Fronte Sud
dal Diario Numero 37
L’arte a Napoli
di
Giuseppe Montesano
A Castel Sant’Elmo a Napoli, dove si svolge quest’anno la “XII Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo”, ci arrivo attraversando una città letteralmente fatta a pezzi da un paio d’ore di pioggia. L’acqua dal cielo e e quella delle fogne scoppiate ha trascinato e ammucchiato automobili come in una selvaggia installazione di land-art, negli asfalti delle strade si sono aperte voragini patafisiche, fioriscono cumuli di immondizie e sampietrini che nessun Christo riuscirebbe a impacchettare, lo stadio San Paolo è inagibile, molti negozi sono stati devastati. Salgo su verso l’antica fortezza di Sant’Elmo e penso a quanto può fare l’inutile bellezza dell’arte nelle situazioni di emergenza, nei momenti difficili in cui non basta la razionalità per leggere il mondo: perché se l’arte non serve a dare quel di più di energia che la realtà ci nega, a concentrare in un oggetto estetico dubbi e ferite del presente, a rispondere con il suo linguaggio polimorfo all’ottusità di ogni pensiero unico, allora davvero l’arte non serve a niente. Ma sono ormai già in piena esposizione, vagabondando sotto le volte della fortezza come in un grande organismo di pietra, insieme caverna segreta e sotterraneo ventre materno. Castel Sant’Elmo è diventato un bazar di pietra costellato di video, installazioni, fotografie, web design, creazioni multimediali, grafica, design industriale, pittura, performances. Ma come orientarsi in questi quasi settecento artisti mediterranei under 30 e nelle centinaia di opere che proliferano ovunque? Seguo il flusso, ne evado a caso, curioso, cercando segnali e segni nuovi: e mi compare davanti l’enorme coniglia di plastica rosa, fornita di fettina di prato e visitabile fin nelle viscere; vedo il fantasma reticolare che cade dall’alto di una volta; osservo le plastiche verde brillante che si sgonfiano al suolo, le fioriture arancioni perse nei volumi ciclopici della fortezza, il letto sul cui comodino sono posati come un ammicco per happy few gli Ecrits di Lacan; e poi tubi al neon che fingono un gruppo rock, un altare elettronico in una cripta, e decine di warholini e post-post-poppini e videoamant-artisti. Ci sono giovani Greci, e Turchi, e Algerini, e Giordani, e Israeliani, e Italiani, Francesi, Portoghesi, spagnoli: tutti assolutamente indistinguibili. Davanti a me un addetto si scusa con due visitatori, spiega agitato e allegro di aver appeso un’opera sottosopra, ma ai due la cosa è indifferente; qua e là si sentono dei commenti: “Caariino”, “Ma guarda un po’ che fantasia, eh…” “E’ simpatico, dài…”; afferro al volo un brandello di dichiarazione: ”In questa splendida cornice… Una grande festa per… Una città di arte contemporanea… La cultura che attira i… Un’immagine che fa la… Il turismo che dà… La gastronomia che…”, e andito dopo andito, corridoio dopo corridoio, videoproiezione dopo videoproiezione, una profonda malinconia mi invade.
Ma dove sono i giovani? Qui non c’è nessuna sorpresa, nessuna rivelazione, nessuno scandalo creativo: solo dejà vu. C’è il disegnino porno ma innocuo, la foto sanguinolenta ma liscificata, l’eros ma anestetizzato. Dov’è l’andare oltre di chi quelli che sono giovani, il loro avanzare pretese impossibili e fornire risposte tortuose, il loro oltraggioso e immaturo andare a caso nel buio cercando di cogliere il bersaglio? No, qui non c’è nessun rischio artistico, nessuno spingersi nella foresta vergine del kitsch in cerca di ignoto: tutto è leccato, da compitino di scuola. E dove sono le anime mediterranee, e le differenze che spingono ai veri incontri? Sembra davvero che qui la globalizzazione si sia estesa in ogni luogo, fin dentro l’interiorità di quelli che dovrebbero essere i più resistenti a essa, gli artisti e i giovani. La Biennale Giovani di Napoli è intitolata alla passione e all’ironia: ma dove trovarne una goccia? Giro e rigiro in questo luna-park demodé come se lo avessi visto trenta o trecento anni fa, come se una polvere di noia si fosse depositata su tele e foto e oggetti nuovi di zecca: i video sono appassiti, le light-box sono defunte, le installazioni spente. C’è qualche bizzarra eccezione, a sorpresa: come il gruppo degli artisti turchi, dal ventitreenne Emir Ozer al ventiseienne Adnan Yldiz al ventiquattrenne Murat Sezer: colpiti anche loro dal dejà vu, ma almeno capaci di far affiorare insieme un legame con i segni della tradizione e di conservare ancora il senso del gesto estetico nel mezzo del pericolo. Ma nei più tra questi ragazzi già così prudenti e carini, livellati da riviste patinate rette da un pugno di holding e da programmi televisivi