Parola Plurale (1)
64 poeti italiani fra due secoli
a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena
(È appena uscita per l’editore Luca Sossella un’antologia di
1975-2005 Odissea di forme
1. La poesia non serve più a niente. Così ci dicono. Una volta erano poeti – da Fortini a Sanguineti, da Pasolini a Zanzotto – quegli scrittori-intellettuali la cui parola aveva maggiore udienza nell’opinione pubblica. Di quegli scrittori-intellettuali, oggi, s’è perso lo stampo. L’importanza della poesia si sarebbe dunque ridotta col ridursi, in generale, dell’incidenza della letteratura nel frastornare babelico dei media. Inoltre – aggiungono – anche in una cerchia d’interesse più ristretto, diciamo pure specialistico, il senso storico della poesia è sempre più ridotto. Nessuno la legge, nessuno ne scrive, nessuno ne parla. Se non, naturalmente, i poeti stessi. Il gran ventre molle, sempre esorcizzato ma mai affrontato di petto, dell’indifferenziato pubblico dei poeti (Il pubblico della poesia, ominoso titolo già di trent’anni or sono): delle migliaia se non milioni di italiani, cioè, che allineano al margine sinistro dei loro faticati fogli le frasi delle loro più intime e sentite confessioni. E che – ci viene sempre ripetuto – tutto hanno voglia di fare tranne abbassarsi a leggere quelle che, sulla base dell’esperienza propria, avrebbero ragione a ritenere le confessioni altrui. Cioè le poesie dei poeti “veri”. Quelli che nel frattempo, nella generale disattenzione, continuano a venire pubblicati, a decine e centinaia, nelle sedi editoriali più peregrine ed esoteriche: riviste e collane, e naturalmente antologie, che neppure il più accanito bibliofilo ha modo e tempo di rintracciare (leggerle, figurarsi).
E non è forse vero – ci dicono con un sorriso – che ormai solo i poeti si affannano a scrivere di altri poeti – e anzi, appunto, a leggerli? Non sono sempre le solite firme – quelle di giovani verseggiatori, appunto, in cerca di mutui appoggi – che si leggono in calce alle sempre più striminzite recensioni che, dei libri di poesia, si continuano a vedere sulle pagine delle riviste o, qualche più rara volta, dei giornali? E non sono ancora i poeti che, sempre più spesso, antologizzano altri poeti, magari senza osservare neppure il minimo decoro di evitare d’includere loro stessi (perché magari non figurerebbero in nessun’altra antologia)? Non ci sono persino poeti che praticano, e in qualche caso addirittura teorizzano, l’antologizzazione delle poesie altrui, insieme alle proprie, come con-fusione del tutto in un gran calderone “co-poetico”, di appropriazioni e sovrapposizioni (autodefinite come) creative? Non è sulla base di questo mercatino delle vanità (definirlo “fiera” pare sin troppo ambizioso) che finiscono per comporsi cordate e camarille e guerricciole, nonché ahinoi i cataloghi delle collane (sempre più strangolate dal mercato, sepolte tra i banchi del libraio) degli editori di poesia (naturalmente dirette, in prima persona o meno, da altri poeti – cioè quelli delle generazioni precedenti)?
Non è a causa e in ragione di tutto questo – ci incalzano – che non abbiamo più la benché minima idea di cosa sia oggi la poesia, nel nostro paese? Non siamo forse di fronte a un totale spappolamento dei linguaggi, dei codici, dei canoni? Sino a trent’anni fa si soffriva di contrapposizioni troppo rigide, di appartenenze troppo lineari (l’eterno, inattuale, sempre più pigro pendolo fra sperimentazione e tradizione). Quanto meno, però, quando si prendeva il libro di quella certa collana di poesia, si poteva avere un’idea di cosa si stava per leggere. Oggi invece si esagera in senso opposto: non c’è più modo di capire in quale direzione i poeti, anche quei pochi minimamente affermati, siano diretti; non ci sono valori condivisi; leggiamo tutto e il contrario di tutto. Convivono caoticamente – fra loro bellamente ignorandosi – àlgidi sonettatori e magmatici informali, gnomici e aforisti, terebranti sacerdoti del Sublime e ìlari snocciolatori di nonsense, mistici e sadici, performers agguerriti e teneri àrcadi. Non è questa – ci stringono all’angolo – la prova che quello della poesia ha ormai cessato di essere un linguaggio? Non è ormai la poesia italiana contemporanea, solo e semplicemente, un sempre più stanco e stucchevole gioco di società?
