Continuiamo – parte 4
di Andrea Inglese
4. Chi saremo ora?
Helena Janeczek:
“Noi superstiti ci troviamo ora su un piano di maggiore parità, senza che in questo ci sia alcun merito. Ci sarebbe invece se riuscissimo a trasformarla in quello a cui credo mirasse Andrea Raos, usando la parola ‘fratellanza’.”
Andrea Raos:
“Vicinanze, non ne accetto (non è questo che intendevo con ‘fratellanza’): ma solo distanze – fortificanti, intensive. E queste distanze le desidero fra di noi (…) Nella mia vita di scrittore ed intellettuale sono sempre andato ad istinto, a prossimità fisica, per ricerche di accordi e disaccordi comuni che comunque apportavano qualcosa al dialogo.”
Helena Janeczek:
“Non siamo – sembrerebbe – pochissimi, almeno al momento, ma siamo senz’altro molto più deboli. Però credo che dovremo cercare di rovesciare questa debolezza, perché questa contiene per ciascuno di noi una grande possibilità di crescere, di rilanciare, di creare insieme. Perché ci chiama a impegnarci e a rimetterci in gioco di più, a confrontarci più apertamente. Tutto questo però assolutamente non in un’opposizione infantile a ciò che faranno i fuoriusciti: che per me restano compagni di strada su vie, in questo momento, divergenti.”
Cos’è che fa esistere un gruppo? Cos’è che fa esistere un gruppo di scrittori, intellettuali e artisti, oggi, provenienti da città, ambienti, formazioni tanto diverse?
Voltiamoci un attimo indietro. Che cosa ci ha fatto esistere fino ad ora?
Roberto Saviano (mail di maggio):
“La forza libertaria del sito e del gruppo risiedeva nella costruzione multiforme, non regolamentata, nella garanzia della libera scrittura. L’essere così realmente molteplice, non come un quotidiano liberale o come una trasmissione televisiva che garantisce il confronto di diverse voci per meglio far emergere vincente la propria. Non si trattava di dibattiti e confronti. Le idee e i pensieri si almanaccavano con la propria forza senza avere altra garanzia che il proprio impegno e l’articolazione delle riflessioni. Il valore aggiunto era questa capacità di seguire, di raccontare, di citare, di riversare nel vaso del sito. Attraverso le volontà e le sensibilità dei partecipanti, senza un canovaccio che garantisse tutti i tracciati ma lasciando che le scorribande, o i certosini orpelli, o le disciplinate riflessioni, o i frammenti più impuri, rappresentassero il nostro tempo e non solo. Un presente caotico che riusciva ad essere più completo dei più rigorosi composti giornalistici e dei più regolamentati luoghi di riflessione.”
Ora, è importante qui riconoscere i propri debiti. Colui che, fin dall’inizio, ha impresso all’esperienza di Nazioneindiana questo carattere libertario è stato senza dubbio Antonio Moresco. È stato lui il gran catalizzatore delle nostre solitudini. Lui per primo a scommesso sulle “distanze intensive”. Ed è stato così che, in NI, ci siamo trovati non in virtù delle nostre comuni e condivise appartenenze, ma in virtù delle nostre inappartenenze, delle nostre solitudini, del nostro statuto di orfani, disertori, infedeli. Incontrandoci in NI è come se ognuno avesse un po’ tradito il proprio gruppo d’appartenenza: editoriale, accademico, di genere letterario, di dottrina politica, ecc. Ognuno ha tradito un po’ la sua tribù, per ritrovarsi in NI con altri “barbari”, dal vocabolario e dai percorsi molto diversi. Spesso, poi, i tradimenti si erano già consumati da tempo. Come ha detto Giorgio Vasta:
“Non ho mai fatto parte di un gruppo, neppure di quello delle Giovani Marmotte quando ero bambino”.
Un gruppo di “cani sciolti”, dunque. In quest’ossimoro starebbe la nostra forza? Non solo. Io non ho mai vissuto, ad esempio, l’identità di “indiano” come qualcosa di esclusivo. Pur avendo fin da subito, e con passione partecipato alla vita di questo blog, non ho mai creduto che potesse conferirmi un’identità specifica. Ma questo non era per me un limite di NI, né un mio volermi tenere un passo indietro. Credo che sia stata la sua impronta libertaria a caratterizzare NI come un luogo d’incontro e di attraversamento, piuttosto che come un luogo di posizione e radicamento. Questa modalità di fare gruppo non è ovviamente priva di limiti evidenti, ma su questo tornerò più avanti.
(Un’esperienza simile a quella di NI, nata anch’essa con un’impronta fortemente libertaria, ha portato ad un volume collettivo uscito nel 2000, Ákusma. Forme della poesia contemporanea, per la Metauro Edizioni. Io e Raos vi partecipammo, assieme ad altri 49 poeti. Ci incontrammo tutti quanti, raccogliemmo una gran quantità di materiale teorico e critico, e completammo il lavoro con un’autoantologia di testi. In seguito organizzammo a Roma e a Milano una serie di incontri e di letture con il pubblico. Allora il gran catalizzatore di solitudini, nonché l’ispiratore “libertario”, fu il poeta Giuliano Mesa. Ricordo questo avvenimento, perché nel mondo della poesia fu davvero uno spostamento notevole, rispetto alle attitudini prevalenti nel campo (cordate compatte, intorno a qualche critico-faro, a qualche manifesto di poetica, a qualche rivista o a qualche poeta-maestro). L’anomalia delle iniziative “akusmatiche” fu punita con un meticoloso silenzio da parte degli altri addetti ai lavori. Ma questo non intaccò più di tanto la nostra convinzione che la strada era comunque giusta e che, nonostante limiti e debolezze del progetto, andava battuta. Ákusma, infatti, rinascerà presto come sito in Rete. Rispetto ad Ákusma, NI presenta comunque un ulteriore e importante punto di forza. Lo spirito libertario coinvolge e intreccia qui percorsi che vanno al di là dell’ambito ristretto della poesia. Il che, sia detto chiaramente, non è un vantaggio solamente per il poeta, che ritorna a dialogare quotidianamente, come dovrebbe essere normale, con narratori, romanzieri, registi, attori, ecc. Il vantaggio, infatti, credo sia davvero reciproco, e più in generale tocca chiunque esca dal suo campo culturale specifico, dal suo vocabolario, dal suo punto di vista di genere.)