di arte contemporanea via satellitare che arrivano dovunque, non è rimasta della passione della gioventù che la sua immagine spettacolare. Qui non c’è alcun tentativo né individuale né collettivo di far fronte al bruciante ora e qui, nessun conato di critica alla società distorta che vieta l’accesso ai beni comuni a tre quarti del globo o di analisi poetica dello style life plastificato dei media, e l’abbondanza di videoinstallazioni, web design, light-box, rivela brutalmente una sola cosa: che l’arte contemporanea è succube del modello spettacolare della pubblicità, e non riesce a estrarre da media già invecchiatissimi nuovi sensi, significati ribelli. I linguaggi up to date qui sono stati pacificamente assunti come nuovi dogmi, le icone del contemporaneo sono state beatamente prese alla lettera, e il risultato altamente ironico di tutto questo è che le “opere” dell’arte contemporanea risultano proprio nel loro cuore estetico molto al di sotto delle “opere” della pubblicità contemporanea: E quale opera, nell’intera Biennale dei giovani come nell’intera Biennale degli anziani a Venezia, può competere in trasmissione delle emozioni e delle passioni contemporanee per via estetica, con lo spot della Campari che svela l’eros ermafroditico dell’oggi sul cupo ritmo musicale dell’orgia di Eyes wide shut? E ci si aspetterebbe, almeno dai ragazzi che vivono più acutamente le contraddizioni di luoghi difficili, un reale gesto di scontro estetico con ciò che li circonda: ma tutto tace, e una strana pax sembra scesa sul mare nostrum dell’arte. Dov’è il confronto con la Città-Mondo brulicante là fuori nelle decine di artisti napoletani e campani? E’ possibile che nulla degli sfregi della camorra, del malaffare, del disagio, dell’assurdo, delle contraddizioni sia arrivato a sfiorare questi giovani artisti contenti e pacificati tra new-folklore e teleartedipendenza? E i giovani artisti di Gaza, di Tel Aviv, di Algeri o di dovunque le vite vanno in frantumi o sono soffocate: vivono forse in un limbo protetto? Tutti sembrano rifugiarsi in scaramantici e minimissimi gesti ludici, tutti sembrano ossessionati da camerette e diari del cuore e tinelli: postmoderni, of course, ma sempre camerette e tinelli.
E qui l’interesse di questa Biennale giovani come documento diventa davvero grande, per il fatto stesso che la selezione dei young artists non è dovuta al coordinamento scientifico affidato a Bonito Oliva e Cicelyn, ma compete dal basso e democraticamente ai paesi soci della Biennale: così, con i suoi settecento artisti, compresi musicisti, performers, disegnatori di moda, attori, registi, poeti, danzatori e addetti alla gastronomia, questa Biennale giovani diventa una sorta di cifrario antropologico della cultura istituzionale oggi: e diventa un perfetto specchio per osservare di sbieco Biennali e Semestrali e Settimanali adulte, mostrando impietosamente che il Re è nudo, e le contraddizioni dell’arte contemporanea convinta di poter essere insieme “di lotta e di governo” sono flagranti: solo che nessuno è abbastanza ingenuo o coraggioso o giovane da dirlo come fa il bambino nella favola di Andersen. Ma è evidente che i compitini dei giovani non fanno che imitare i compitini degli affermati, entrambi concordi a oscillare tra due scelte rovinose: o l’imitazione dei Warhol e dei Duchamp non nel profondo del procedimento mentale ma nella superficie, o la distruzione di tutti i punti di riferimento dell’arte contemporanea, alla ricerca di una “originalità” che è al più l’originalità di una merce appena lanciata sul mercato o un sottoprodotto del regno dello spettacolo. Siamo ormai entrati nell’era dell’arte neo-contemporanea, l’era delle rughe e dei belletti sul volto dell’ex arte nuovissima, perché all’arte manca da troppo tempo lo scontro-incontro tra l’interiorità e la realtà, la messa in discussione di ciò che è dato per vero da guru e istituzioni: e essa finisce con l’acconciarsi, buonina e autocensurata, nella nicchia ben delimitata dello snobismo di massa: come il formaggio di fossa, la gastronomia del territorio, le feste della tradizione e tutto il grande sedativo sociale in cui si è trasformata la “cultura” da quando è diventata un’appendice mediatica del dominio del Politico: il Re di turno fa rappresentare una realtà falsificata perché è incapace o impotente a intervenire sulla realtà vera. Come direbbero i visitatori di questa Biennale Giovani, è molto “carino” e “interessante” e “democratico” che esista uno scambio di idee tra giovani artisti, che tutto sia sanamente politically correct, che i guagliuni girino il mondo e si scambino opinioni: ma l’arte vera non è sempre stata altrove?