E non è forse – concludono trionfanti, infine –, la crisi e diciamo pure l’evanescenza e la sparizione della critica di poesia, la prova provata, il come volevasi dimostrare, da un lato della crisi del soggetto, cioè della critica in generale, dall’altro del proprio oggetto – cioè, appunto, della poesia?
2. Tutto questo, purtroppo, in parte è vero. E tuttavia finisce per costituire, ormai, soprattutto un alibi. Non è accettabile che la critica abdichi al proprio ruolo per esaurimento, vero o presunto, del proprio oggetto. La critica non ha affatto il diritto di smettere di leggerla, la poesia, perché troppo varia e discontinua nelle ambizioni e nei risultati, troppo difficile da reperire o persino e semplicemente perché troppa (si sente dire pure questo). La critica ha precisamente l’ufficio di scegliere, selezionare, tramandare. Se non lo fa lei, c’è sempre qualcun altro pronto a farlo in sua vece; magari semplicemente il mercato, sempre pronto a farsi giustizia da sé. Con quali conseguenze, per la poesia, è facile immaginare (anzi, non ha bisogno di esercitare l’immaginazione chi abbia sotto gli occhi il canone “aziendale” della più fortunata antologia degli ultimi anni, i Poeti italiani del secondo Novecento di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi – specie nel suo aggiornamento 2004).
Maggiori le difficoltà che incontra, la critica – maggiori siano i suoi sforzi per averne ragione. Ci si ammonisce per esempio, e non a torto, che «le mappe non sono più possibili, che i raggruppamenti e le sigle sono impraticabili» (Ferroni 2003, 6). La risposta, si capisce, sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle (e non si vede come si possa dire se ne astenga l’Antologia della poesia italiana contemporanea 1980-2001 del sedicente «co-poeta» Ciro Vitiello, ordinata cronologicamente sì, ma che rinvia in coda «gli irregolari, i deceduti e i dialettali»). Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (“generazioni”, “gruppi”, “linee”…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. Empiricamente – al tracciare lo spazio nell’attraversarlo – vi si comincerà a orientare.
Non si può accantonare il proposito di conoscere l’intero territorio testuale della poesia d’oggi, o una sua sineddoche comunque attendibile, al fine di evidenziarne una selezione – opinabile quanto si voglia – ma leggibile. Altrimenti si finisce per coonestare l’elezione a metodo della più programmatica scorrettezza di metodo, appunto: di quei poeti-antologizzatori i quali asseriscono che «l’esperto di poesia è l’esperto di sé» (Loi-Rondoni 2001, 9) o che fanno, tout court, «dell’arbitrarietà del giudizio una bandiera» (Manacorda 2004, 11). Ci dice e ci ripete, non senza argomenti, Guido Mazzoni (il critico, e poeta, al quale maggiormente si sono rubati, parafrasandoli e generalizzandoli ed estremizzandoli, i pensieri dei capoversi precedenti): «Colpisce […] che il canone dei poeti italiani nati dopo il 1935 e la storia della poesia italiana siano interamente da scrivere» (Mazzoni 2001, 225). Questo perché (come appunto si diceva in precedenza) «la poesia contemporanea è un genere in declino», «un sistema isolato da altri campi del sapere e disgregato al proprio interno» (ivi, 227-28).
