sistema pubblicitario; no, sulla stessa linea procede spesso una cultura da cui ci aspetteremmo sorveglianza, spirito critico, propositività, stimolo della creatività vera, distanza dalle logiche di potere e di danaro, e da cui invece si alza troppo spesso, almeno nelle risposte più visibili, più rumorose ed esposte, un cicalare semiserio, spiritualmente disinvolto, con una muta sempre pronta, con il canto all’occorrenza rivolto alle porte della qualità, tenuta, quando va bene, in aree protette e marginali, nascoste e disattivate.
Non c’è bisogno di andare lontano per trovare esempi di quello che ha sostenuto Shiffrin relativamente al libro di progetto (un Sartre, un Foucault, che non troverebbero accoglienza per le nuove logiche editoriali, il salto della sinergia del doppio binario – libri che vendono e libri necessari) o provare a immaginare che cosa sarebbero oggi Faulkner Kafka o Musil, come fa Antonio nella Restaurazione. Qualcosa di simile accade in ogni momento, sotto i nostri occhi.
Qualche anno fa è morto un filosofo importante: Cesare Luporini. Un uomo che tra esistenzialismo, comunismo, marxismo e attenzione al nuovo, ha coltivato in tutta la sua vita una grande passione leopardiana, gia sfociata in vita nel noto Leopardi progressivo. Ebbene, Luporini aveva lasciato tante cose su Leopardi. Il libro che le raccoglieva avranno detto: che era troppo lungo o troppo difficile, o senza mercato; avranno detto queste e altre cose che non so. Fatto sta che è uscito con un editore benemerito ma invisibile, per la cura di allievi ed estimatori. Neanche l’appartenenza di Luporini al PCI gli è valsa a qualcosa. Non c’è da stupirsene se l’unico scrittore citato dalle cronache come presente, con un messaggio di augurio, al congresso del più grande partito della sinistra italiana è risultata quest’anno Margaret Mazzantini, cioè un’ artigiana, una che costruisce corpi con cloni, qualcosa che più lontano dall’autorialità è difficile immaginare. Cronache peraltro, se si sta al cicaleccio, del tutto simili a quel che si legge sui giornali, alle pagine culturali, e siamo di nuovo a quello che Carla Benedetti chiama indistinzione tra recensione e promozione…
E allora? Dove sta quella forza di una cultura feconda che vorremmo sentire, quella trasformazione necessaria del dramma e della gioia, quell’energia e ciò che è di più e che ora non so evocare, quell’impulso alla gestazione del nuovo, e le ragioni dell’umano tutte dispiegate e quell’istinto e coraggio della giustizia? Ecc. ecc. ecc.
Responsabilità individuale, denuncia di “una resa alla spirito del tempo”, sfida. Propone Antonio. E anche Carla Benedetti si trova su quest’onda e altri che sono intervenuti nel dibattito dentro e fuori Nazione Indiana
A me sembra una gran bella cosa che sia possibile una sfida. Che si voglia prender la parola, pesare senza collusioni, senza devozioni, e far capire che quello che si vien dicendo è una cosa semplice e che talvolta anche le cose semplici possono apparire ermetiche, esoteriche, gonfiate, ieratiche, apocalittiche.
“C’è un certo grado d’insonnia, di ruminazione, di senso storico che rovinano, sino a distruggerlo, un essere vivente, sia esso un uomo, una cultura o un popolo”, diceva il giovane Nietzsche nella seconda inattuale e aveva ragione.
“Non è questione di avere nostalgia per un ruolo di maggiore potere per gli intellettuali e per gli artisti. E’ che l’arte è fecondativa (come il pensiero, come altre attività umane) e tende all’invasione” (Antonio Moresco).
Che si pensi di avere energie per uscire dalle insonnie e dai malesseri, dall’esaurimento indotto dai media, da tutto ciò che ci minimizza e ci tritura, potrebbe essere un gran bel sintomo.
Comments are closed.
Posto anche qui un commento già inviato alla Lipperini.
«Ricordo che anni fa, quando ancora *mi pregiavo* di frequentare la Fiera, a una presentazione dei Corti (EL) o Shorts (Mondadori Ragazzi), la magica Orietta Fatucci disse: “Sono l’editore, ovvero colei che COMMISSIONA ai propri autori i libri che di volta in volta le servono per le proprie collane”. Io, per fortuna, ero già stato estromesso dalla EL/Emme/Einaudi Ragazzi come autore, ma quella definizione di editore mi lasciò interdetto. La segnalo perché mi sembra ancora esplosiva e chiarificatrice dopo TANTO CONVEGNO:-)
Tutti dicono che l’intervento di Moresco alla fiera è stato bellissimo, proprio tutti. E’ stato bellissimo perché ha fatto quello che a lui viene bene, cioè parlare di letteratura in modo che la letteratura sia qualcosa che porta uno scossone. Per questo ha fatto una cosa che nessuno si aspettava: ha parlato della lingua italiana e ha letto il Cantico delle creature. Questa è la strada giusta, non basta denunciare le piccinerie di questo o quest’altro, la sfida (che è proprio la parola giusta) si fa proponendo bellezza.
ps Sono a pag 100 de “Lo sbrego”: è un libro meraviglioso. Davvero chi non lo legge è pazzo.
Si, caro Sergio, questo tuo bell’intervento, mi sembra chiarisca i termini della sfida, dia forma e corpo definito ai contendenti, anche storicamente (storia “nazionale” in molti sensi). C’è bisogno sempre di memoria e richiamo all’essere oltre i ruminamenti insonni o il torpore accogliente del nulla c’e’ da fare…. Sempre un bel sintomo il movimento, anche se litigioso: in fondo l’intenzione è quasi tutto nel processo di creazione di opere o di vita: scrittore, lettrice, fecondatore o fecondata che si sia (e miei sono i termini al femminile) . E poi agli scettici così come ai realisti possiamo ricordare un fatto: il fatto che un uomo come Berlusconi – dominato da un progetto ora piccolo piccolo, salvarsi e prosperare, ora irrealizzabile e irrealistico, ridare soldi ai ricchi fiato e agio ai ceti medi e qualche zampillo miracoloso ai poveri – sia riuscito a imporre i suoi sogni a una nazione intera. Il progetto, il sogno, l’utopia, se si anima di potere vince….. Io che sono anima-le mite opto per il potere “dentro” sapendo che più di tutti poi questo si estende al mondo.
Barbieri, Lo Sbrego sarà anche bellissimo e Chi non lo Legge un perfetto asino, ma detto da te, che lodi e adori assolutamente chiunque, incentiva poco:-)
(Ti xe massa bon!)
ma nessuno si è accorto che Moresco è incapace di parlare in pubblico? no? (chi ha assistito al suo intervento capisce a cosa alludo).