Esco dai camminamenti labirintici di Castel Sant’Elmo, e appena fuori dalla fortezza la Città mi riafferra: il traffico è impazzito, oggi è la festa di San Gennaro, il sangue si è sciolto per il consueto miracolo, i disoccupati guardano la televisione, i locali rigurgitano di gente, a Nord e a est di Napoli un abusivismo di proporzioni gigantesche devasta tutto, le voragini sono ancora aperte, i nouveaux riches spuntano come funghi, il boss Di Lauro è stato arrestato, la criminalità legale agisce tranquilla, la Campania è sempre Felix, le giovani intelligenze se possono emigrano, i creativi se possono emigrano, i laureati se possono emigrano, gli operai emigrano per forza, ma un’energia irriverente e folle percorre ancora vie e vicoli, si manifesta nei corpi e nei gesti, risuona nelle voci. Forse è questa realtà fascinosa e feroce, questa contraddizione permanente, la via dell’arte oggi: è questo il vero happening perenne, l’installazione reale e bruciante che la fa finita con tutte le installazioni fighette e mediatiche. E scendo verso la Città amata in questo corteggio di luci e vita e ebbrezza, nel caos dove i compitini si disfano e il Re è nudo, nel centro del magma dove il nuovo più futuro sorge sempre nel cuore stesso delle rovine del passato più arcaico: l’arte non è dove si crede di trovarla, l’arte non è al servizio di nessuno, l’arte è veramente altrove.
Comments are closed.
Ringrazio Peppino Montesano per avermi mandato il testo via mail. Era molto contento di “partecipare” ad un forum indiano e ne sono felice anch’io. E’ una delle voci migliori del romanzo italiano, e come molti di noi sanno, Roberto Saviano e Paolo Graziano in testa, il suo lavoro continuo e appassionato sul territorio contribuisce tantissimo a mantenere vivo l’amore per la letteratura – amore per l’uomo- dalle nostre parti. Terra popolata di bunker camorristici e di metafisico male. So che la parola lavoro lo infastidisce, però è veramente così. Al telefono gli ho detto: e se al paradigma dell’arte sostituissimo quello della letteratura, il tuo articolo varrebbe lo stesso? La domanda la giro a voi
effeffe
rimbaud scriveva: la vita è altrove. e scriveva anche: io è un altro. montesano dice: l’arte è altrove. probabilmente lontano da dove rimbaud cacciava la vita: altrove, per montesano mi pare che sia qui e ora, nel conato vitale: altrove dai musei, altrove dai riflettori. l’arte mimetizza la realtà spettacolare, ma anche la realtà è mimetizzata dallo spettacolo. napoli è ogni sera a “un posto al sole” dove gode la borghesia media e grande, e una volta la settimana su “la squadra” dove dice la sua violenza ma anche la sua proba condotta poliziesca. napoli ha due musei d’arte contemporanea e una metropolitana ricca di opere “mondiali”. facciamo i conti con l’oste: gli artisti sono scelti nei circuiti prestabiliti dal pret-a-porter della lobby Achille Bonito Oliva e compagnia cantando, che fa un pò di rumore e nessuna riflessione più profonda di un’unghia. ora è arrivata con questo intervento: l’arte è altrove… e, penso, gli artisti sono altro. io credo che se l’arte ha un senso è quello di spalancare i sensi e farli spalancare. tutto ciò che a Napoli si sta facendo è semplicemente la copertura floreale di una catena che non si riesce a spezzare in nessuno dei suoi anelli. ma tutto questo, parte da lontano: dal cosìdetto Rinascimanto napoletano.
Mi sembra un po’ troppo impietoso. Sarà perché vengo dalla lettura di un grandissimo romanzo: “Parenti lontani” di Gaetano Cappelli:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2005/10/gaetano_cappell_1.html
Bart
caro Bart cos’è troppo impietoso ( nel senso di senza pietas?) L’articolo di Peppe? Il commento di Davide? Comunque hai acceso in me una certa curiosità per il romanzo di Cappelli. Me ne procurerò una copia.
effeffe
ps
Davide condivido solo in parte quello che dici però bandirei la parola artisti ( artisti noi artisti loro) e penserei più a Baudelaire (straordinari gli scritti sull’arte) che a Rimbaud.