Non siamo tuttavia d’accordo con Mazzoni quando aggiunge che «sarebbe sbagliato credere che i poeti o i critici abbiano delle colpe in questo declino» (ivi, 229). Negli ultimi vent’anni a latitare è stata proprio la critica. Ossia appunto il genere del discorso che serve a collegare fra loro diversi campi del sapere, e a riaggregarne le componenti interne. Nel suo complesso, nel campo che qui interessa, la critica degli ultimi vent’anni è stata pigra, conformista, distratta. Non ci si può lamentare della crisi della critica – come si fa, ormai stucchevolmente, da qualche anno a questa parte – per aggiungere poi che in ogni caso sarebbe inutile operare per invertire tale tendenza: in un campo, oltretutto, nel quale per giudizio unanime, nel secolo appena concluso, s’è esercitata con altissimi èsiti: quello appunto della poesia a essa contemporanea.
Risale ormai a otto anni fa la provocazione di quello che è forse l’unico critico che negli ultimi vent’anni abbia avuto l’opportunità di lavorare a un’antologizzazione complessiva della poesia contemporanea – Stefano Giovanardi –, che alla fine del ’97, dalle colonne della «Repubblica», prevedeva che «quali saranno le novità, le linee egemoni, gli sconvolgimenti della poesia del 1998, non se ne accorgerà nessuno. Su questo potete giurarci». Avrà ragione a protestare, un poeta e critico giovane e appassionato come Paolo Febbraro (2000, 62), che quel critico «ammetteva, e per giunta preventivamente, ovvero progettualmente, che per il 1998, nel settore del quale è ritenuto un esperto, non avrebbe letto nulla, non si sarebbe informato di nulla e verosimilmente di nulla avrebbe informato i propri lettori». E questo, si badi, senza affatto sostenere che «tutta la poesia futura sarebbe stata brutta e come tale irrilevante, ma che sarebbe stata irrilevante anche se bella, e dunque in teoria rilevantissima».
Se canonizzare e storicizzare il presente, si capisce, è di per sé impossibile (come in un paradosso di Zenone), l’intento di proporre alla discussione almeno una scelta che fosse opinabile è stato l’intento che ci ha guidati nel lavoro che state per leggere. E dunque, se certe antologie recenti hanno trovato sufficiente proporre, senza ulteriori spiegazioni, un fascio di «poesie che ci hanno colpito e comunicato qualcosa di importante» (è il caso del Pensiero dominante di Franco Loi e Davide Rondoni), e se altre hanno pensato bene di premettere alle proprie scelte non molto più che certi epigrammi-ritratto (è il caso della Poesia italiana oggi di Giorgio Manacorda), chiarire il più esplicitamente possibile le ragioni delle nostre scelte – di certi autori e non di altri e, nella produzione di quegli autori, di certi testi e non altri – è stata la nostra costante e principale preoccupazione. A costo di dilungarci troppo in spiegazioni e giustificazioni, in premesse di metodo, in introduzioni a singoli temi e problemi, in “cappelli” analitici ai singoli autori, in schede e resoconti bibliografici. Tutti apparati che possono o meno essere letti e utilizzati, si capisce, a seconda dei fini di chi ha questo libro in mano; ma che ove lo fossero, letti, ci sentiamo di garantire contengano materia opinabile, discutibile, anche stigmatizzabile. In quanto argomentata. Cioè, appunto, critica.
