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Appunti su “Endoglosse”

Di Gherardo Bortolotti

Due aspetti, soprattutto, mi sembrano interessanti di Endoglosse di Marco Giovenale, dando luogo a quella che potremmo definire un’estetica della dichiarazione, che ritengo nuova e, probabilmente, decisiva per una letteratura in grado di offrire strumenti e modelli di esperienza per i nostri giorni.

Questa estetica, e la poetica che nel caso se ne deriva, si basa sull’idea che il testo (l’opera) non è tanto la testimonianza di una realtà che esiste a priori, ma ne è una delle fonti, diventando il dettato la traccia di un processo di azione sul mondo (un processo che dà luogo a ciò che poi si intende per reale). Da un punto di vista retorico, poi, questa operazione si fonda sull’interruzione della continuità del discorso, che smonta la simbolizzazione e, senza interromperla, la lascia alla deriva.

Il primo aspetto è sicuramente la dissipazione della voce narrante. “Il gelo intensifica le mani fino a dissiparle” scrive Giovenale nella glossa XV; allo stesso modo mi sembra che la freddezza dello stile (la glacialità della raccolta, per continuare la metafora) intensifichino il narratore fino a farlo scomparire.

Mi è capitato di leggere che la retorica degli asserti scientifici (un esempio paradigmatico di “espressione fredda”) si basa sulla dissimulazione dell’enunciatore e che proprio questa assenza “fonda” il valore scientifico degli asserti stessi. Si può spiegare questo punto considerando che il valore assoluto del dettato scientifico deriva, in sede retorica, dall’impossibilità di collocare la sua fonte, e quindi di relativizzarla a sé ed al mondo. In questo modo, le proposizioni della scienza si liberano dal soggetto che le esprime e si collocano autonomamente, come oggetti (quelli teorici, di cui parlano) nello spazio della nostra esperienza.

La voce narrante di Giovenale agisce in modo analogo, rinunciando al “calore” lirico o affabulatorio e sfruttando l’interruzione sintattico-semantica come fonte inesauribile di oggettività. Si intensifica e dissipa, infatti, grazie alla giustapposizione irrisolta delle proprie frasi: la distanza semantica tra di esse, cioè, utilizzando la forza di ciò che non viene detto, le lunghe catene di implicazioni che la loro incongruenza richiede per chiarire il dettato, carica il narratore di una forza quasi numinosa che l’azzera, attribuendo ai paragrafi un valore di verità autonomo. Le proposizioni, così, si installano nello spazio pragmatico del lettore come elementi assoluti e, generando il dato di cui dovrebbero essere testimonianza (il mondo? la realtà?), lo modificano, simili a megaliti che cambiano gli spazi della piana in cui vengono alzati.

Il secondo aspetto particolarmente significativo di Endoglosse è il valore di resto, per così dire, che sembrano avere le frasi di Giovenale. È come se, a monte, ci fosse un testo più ampio di cui restano, appunto, le frasi che abbiamo davanti agli occhi. Di nuovo, si noti, il motore di questa dinamica è la giustapposizione. Questa struttura, come ogni figura catalogica, presuppone o sottintende l’esistenza di un ordinamento coerente e, in questo modo, nel caso specifico dà luogo ad una dinamica centrifuga. L’incongruenza delle singole frasi le une con le altre, infatti, rimanda la coerenza tra di esse ad un altro livello, delegandola ad un ipotetico testo originale che riscatti, con la propria organicità, la compresenza delle proposizioni che si leggono ed il loro accostamento discontinuo.

Questa qualità residuale, di traccia, investe così il lettore di quello che mi sembra essere un incarico a ricostruire il testo “perduto”. Una ricostruzione che, in effetti, si limita all’esperienza della distanza tra i due testi ed alla percezione delle frasi lette come il risultato di un’operazione di ordinamento sul mondo, completata a monte dalle frasi che, non esistendo, non si possono che implicare. Il dato poetico scaturisce dall’ipotesi del testo ipotetico, se mi si passa il gioco di parole; un’altra volta, si tratta non di riportare la testimonianza di qualcosa, ma di occupare con un nuovo oggetto il mondo. Giovenale chiama le sue sequenze “preludi” e quindi in senso opposto ai “resti” di cui parlo; ciononostante mette sul piano lo stesso tipo di processo, proprio perché il preludio innesca qualcosa che lo segue.