effeffe
francesco, artisiti noi e artisti loro? non faccio distinzioni… io non mi conto con montesano e dico noi (ci mancherebbe altro! anche se lo conosco e lo stimo molto), non ne faccio una questioni di schieramenti armati e contrapposti. dico semplicemente quello che a napoli secondo me succede! e poi rimbaud lo cito perchè è la citazione modoficata da montesano nel dire che l’arte è veramente altrove! fermo restando gli scritti d’arte di baudelaire
@Francesco
Sono rientrato da poco. Hai ragione, non ho precisato. Il testo di Montesano dà poco spazio, se ho inteso meno, ai giovani del sud, li omologa nell’ignavia e nel disenteresse verso un impegno teso a migliorare la società. Premetto che ho stima di Montesano. L’ho scoperto grazie ad una sua allieva – se non ricordo male di Genova -, che mi segnalò il suo Nel corpo di Napoli. Tanto mi piacque che l’ho inserito nel mio “Quarantatreletture – Il Sud nella letteratura italiana contemporanea”, uscito per Marco Valerio – Torino, nel 2005. Ma la mia lettura sul romanzo di Montesano è leggibile anche qui, dove archivio le mie cose: http://space.tin.it/clubnet/badimona/Montesano.htm
Cappelli lo devi leggere. Sono rimasto impressionato dalla bravura che dimostra in Parenti lontani. Vi è disegnata una gioventù inquieta, anche annoiata, ma caparbia nel non abbandonare mai il sogno, anche quando questo si rivela non proprio identico a quello immaginato. L’ho definito un libro cult, e ne sono convinto. Di Cappelli, poi, (come di altri), apprezzo il fatto che non se ne sia mai voluto andare dal sud. In un commento Cappelli mi scrisse all’incirca che di andarsene dal sud manco ci pensava. Scrittori come lui sono una vera ricchezza per il sud (non solo) ed un grande esempio. Io che ho sangue meridionale nelle vene mi sono sentito esaltato.
Bart
Dimenticavo:
complimenti per la qualità che dal mio punto di vista sta crescendo in Nazione Indiana. Da qualche giorno con gli articoli su Malaparte ed ora con il pezzo di Lagioia, di Montesano, di Garufi (che devo ancora leggere, ma su Borges sa tutto), mi manca il fiato.
Non credo che in tutto il web esistano riviste così pregnanti e coinvolgenti come vibrisse (lo cito per primo perché ci scrivo), Nazione Indiana, Lipperatura. Se penso che qualcuno vi dava per spacciati… Alla faccia!
Bart
Dire a nuora perché suocera intenda. Bacchettate ai giovani per arrivare agli “affermati”. Leggo così il pezzo di Montesano, e la domanda che Forlani gli ha rivolto per telefono è giustissima, sebbene la risposta si trovi già nel pezzo: è tutto il mondo dell’arte – dalla pittura alla poesia alla scultura etc – coinvolto in questa messinscena infernale; e a tutte le latitudini – a Napoli come a New York come a Bombay; e a tutti i livelli anagrafici – “giovani” e “affermati”, appunto.
Seguo Montesano con interesse da quando descrive territori e paesaggi, da quando insomma va in cerca di qualcosa di perduto e di impossibile nel mondo che lo circonda. Ha una certa aria sperduta e da resa, e questo gli fa onore, in un mondo che non lesina ostentazione di certezze e boria intellettuale. Questo articolo fa il paio perfetto, a mio avviso, con un altro letto di recente a questo indirizzo:
http://www.zibaldoni.it/seconda_serie/2005_10_10.htm
Questo pezzo sull’incapacità tutta moderna o postmoderna di “profanare”, ossia di restituire all’uso comune quello che era sacro, rendendolo di fatto Improfanabile (la definizione viene da Agamben), analizza gli stessi temi di Montesano, forse con un piglio ancora più profondo. Metto qui sotto giusto una citazione che mi pare faccia il paio con quella di Montesano sull’arte “televisivizzata” o “mediatica”:
– “È come se la tendenza all’Improfanabile condizionasse ormai anche il pensiero, al punto che le opere letterarie più “riuscite” non riescono a competere con il più scialbo dei quotidiani che ci riferisce “notizie” sempre nuove e ci avvince molto più e meglio di un abile romanziere. Se una volta i giornalisti modellavano la loro prosa su quella degli scrittori, è indubbio che oggi avviene l’esatto contrario, perché è la prosa dei giornali a fornire sempre più spesso a quelli che ancora chiamiamo scrittori, modelli linguistici e spunti narrativi. Ma non è solo nella lingua dei giornali che viene catturato il linguaggio in quanto “mezzo puro”: anche in tanti libri più o meno di successo, in manifestazioni scientifiche più o meno ordinarie – così come nella scuola modellata su astruse teorie tecnico-aziendali piuttosto che sull’esperienza. ‘A scuola si insegna la lingua ai bambini come se si mettessero degli attrezzi in mano agli operai’, diceva Deleuze” –
Per chiudere aggiungerei qualcosa sull’idea di “realtà” proposta da Montesano, che mi pare il punto più debole del suo discorso. Il problema dell’arte oggi, a mio avviso, non è certo rispecchiare in modo più chiaro e netto la “realtà”, semmai di distaccarsene fino in fondo. Quello che manca ai tristissimi artisti e prosatori e poeti odierni è un completo stacco nel pensiero e nella pratica artistica dai modelli, dai dispositivi, dalle prassi consumistiche e “reali” (vedi l’esposizione aggiornatissima di Castel Sant’Elmo). Io ci vedo troppa “realtà”, nella moderna arte, altroché! Ci vedo proprio un difetto referenziale, un bisogno di rimanere attaccati alla zizza piena, per eccesso di insicurezza. Ma è parlando di arte che si migliora l’arte, mica “parlando di camorra”. Quando si comincia a invocare la “realtà” io sento sempre puzza di “ipercorrettezza”, quella stessa stigmatizzta in coda al pezzo qui sopra. E qui tocco forse il punto debole di posizioni come quella di Montesano: posizioni che rischiano a ogni momento di cadere nello scetticismo da gran saggio, nel distacco da filosofo “che sa” e che si limita a criticare in superficie, invece di andare fino in fondo, invece di arrivare alla cancrena – come avrebbe detto il Céline che a Montesano è tanto caro.