[…]
Sin dalla prima idea di quest’antologia, suo presupposto sine qua non è stato quello di lavorare in gruppo. Laddove tutte le grandi antologie che ci hanno preceduto hanno sempre avuto uno o, al massimo, due curatori. È, questa, la tipologia che Stefano Verdino ha recentemente definito (esemplandone la tipologia sul suo ultimo degno esemplare, quella di Mengaldo) «antologia d’autore»: «per cui l’antologia non è più repertoriale, ma specchio dell’ideologia e della poetica critica del compilatore. Si tratta di antologie temperate da una vocazione saggistica e critica, che è elemento del tutto peculiare del quadro italiano, rispetto al contesto europeo, anche francese, da cui pure si presero le mosse» (Verdino 2004, 73). Dallo stesso critico (ivi, 69) mutuiamo la definizione di un’altra tipologia che, estremizzata in certi suoi aspetti, ci ha suggerito la nuova e presente: quella dell’antologia «multipla» («ovvero le antologie curate da varie mani, da una parte i coordinatori generali, dall’altra i compilatori di singole antologie per ogni poeta scelto»). Verdino cita, come esempi, il Novecento della Poesia italiana Garzanti, curata nel 1980 da Piero Gelli e Gina Lagorio, e gli ultimi due volumi dell’Antologia della poesia italiana Einaudi, curata nel 1999 da Cesare Segre e Carlo Ossola. E tuttavia non fanno al caso nostro, in quanto (come denota il fatto che ambedue hanno la funzione di concludere un attraversamento complessivo – affidato o meno alle stesse mani – dell’intero canone poetico italiano) troppo limitato, in entrambe, è lo spazio destinato agli autori più recenti. Alla data di nascita 1925 ci si fermava nel 1980 (con Giovanna Bemporad), al 1930 (con Amelia Rosselli e Edoardo Sanguineti) nel 1999. Con davvero un eccesso di cautela, in Segre-Ossola, se più di vent’anni prima Mengaldo s’era potuto spingere al 1932 di Giovanni Raboni e al 1935 di Antonio Porta (spia di qualche incertezza, al riguardo, è dato forse cogliere nella Premessa iniziale, a firma di entrambi i curatori: «Quanto poi al Novecento, […] lo spazio che gli ha lasciato la distribuzione per secoli, qualitativamente giusto ma insufficiente per un’adeguata campionatura dell’attività poetica a noi più vicina, ci ha indotti a rinviare le prese di posizione eventualmente innovatrici a un volume o a volumi appositi, che potrebbero venire poi»: VI).
Più vicine al nostro ideale, allora, Poesia del Novecento italiano a cura di Niva Lorenzini (che nel 2002 arriva sino ad Antonella Anedda, nata nel 1958), e Poesia italiana del Novecento a cura di Ermanno Krumm e Tiziano Rossi (che nel 1995 giunge sino a Valerio Magrelli, nato nel 1957). In entrambe abbiamo in apertura un’introduzione generale (della responsabile complessiva nel primo caso, un semplice saluto affidato a Mario Luzi nel secondo), ma parte integrante e caratterizzante del lavoro di antologizzazione è affidato a una serie di collaboratori: di scuola (universitaria, e bolognese) nel primo caso, a qualificati ‘esterni’ (di varia estrazione, ma in grande maggioranza a loro volta poeti) nel secondo. Proprio Krumm-Rossi si avvicina maggiormente alla nostra tipologia, in quanto l’assenza di un’introduzione “forte” (Krumm firma solo una sintesi storica sull’ultima generazione, mentre scritti similari – per i periodi precedenti – sono affidati a Giuliano Gramigna), se fa mancare del tutto l’istanza di «racconto» e di «tesi» anche di recente ribadita con forza da Sanguineti (2004, 96), aumenta in proporzione la responsabilità del gruppo di lavoro. Che si tratti di una scelta remunerativa, lo dimostra la qualità della maggior parte dei “cappelli” monografici in queste due antologie.
E tuttavia, anche in questi casi di «antologia multipla» le scelte decisive risalgono, in definitiva, a chi firma la curatela complessiva. La scelta degli autori, e degli spazi a loro disposizione (se è vero, col come al solito puntuto Sanguineti – ivi, 97 – che «il numero di pagine è decisivo in una antologia; non è un pettegolezzo conteggiare le pagine»), resta infatti, anche in questi casi, «d’autore». (E anzi proprio gli squilibri che vi permangono possono derivare dalle inevitabili discrasie fra disegno d’insieme individuale e realizzazione dei dettagli, invece, “di bottega”.)