Riprendiamo la domanda iniziale. Cos’è che fa esistere un gruppo? Un gruppo potrebbe essere tenuto assieme e rafforzato da una comune visione del mondo, un’ideologia, un’insieme di idee e valori forti intorno ai quali organizzare la propria esperienza della realtà.
Ma oggi siamo enormemente timidi, rispetto a questo. Enormemente diffidenti. Davvero pare di sentire insofferenza e scetticismo nei confronti di tutto ciò che concorre a definire statuti, principi, categorie conoscitive. Nessuno di noi ha voglia di solidificare l’identità del gruppo: essa deve rimanere fluida (per utilizzare un termine di Zygmunt Bauman), e non solo in questa fase di passaggio e metamorfosi. (D’altra parte, così è stato per NI anche in passato: il blog ha funzionato, in crescendo, per due anni, senza piattaforma dottrinaria preordinata.)
Antonello Sparzani:
“Ho spesso constatato come, /in presenza di troppa metateoria, è opportuno dedicarsi alla teoria/. Frase naturalmente troppo recisa, che però vuole proporre di parlare di e su NI lo stretto indispensabile (che non vuol dire non parlarne, sono abbastanza consapevole della situazione) e però, d’altra parte, per capire cos’è ora NI, fare delle cose, ognuno nella propria specificità. Quelli di NI che sono scrittori scrivano, postino, riportino, dicano cose riguardanti la scrittura, così come quelli che praticano altre arti, diano contributi in queste arti eccetera.”
“Chi saremo, ora?”
“Saremo quello che riusciamo a fare,che sappiamo fare, saremo il nostro fare.”
Questa risposta wittgensteiniana mi sembra la migliore. E però vorrei aggiungere qualcosa, frutto di riflessione assolutamente personale.
Il fatto che ci manchi un’articolata, esplicita, visione del mondo attuale è una debolezza, un limite. Non un punto di forza. L’analisi di Antonio Moresco e di Carla Benedetti sull’universo dell’editoria è stata da alcuni di noi percepita non come eccessivamente radicale, ma come insufficientemente articolata e approfondita. Questo non è certo imputabile agli inevitabili limiti delle analisi proposte, ma ci segnala, semmai, l’esigenza di compiere ogni volta, assieme alla denuncia polemica, un enorme lavoro di raccolta dei dati, di riflessione collettiva e interdisciplinare.
Rispetto a quanto dice Sparzani (e che mi sembra da noi tutti ampiamente condiviso), io aggiungerei questo: il fare non può essere sufficiente a definire compiutamente la nostra identità di intellettuali, scrittori e artisti. Per capire, infatti, cosa davvero abbiamo fatto, dobbiamo anche capire il destino più ampio a cui è sottoposto il nostro operare, come portatori di un progetto culturale, all’interno dell’attuale stadio di mercificazione della parola scritta e di “gratuita” diffusione della parola telematica. Detto in termini brutali: per capire chi siamo, e il senso di quanto facciamo, dobbiamo capire come viene usato ciò che noi produciamo. Dobbiamo essere il più possibile consapevoli rispetto alle forme e agli effetti che la mercificazione impone alla letteratura, all’immagine, all’arte. Lavorare assieme all’esistenza di un blog, può significare allora allargare questa consapevolezza, sollecitando anche nei lettori – spesso nostri “simili” nel campo della cultura – una riflessione in questa direzione.
La letteratura non è un fenomeno atemporale né un’invariante antropologica, se crediamo in questo modo di metterla al riparo dall’evoluzione delle società. Essa esiste, per noi, all’interno di un’articolazione storicamente determinata di una certa organizzazione sociale, governata dal sistema di produzione capitalistico. Possiamo essere scettici finché vogliamo, ma ogni volta che ci mettiamo a scrivere, ogni volta che facciamo il nostro mestiere, agiamo dentro uno spazio di possibilità che sono già state in gran parte predeterminate. Non solo, ma l’evoluzione del rapporto tra produzione capitalistica e merce culturale è in tale continua evoluzione, che intorno a noi i confini di ciò che crediamo essere “la letteratura” o “l’arte” stanno già cambiando a nostra insaputa, assumendo inedite fisionomie, rischiando di depotenziarsi ulteriormente.
Per concludere, la risposta a ciò non è certo il Ritorno al Grande Artigianato. Ma il semplice rifiuto di scindere il proprio fare dalla riflessione costante sul fine, l’esito, lo statuto sociale in senso ampio di questo fare.
(continua)
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Mi sembrano importanti le aggiunte di Inglese al ragionamento di Sparzani.
Che cani sciolti continuino a vivere e si moltiplichino.
Però continuo a credere che il nome Nazione indiana sia da archiviare: dal vostro fare, dal vostro fine potreste traovarne un altro.
Da mesi sto cercando un modo per contattare uno di voi, qualche indiano… potremmo avere materiale da baratto…
Scrivetemi se potete foliota@libero.it
AP