Di pezzi come questi di Montesano se ne leggono a bizzeffe ad ogni nuova biennale triennale quadriennale de giovani/non giovani e sono quasi più noiosi delle quadriennali triennali biennali stesse.
Sempre si dice ma davvero questi sono i nuovi? I sopraggiungenti? Di emergenti? Cosa avranno mai di giovane? Perché copiano così tanto?
Eccetera.
Poi c’è la lista delle (sempre poche) eccezioni.
Poi smetti di leggere.
Perché sai che quelli bravi sono sempre due o tre su cento, in ogni campo, e non si capisce perché l’arte (mediterranea) dovrebbe fare eccezione, che la tua idea di “arte giovane” è una sciocchezza, che l’aspettativa del “nuovo giovanile” come fossimo ancora nel Novecento, è un po’ ridicola e che in ogni caso il “nuovo” sta sempre là dove non lo cerchi, perché altrimenti che “nuovo” sarebbe?
Sarebbe interessante invece chiedersi: perché mi aspetto il “nuovo” dai “giovani”?
Tashtego coglie la “superficialità” di Montesano, ma poi replica con altrettanta, se non peggiore, cecità. La domanda finale mi sembra di una ovvietà disarmante. Da chi dovremo aspettarci il “nuovo”, infatti, da chi è inserito nel giro delle carriere e della professionalità artistica? In questo senso qua, io colgo l’attenzione di Montesano, che si reca dai giovani per bacchettare gli “arrivati”, come facevo notare. il “nuovo” non riguarda certo l’anagrafe, ma a volte un discorso anagrafico non guasta per far passare un’idea critica della realtà degli “arrivati” e del “già dato”. Cosa che a Montesano riesce benissimo, a mio parere (fermi restando i limiti di superficialità, eccetera), ed è da questo che bisognerebbe partire, quindi, dal suo discorso profondamente artistico. Discorso che si dipana non come semplice “spiegazione”, ma attraverso una prosa densa ed emotiva, risonante, attenta, che non è certo secondaria nella considerazione dei suoi argomenti, che solo a tratti, come nel caso della “realtà”, tendono a sopraffare la scrittura, ma nel complesso risultano sviluppati con grande sensibilità e arte. Perché non discutiamo quindi proprio del modo in cui è scritto il pezzo di Montensano, della sua prosa, voglio dire, invece che dell’argomento noiosissimo – e qui concordo con Tashtego – dei “giovani” e “meno giovani” e della “realtà”, eccetera eccet.?
Considero la lingua di Montesano tra le più potenti mai lette. E non dimentico il pranzo di capodanno del Tolomeo, o l’analogo sguaiato e volgare dei Negromonte, o il succhio di brodo e polpettine – da un biberon!- della ‘signora’ Fulcaniello , o infine quella pizza che cresce, si dilata deborda in ‘A capofitto’. L’oralità, l’ossessione genetica delle genti del Sud per il cibo, quale medium migliore per sceneggiare un reale di istinti ferini! Altro che diari del cuore e tinelli.
Scusandomi per l’intrusione saluto
chiunque si stato a contatto di giovani dentro una disciplina, una qualsiasi, sa che i giovani, giustamente e comprensibilmente, copiano.
nessuno da ai giovani il tempo di maturare, di farsi, di approdare sulle proprie rive.
tutti stupidamente si aspettano dal giovane il “nuovo” e su 100 giovani solo un paio ti danno quello che ti può sembrare e magari forse lo è il “nuovo”, mentre qualcuno tra quelli che non te lo danno avrebbero bisogno di tempo e lavoro, riflessione.
ma ovviamente non glielo si concede e lo si liquida come non interessante, attradato, visto, eccetera.
per questo le biennali triennali quadriennali sono iniziative demmerda, perché uccidono più artisti di quanti ne promuovano e lo fanno precocemente.
si può anche non capire questo, d’aniello, non ti preoccupare, non succede niente.
poi c’è la domanda cruciale.
davvero cruciale: cos’è il “nuovo” e perché ci piace e lo invochiamo?
ma che te lo dico affare?
mi rileggo e chiedo scusa a d’aniello.
odio essere aggressivo.