La scommessa «plurale» è ulteriore. Quest’antologia non ha coordinatori né collaboratori. La sua immagine-guida non è dunque la bottega, bensì (semmai) l’officina. Un’officina non duramente tayloristica, beninteso, ma frequentata da operatori autonomi e autosufficienti, all’interno di un organismo che non risulta semplicemente dalla loro somma. Non solo ci siamo divisi la responsabilità della scelta dei testi e dell’introduzione critica dei sessantaquattro autori antologizzati, ma ogni inclusione (e di conseguenza ogni esclusione) è stata decisa collegialmente, sulla base della lettura incrociata dei testi proposti, e di una loro discussione articolata e puntuale. Anche il disegno dell’introduzione, tradizionale «manifesto» individuale di ogni «antologia d’autore», non può che dividersi in otto prospettive indipendenti – su questioni di periodizzazione, problemi formali, ricorrenze tematiche –, i cui rispettivi “margini” si sono sempre, com’è a questo punto ovvio, collegialmente discussi. La scommessa è che un fenomeno così complesso come la poesia degli ultimi trent’anni trovi in questo modo adeguata risposta d’analisi e interpretazione – e che a parte subiecti, invece, ciascun partecipante abbia a sua disposizione un proprio spazio di deviazione dal vettore risultante degli sforzi congiunti.
(continua)
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scusate io detesto una sorta di poesia e letteratura non “vissuta”, aleatoria, annacquata, ai vari reading organizzati da quel genio di Stefano Zecchi alla Sormani, sinceramente, se mi fossi messa io e Paolo Rossi a raccontare le barzellette, ci saremmo divertiti di piu’.
Morgan e affini non hanno nessun motivo di darsi dei toni.
Finalmente. In questo periodo sto riflettendo su quanto l’ accessibilità alla “rete” abbia creato un’esplosione di ruoli e di capacità critica alla lettura e alla scelta di testi e riferimenti. Certo più democrazia, ma anche più caos. E le scelte che si fanno quotidianamente si basano o sul caso o sul già conosciuto o su pure curiosità. Questo vale per tutto, ma ancor più per ambiti delicati come la poesia.
Non è il caos che deve farci paura quanto le strategie per mettervi ordine. Io già proposi qualche tempo fa una sorta di elenco telefonico (page blanche à la poésie) con i nomi in ordine alfabetico ed invece dei numeri telefonici un verso. Come Massimo Rizzante sono convinto che a volte basta aver scritto un verso di poesia per essere poeti. Il resto è spesso fare i versi alla poesia. Quest’azione poetica delle lectures va seguita. Mi sembra insomma un’occasione d’incontro tra critici e poeti. Per quanto riguarda gli assenti questo mi rassicura, come ho già detto altrove. L’assenza di Cepollaro e Rizzante, o Eugenio Tescione, mi rassicura. Trattasi di caos dunque, ma non è poi tanto male
effeffe
ps
Magda la penso come te sulla “vitalità” della poesia
Già. Caos e nuove modalità di scelta e di conoscenza.
Ho l’antologia.
È vero, ha un prezzo contenuto, ma le dimensioni rendono la lettura scomoda alquanto.
Le medesime dimensioni potrebbero peraltro rappresentare un motivo di visibile e immediata differenziazione dagli eserciti di antologie poetiche usciti negli ultimi tempi.
Parlo di eserciti perché il “gioco” degli ammessi e degli esclusi non è esattamente un gioco, assomiglia piuttosto a una guerra in miniatura (anzi a una piccola e un po’ ridicola guerra per bande).
“Parola plurale” sembra sottrarsi a logiche di bassa-bassissima lega. Insomma, come argomentazioni siamo a distanze siderali dai vari poeti-critici Cucchi, Cucchi-Riccardi, Loi-Rondoni, Manacorda.
Dunque la ripresa di parola dei critici-critici è da salutare con interesse.
Anche se Cortellessa & company in questa prima edizione hanno lasciato fuori poeti di rilievo. Nella prossima edizione dovranno porre rimedio.
Cara Emma hai citato un gruppo di poetessi critici e un poeta: Giorgio Manacorda. Bene. I poetessi critici non servono. Talvolta i poeti si. Finirò per prenderla anc’hio questa antologia, anche senza Elio Pecora…
anch’io
Caro Giorgio, di Manacorda poeta ho letto pochissimo, ma quello che ho letto non mi è piaciuto neanche un po’.
Guarda, se proprio sono costretta a scegliere, scelgo il Manacorda critico :-)
Francesco, l’elenco telefonico dei poeti è una GENIALATA!!!