Accanto agli aspetti appena considerati, vorrei sottolineare ancora tre cose. In primo luogo, come conseguenza di quello che ho detto, noto che le prose di Giovenale, per quanto apparentemente lontane da un’estetica realista, sono forse, al contrario, un esempio di come si può pensare un nuovo tipo di realismo. Questo “realismo nuovo” mi sembra porsi non tanto il problema di rappresentare il mondo (finendo per rappresentarne le rappresentazioni, declinandone i generi e gli stili) ma quello di modificarlo, per produrne ulteriormente. E questo, si badi, con un doppio livello realistico: da una parte, appunto, incidendo sul reale (nel suo primo esponente: il lettore); dall’altra sfruttando per questa manipolazione la realtà prima di un testo, cioè quella delle sue parole.

In Giovenale, infatti, grazie ancora alla forza della giustapposizione, si arriva ad un livello di icasticità tale che le parole perdono il loro valore di scambio, per così dire, ovvero smettono di essere solo mosse di un gioco linguistico (che azzera il testo nello spettacolo della scrittura/lettura) e mantengono invece intatto il valore d’uso, il miracolo vero e proprio della significazione, per cui una cosa diventa un segno ed un segno una cosa. E questa spoliazione, smontando e liberando la funzione simbolica, è necessaria alla generazione di quegli oggetti sintattico-semantici che il lettore non potrà che intendere come “pezzi di realtà”, proprio perché evidenti cose nel mondo e non semplici “indicatori di poetico”.

Il secondo punto è una considerazione che mi sembra inquadrare le cose già notate in un contesto più ampio, ed è la seguente. Al di là della possibile riformulazione del realismo, gli aspetti individuati e quella che ho chiamato l’estetica della dichiarazione spostano il quid della poeticità dall’interno del testo, dai suoi meccanismi (il cui riconoscimento dovrebbe generare il fenomeno estetico), al di fuori del testo, fondando l’azione estetica nella manipolazione dello spazio pragmantico del lettore e capovolgendo il modo invalso di intendere il poetico.

È importante intendere questo passaggio. Prima di tutto perché è da questo spostamento che nasce la “poeticità” di Endoglosse. In secondo luogo, ha un valore paradigmatico e, in questo senso, andrebbe letto come una proposta alternativa alla gran parte della produzione italiana di questi anni (che continua a credere che il valore del dettato sia funzione del soggetto retorico che lo enuncia). Infine ha una serie di ricadute che qui non si possono esaminare ma che toccano sia il valore dello stile, liberando il testo dal ricatto della “bellezza” o della “espressività”, sia la funzione autoriale, che si sposta dalla produzione alla collocazione di materiale testuale, sia, infine, il senso della fruizione, evitandole la trappola del giudizio estetico.

Per concludere, segnalo che parlando, per Endoglosse, di “voce narrante” anziché di “io lirico”, o di qualche altra funzione forse più propria a delle poesie (per quanto in prosa), ho cercato di cogliere quello che il testo propone nel campo della “prosa vera e propria”. Da una parte, infatti, le caratteristiche del testo di Giovenale suggeriscono un’alternativa anche alla narrativa contemporanea. In effetti, a fronte dell’elefantiasi della funzione “narratore” che basa, sull’onniscienza effettiva – non solo narrativa – argomentata dalle strutture metonimiche delle citazioni, sulla distanza morale e gnoseologica assicurata dall’ironia, sul valore “mistico” delle metafore, un carisma che le permetta di gestire almeno apparentemente quella materia parcellizzata, frammentaria e contraddittoria che è la realtà contemporanea, il narratore di Giovenale accetta il decadimento della propria autorità intellettuale e invita il lettore a ben altro impegno che non a quello di spettatore dei virtuosismi stilistici degli autori.

Dall’altra parte, infine, le stesse caratteristiche collocano Endoglosse in una terra comune alla prosa ed alla poesia in cui, al di la di questi due macrogeneri e delle varie articolazioni in cui la spinta narrativa e l’afflato lirico si dispiegano, si trova un spazio nuovo per quell’esercizio di misura che è la letteratura e che potrebbe essere interessante esplorare.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.