Non svicoliamo, tash, quindi lascia perdere le domande inutili sul “nuovo”, e anche l’aggressività, che non serve a nessuno. Ascolta invece Montesano: “Dov’è l’andare oltre di chi quelli che sono giovani, il loro avanzare pretese impossibili e fornire risposte tortuose, il loro oltraggioso e immaturo andare a caso nel buio cercando di cogliere il bersaglio?”. Be’, cosa ne dici? Questa è una definizione magistrale di gioventù: azzardo puro, sbaglio, errore, ma indicazione di nuove vie proprio attraverso tali azzardi, sbagli, errori! Oggi la gioventù è di una medietà culturale piccolina piccolina. Ma parlo, è chiaro, della gioventù del tipo di quella che si trova nelle biennali triennali ecc, non di tutta la gioventù! Come Montesano, immagino. Il fatto è che oggi bisogna saper guardare e saper ascoltare fin nei minimi particolari, e recarsi in luoghi che non sono ufficiali o sono assolutamente marginali; dopo aver guardato e ascoltato, poi, bisogna saper mettersi a pensare e scrivere con assoluto disincanto. Montesano fa benissimo le prime due cose (guardare e ascoltare), un po’ meno (secondo il mio personalissimo giudizio) le altre due (pensare fino in fondo e scrivere fino in fondo), ma comunque le fa meglio di tantissimi scrittori “arrivati”. Invece ho trovato in quell’articolo di De Vivo che citavo, per esempio, oltre che uno sguardo critico, anche una grande attenzione per le dinamiche profanatorie, di cui oggi sentiamo tanto la mancanza, ma che andrebbero studiate bene. Le dinamiche profanatorie, se ho ben capito, sono quelle che ci consentono di mettere in discussione i luoghi comuni come quello della “gioventù” o del “nuovo”. È da qui che bisogna partire, allora, non farsi imprigionare anche noi nell’improfanabile rete del consumo e della pubblicità, del “già visto”.
cerco di evitare polemiche, ma mi è difficile.
oh d’aniello, sono almeno trent’anni che “occorre” andare in luoghi marginali et non ufficiali, eccetera.
la gioventù, così definita alla montesano, somiglia alla descrizione di generazioni di deficienti brancolanti nel buio.
insomma è convenzionale, è quello che ci si aspetta che i “ggiovani” facciano.
è il concetto scrauso del “superamento” giovanile dei paradigmi di cui si sono nutriti i padri.
non si tiene conto del fatto del tutto naturale che i giovani sono confusi, ignoranti, influenzabili e che ci vuole quasi sempre molto tempo e studio, preparaziaone, imitazione, ascolto, sperimentazione per costruire un qualche risultato.
ripeto: ogni cosa dedicata esclusivamente all’ascolto dei ggiovani è perciò stesso repressiva, escludente et soggiacente alla logica imperante del successo subito.
mi astengo dagli esempi.
fanculo le biennali.
Ho letto sia il pezzo di Montesano, che i commenti, che il pezzo segnalato da D’Aniello. Tutto molto interessante, che meriterebbe seri approfondimenti.Anche Napoli,città dalla fortissima identità, ormai non è più Napoli,è lo stesso che Berlino o Venezia. La cosa bella è che nessuno se ne accorge, solo qualche giovane veramente giovane, anche se Tashtego fa finta di non capire cosa questo implichi:implica la necessità di poter continaure a fare con la testa propria, non di prepararsi a fare carriera, come lui intende.Esser giovani non significa essere immaturi o non ancora adulti:chi è giovane è spesso più adulto e serio di tanti adulti e seri immaturi,e rivendica con la sua ignoranza il diritto all’ignoranza e,quindi,alla costruzione di un futuro.
P.
Saluto Carlo Capone dicendogli che non ha da scusarsi per l’incursione. Poi. Qualche nota a margine dei commenti finora espressi. L’articolo di Montesano apre due fronti, secondo me. Uno è quello della cattiva comunicazione che intercorre tra gli scriba e i pintur – quando uno scriba si occupa di cose d’arte si fa spesso attaccare dai pintur con l’argomento principale che è “non conoscenza” dei codici dell’arte soprattutto contemporanea. Lo stesso ma meno dicasi per quei pintur che discutano di letteratura. Il terreno dell’arte contemporanea si pone quasi immediatamente come un terreno politico e non bisogna dimenticare che spesso la destra, impugnando argomenti populistici e popolari- ma cos’è questo un cesso o un’opera di Duchamps?- e allora?- attacca le amministrazioni spesso di sinistra. Un’altra questione è d’ordine “generazionale”. Oggi meno di ieri e più di domani. A me le nuove generazioni piacciono molto, che siano pittori o video artisti, e gli scriba, qualche esempio? Aiutatemi voi. Il primo a crederci secondo me è proprio Peppino Montesano che coi ragazzi ci lavora da anni
effeffe
Ah, be’, se è una questione di “destra” e “sinistra”, di amministrazioni comunali e di cose falsamente politiche, di polemiche da giornalai tra pintur e scriba, secondo me bastano e avanzano Celentano e affini. Mi sembrava di cogliere qualche cosa in più nell’articolo di Montesano, perciò invitavo ad approfondire. Ma evidentemente qui si ha voglia più di porsi domande inutili e alla moda (politica, artistica, eccetera). Ed è comprnsibile: oggi paga l’aggancio all’attualità, la “realtà”, non l'”arte”, quella vera, quella che Montesano rimpiange, se non ho capito male.