;-)
Per Emma: sarò più preciso. Di quell’elenco di poetessi-critici Manacorda spiccava (secondo me) per essere l’unico poeta. Gli altri sono, appunto poetessi. Come critico Manacorda (e penso ai vari Annuari di poesia di Castelvecchi) è fazioso ed eccessivamente intransigente. Ma lo sento poco (o per niente) condizionato dalle varie cordate e interessi di bottega (editoriali, di potere, premi e premiucoli, giurie, prebende, favorucci e scambi di recensioni, etc.). A scanso di equivoci: non conosco Giorgio Manacorda e non scrivo poesie. Di poetessi in giro ne girano tantissimi… Non posso, ahimè, citare notizie di prima mano su inclusioni ed esclusioni etc. Veramente, non posso fare nomi. Ma so di un poetesso che non collabora più all’Annuario perchè….
@ Gianni Biondillo
Ho appena postato sul sito di Lello Voce a cui partecipo il pezzo seguente:
A seguito di analisi, considerazioni, letture e soprattutto incontri ho lanciato qualche giorno fa, su Nazione Indiana, di cui faccio parte, la proposta seguente: (due punti)
Visto che le antologie imperversano (nel senso di rendere ancora più perversi i rapporti tra poeti ed editori, critici e poeti, e soprattutto poeti e poeti) propongo ufficialmente questo progetto. L’edizione On Line e su supporto cartaceo di “Page Blanche à la Poesie”.
Con lo stesso progetto grafico delle pagine Bianche (uno sponsor lo potremmo ottenere dalla telefonia pubblica) si pubblicheranno in ordine alfabetico e divisi in settore geografico, nome del poeta e un verso, una frase poetica.
Prendendo spunto da una conversazione avuta con Massimo Rizzante, in cui provocatoriamente, mi diceva che per essere poeti bisogna aver scritto un verso di autentica poesia (del resto ci ricordiamo sempre e comunque un verso dei grandi poeti, a meno che non lo si ami a tal punto da mandare a memoria intere poesie, come mi è capitato con Esenin e Dino Campana). La strutttura si presenterebbe più o meno così
Torino
nome cognome verso
Mauro Agaliati Cosa ho nelle tasche: nebbia
Si attendono osservazioni
Francesco Forlani Sale il bisbiglio e sa di pane e sassi
Voglio leggere SUBITO tutta la poesia con il verso: “Sale il bisbiglio e sa di pane e sassi”
Ottimo il progetto delle pagine banche, ottimo anzi F.A.V.O.L.O.S.O, io però aggiungerei oltre all’autore e al verso anche il titolo dellapoesia e che diamine … altrimenti come si fa ritrovarla?
@Francesco Forlani
Quello delle Pagine bianche potrebbe essere un progetto divertente e a suo modo dissacrante, ma rischia di far passare l’idea che tutte le cose (nel caso specifico, tutte le antologie) valgono allo stesso modo, cioè zero. Dunque lo prendo per quello che è: una provocazione.
Ricordo peraltro che alla tentazione “antologia” non si è sottratto neppure Lello Voce (se ne era parlato nella vecchia NI).
@Emma
E’ una provocazione certo, assolutamente, ma non va coniderato come un attacco del tipo tanto tutto fa brodo alle antologie. Come ho già scritto qui e altrove, Parola Plurale va difesa senza per questo considerarla come l’opera di riferimento della poesia fra i due secoli. Ho anche scritto ad uno dei critici, Giancarlo Alfano che è un amico di vecchia data, per complimentarmi. Quello che manca alla poesia è quella Vitalità, non vitalismo fino a se stesso, che faceva saltare dalle sedie il pubblico durante le performance futuriste, quando Cangiullo, Marinetti, scandalizzavano le platee, e Majakovski con il cilindro ed il gilet giallo saltava sui palchi di mezza russia. Esenin correva nudo per le camere d’albergo di Parigi e Spatola e compagni bevevano ettolitri di vino a tavole avanguardie. Comunque scrivendoti m’è venuta in mente un’altra idea:
l’antologia la compiliamo così: Poe SMS. Ognuno manderà via SMS nome e cognome del poeta, il titolo(grazie Georgia) e un verso. Si possono mandare anche versi di poeti “laureati” facendo un mix tra autori che Poe SMSano se stessi, e lettori che poe SMS ano poesie di altri.