Carissimo D’Aniello lei ha capito male anzi malissimo. Il dossier a cui faccio riferimento non è quello napoletano ma quello ben più complesso ed europeo che riguarda il dispositivo di fruizione dell’arte oggi ed in particolare dell’arte contemporanea. Quando Jean Philippe Domecq in Francia attacca il mondo dell’arte contemporanea lo fa alla maniera di Peppe Montesano, posso dire, ovvero, non come lei dice alla Celentano, e all’ombra di una qualche attualità- poi potrei aggiungere che vivo senza televisione e non me ne dispiace- ma su una questione di codici. Si tratta infatti di traduzione della realtà nel senso politico – ma lei ne fa una questione un pò scema e qualunquista , mi consenta, – e ri creazione della stessa. Molta arte contemporanea è malata di deja-vu, ma in un certo senso si nutre di tale malattia. Quando Peppino Montesano parla della “scena” o teatro della città la immagina come ancora produttrice di eventi- e come non essere d’accordo con lui- ovvero di capacità di produrre mito, qualcosa che riesca nella sua ripetizione ad essere nuova. Il resto è cronaca, clin d’oeil, pastiche, collage, citazione e nel migliore dei casi transavanguardia. Comunque si dia una calmata.
effeffe
anche patty varriale mi ha capito male.
ma vabbè.
mi sto rendendo conto che affaticarsi in queste diatribe webbiche è inutile.
forse dannoso.
mi piacciono gli interventi di giuseppe d’aniello. la sua citazione di Agamben (quasi un mettersi in una botte di ferro, per me!) la condivido fino in fondo. anche tashtego dice cose giuste quando parla dei giovani e della falsità che si lega a certi eventi che ne fanno i protagonisti.
io nei miei interventi precedenti sono stato impulsivo e politico. e mi dispiaceva aver interrotto una riflessione ben più vasta di una circoscrizione provinciale. ma volevo anche dire che ciascun artista ha una propria percezine del reale: non fa cronaca, semmai usa la cronaca, così come usa tutto ciò che lo circonda di attuale e di passato per farne una realtà altra e al contempo vicina, vicinissima al fulcro del presente. nietzsche nella volontà di potenza dice che
“abbiamo l’arte per non perire a causa della verità”.
credo che questo sia un assioma fondamnetale: non perchè dice che l’arte deve distrarci, ma perchè l’arte deve farci concentrare di pù e sempre più a fondo sulla verità per non farci soccombere.
ho riflettuto molto su quello che dice montesano circa i figliocci di duchamp (tra cui immetto anche artisti meno giovani come demien hirst, ad esempio), che cioè imitano l’apparenza delle opere dell’artista francese senza quella grande speculazione che le sorreggeva. cioè, come dire, tolta l’impalcatura intellettuale, ogni opera di Duchamp cade vertiginosamnete verso il nulla… eppure non c’è un’opera, una, di duchamp, che apparentemente faccia ciò che sembra ispirare la critica ai giovani di montesano: cioè la distrazione nei confronti di un morto per camorra per dirne una. in duchamp esiste solo una verità estetica autoreferenziale! e questo mi pare di capire che per montesano sia inammissibile.
però, però… resta un genio…! mi sembra che montesano faccia della realtà l’unica grande arte, incontenibile e forse irrealizzabile. forse per lui si può parlare di panestetismo! e forse anche duchamp ne converrebbe…
Lo scorso week end sono stato alla Fiac di Verona, credo prima edizione. Con Massimo Rizzante si camminava increduli, talvolta divertiti, poi un poco distratti e poco concentrati. Fino ad un punto. Preciso. Inequivocabile. Ad un tratto in una sorta di corrdoi che univa i diversi padiglioni c’era un cordone – da cinema? ombelicale?- e due frecce, una a salire ed una a scendere. Il cartello giusto di fronte recitava (da questa parte) arte moderna, novecento, e dall’altra arte contemporanea (novecento?)
Tra gli uni e gli altri pittori – parlo d’anagrafe- esistevano vasi comunicanti. Arte povera la si trovava da un lato e dall’altra, per esempio, La povera arte un peu partout…
effeffe
ps qualcuno mi spiega il limite invalicabile del passaggio?
ppss
Tempo fa come rivista sud abbiamo dialogato con Ernest Pignon Ernest. Segue link e anche sito dell’artista. Trattasi di autore moderno? Contemporaneo? Per me si tratta sicuramente di arte
http://www.pignon-ernest.com/
http://www.dantedescartes.it/sud-img/05.pdf
quando si parla di arte sarebbe bene evitare l’enfasi, le iperboli, e alcune parole tra le quali la parola “verità”.
anzi la parola “verità” andrebbe abolita ovunque.
si accettano suggerimenti circa una sua sostituzione con altro appropriato vocabolo.
A me pare di essere calmissimo, anche se tutti i matti dicono così, lo so… Comunque, mi pare che Forlani abbia un po’ troppa fissazione contrappositiva, teorizzando “attacchi” e scontri “falsamente politici”. Dico “falsamente” perché la “politica” è un’altra cosa – e se vocazione politica c’è, oggi, non è certo quella di stare con la destra o con la sinistra o con Celentano o con Montesano, ma, come ancora una volta dice Agamben citato da De vivo, “profanare l’improfanabile”, che suppergiù dovrebbe significare avere le palle per smontare, studiare, criticare i dispositivi più subdoli e meno visibili del consumismo cristianesizzato. Tra questi dispositivi rientra anche l’arte moderna, certo, ma forse ancor di più l’ingenuità di chi crede (ancora!) di dover fare la lotta contro questo o quell’artista o politico o imbroglione, e solo per ciò ritenersi santo.
Carissimo D’Aniello a me sembra che chi goda di fissazioni contrappositive sia lei che ha cercato in questa serie di commenti un imbecille che predichi una contrapposizione, cito lei, cioè di stare con la destra o con la sinistra o con Celentano o con Montesano. Conosco, credo il pensiero di Giorgio Agamben, e ci ho anche passato una sera a Parigi in occasione dell’uscita del libro “Exil” di Toni Negri e che portava una bellissima preface da lui scritta. Per il resto non potrò mai dimenticare quando ad un seminario al college de France quello che un “avvertito” ascoltatore fece notare al maestro Agamben, e cioè che il suo intervento su Spinoza era stato talmente subtil (ndr sottile) che non ci si poteva entrare dentro. Quindi perchè non profanare Agamben? Siamo veramente convinti che oggi si possa solo “filosofare” commentando? Perchè leggere Agamben pittosto che Benjamin? L’ideale sarebbe leggere entrambi, d’accordo, ma perchè non dire, anche qui che Homo sacer, di Agamben è un’opera mancata? Che il concetto di campo è un paradigma debole? Comunque volevo solo ricordarle che il testo postato è di Giuseppe Montesano, non Enrico, e Celentano resta un grande interprete della canzone italiana. D’Aniello, le auguro una buona giornata
effeffe
p
Ma lei tifa Roma o Lazio? Vino rosso o vino bianco?
Caro Forlani, non aggiungo nulla al suo intervento perché è davvero disarmante. Rispondere a degli argomenti, per quanto stupidi e inconcludenti (i miei, intendo), con la rivelazione di aver passato una giornata con Agamebn o con un giudizio veramente presuntuoso sulla sua opera (presuntuoso perché un’opera si discute e si critica con argomenti), mi sembra la negazione di qualsiasi dibattito. Non perché Agamben non sia profanabile, ma perché questo suo modo di discorrere è assolutamnte Improfanabile (con la maiuscola, come scrive proprio il filosofo romano).
Carissimo D’Aniello, non so cosa dirle, veramente, qui non ci capiamo proprio. Comunque capita, non possiamo farci niente…on ne peut pas plaire à tout le monde
effeffe
ps
disarmante però ha un’accezione positiva nel mio dizionario personale quindi la ringrazio. La citazione dell’episodio serale era per rinviarvi a quel testo, exil, e alla sua prefazione di Agamben sulla necessità ontologica dell’amnistia (in questo caso legata agli anni settanta). Testo pubblicato in Francia da mille et une nuits, e che in Italia non lo so se fu tradotto.
questo forlani mi pare tutto francese e niente arrosto
A. A.
@ A.A.
Puem du Fumogene
L’est que de tanto voto et de si grand vide
l’est k’est danger de travesare strada
car l’est tout noir et ‘n buio tu nun ce vide
et passe tiemp à rigirar la spada
et ouais ke addò colio colio c’est une prodesse
de kisti anonimi un peu laches et fridde
(de kiamata)
Mò proprio mò ricesse uè “tantille”
ke l’est metiere tuo kiankier ou cannibal
et alors reste à case statte tranquille
ke cum l’attaque à la personne tu fais mal
et si l’a – a est un peu strissatielle
nun ce pensà a ste choses et tira dritte
effeffe
@ A.A.
il forlani, le assicuro, è un ottimo arrosto! come scrittore e come organizzatore di riviste.