Sì, tutto interessante.
Però io sarei più “pluralista” sull’idea di poesia.
in questi ultimi anni c’è stato un profluvio di antologie, alcune delle quali pessime o assurde, come l’ultima di Garzanti; ma le antologie non si possono del tutto aggirare, come non si puo’ aggirare la critica – vedi quanto dico in “Piccola utopia di rete”, riprendendo Lavagetto; quindi concordo con Francesco sulla dissacrazione, sulla vitalità, ma non dobbiamo far passare l’idea che della critica si possa fare a meno, perché non è vero…
Torniamo a “Parola Plurale”: credo che per noi essa funge innanzitutto da specchio dello stato della “giovane” critica in Italia; quella meno giovane è puramente latitante, salvo rare eccezioni; sappiamo che essa implica scelte, come dicono gli stessi autori, “opinabili”, ma appunto per questo dovrebbero richiamare la nostra attenzione;
Quindi essa ci invita ad un confronto serrato, a discussioni e critiche su tanti aspetti del lavoro, partendo da quello più semplice:
inclusi/esclusi
tono e tipologia del linguaggio critico
tenore dei saggi “panoramici” (ogni autore ne ha curato uno su di un tema specifico)
ecc.
Questo ci permetterebbe di capire cio’ che possiamo ritenere acquisito e cio’ che ancora ci manca, e manca anche ai lettori puri di poesia.
io ODIO le antologie, le odio visceralmente TUTTE anche quelle buone, odio proprio il fatto che si facciano le antologie, odio leggere un poeta che amo fra tutti gli altri (anche se gli altri sono grandi).
Odio sciogliere le parole di un poeta (che è sempre un gioiello solitario) in un acido comune, per questo mi piace l’idea di francesco, sarebbe uno strumento di ricerca utile e NON dannoso;-).
però ora berlusconi ci tassa gli sms e … sembra impossibile, ma quello riesce sempre a rompere.
geo
P.S.
Sopporto solo le antologie (scelta di poesie da veri testi) del singolo poeta, quelle sì.
P.S
Le antologie odierne vengono fatte solo per dare un po’ di argomenti ai critici che, di solito non hanno più nulla da dire sulla Poesia e che quindi si si dividono sempre solo in pro e contro tale antologia, perchè è priva dei propri amici o abbonda nei propri nemici ecc. ecc.
Sugli esclusi.
Tralascio il caso clamoroso di Cepollaro. Tralascio il caso di Rizzante (non lo conosco, ma mi fido di F.F. e di altri qui intervenuti). Tralascio il caso di Cappello, o quello di Raos, o quello dei molti altri che – senza spostare il livello di “opinabilità” di “Parola plurale” – avrebbero potuto essere presenti nell’ultima sezione.
Vengo al “nemico” Rondoni.
Lo ripeto (ripeto le parole dei curatori di “Parola plurale”): siamo nell’ambito di una scelta “opinabile”. Dunque siamo anche nel terreno della “cronaca”. Dunque non stiamo trattando di un canone indiscutibile.
E nella “cronaca” Rondoni c’è, è lì, è sempre in mezzo…
Si può tenerlo fuori? Non si rischia un’operazione speculare a quelle (molte) fatte da Rondoni nella sua (pessima) antologia?
Avrei preferito vedere incluso Rondoni, avrei preferito vedere distrutta la produzione poetica di Rondoni con le armi sottili e puntute dell’analisi critica.
cara emma, rondoni, a mio parere, è nella cronaca per ragioni extraletterarie…
cosa sarebbe senza il circuito cattolico? cosa sarebbe senza il personaggio catto-bohémien che fa gola a qualche lettore con la pressione bassa? se non si lascia fuori lui, tutti sono da includere, basta che abbiano partecipato a molte letture poetiche e abbiano pubblicato in case editrici importanti, anche se sono poeti mediocri
ma non mi prendero’ certo io la briga di smontare la poesia di Rondoni e la sua ancor più debole competenza critica; c’è già l’almanacco di poesia di Manacorda che passa il tempo a smontare cattivi poeti, senza occuparsi di esplorare criticamente i tanti buoni che esistono…; sulla specularità, smettiamola… tutto ormai è speculare a tutto; l’antologia di Rondoni non ha nulla a che vedere con questa;
quanto all’assenza di Biagio Cepollaro, continuo a pensare che sia del tutto ingiustificata e ingiusta; un vero buco;
ps
emma, se sei la emma che ha duellato per il mio onore letterario con l’affannato Sinicco su Absolut poetry, vorrei dirti che ti ho nominata “mia parente onoraria”!
Mah. Se si vuole fornire un quadro d’insieme della poesia tra i due secoli, secondo me si deve parlare *anche* dei nomi che più circolano, nel bene e nel male.
Può darsi che l’intenzione non sia quella del “quadro”.
Faccio allora presente che su “Parola plurale” ci sono *anche* stroncature e ridimensionamenti, non solo indicazioni in positivo.
p.s.
Sì Andrea, sono quella Emma.
Ti chiederei una percentuale sugli incassi, se non fossi certa di ricavarne uno zero spaccato :-)
Per quanto riguarda la solita, trsite, discussione a margine di un’antologia su esclusi/inclusi, nemmeno “Parola plurale” ne è esente. Cito il caso di Alba Donati, prima invitata poi esclusa, forse perché amica di un nemico, etc. etc.
Sulla poco comprensibile abitudine di sfornare antologie da parte di critici ed editori, a breve la nuova moda dei poeti ventenni con due antologie. Già non è facile trovare autori di un certo rilievo che non scompaiano dopo la prima antologia, figuriamoci un ventenne.
A breve mi aspetto, magari dalla bianca di Einaudi, “Poesia in versi” – antologia dei poeti in culla…
Riguardo le poetesse, mi sembra ci siano difficoltà particolari.
Io conosco poco la giovane poesia femminile italiana, ma sono (ovviamente) in buona compagnia.
Mi sembra che questa poesia (so che è un giudizio sommario) sia sempre lì, a rischio di ghetto, magari di ghetto dorato, con grandi limiti nell’occuparsi d’ “altro”.
Per quanto posso capire, l’esclusione di Alba Donati è del tutto immotivata.
A maggior ragione se si pensa che il libro d’esordio non tratta di “corpo”, ma di “repubblica contadina”.
Le antologie sono terribili, lo sappiamo tutti. Come fare bene un’antologia? Occorre specificare bene le sue peculiarità. Vogliamo fare un panorama dei più importanti poeti? O di quelli più significativi per PARTICOLARI sensibilità che dovranno essere analizzate e ritrovate?
Sono veramente inorridito dall’assenza, in questa antologia che sappiamo bene di matrice cortellessiana dell’assenza del più grande poeta italiano del secondo novecento. Dov’è traccia di PAOLO VOLPONI?
Solo questa immotivata assenza declassa ogni sforzo antologico serio in una compilazione libellistica di parte.
Michele Omiccioli
In effetti dire che “Parola plurale” si occupa dei poeti che “operano” nel periodo 1975-2005 è del tutto fuorviante.
Il “vero” criterio – applicato, questo sì, al periodo 1975-2005 – è: poeti nati dal 1945 in poi, con esordio dal 1973 in poi.
Se si tiene presente la regoletta, si capisce perché Volponi *NON* può essere presente, così come non sono presenti Zanzotto, Sereni, Fortini, Luzi, Bertolucci, Sanguineti, Caproni, Giudici, Raboni, Rosselli, ecc.
Naturalmente il criterio si può discutere, ma questo non ha niente a che fare con l’apprezzamento o meno di Volponi.
“Dopo la lirica” segue un criterio diverso; nel periodo considerato (1960-2000) sono “visti” all’opera i poeti di tutte le generazioni, “maestri” inclusi.
“Parola plurale” si occupa dei poeti che passano da un secolo all’altro, e che presumibilmente agiranno in modo poeticamente significativo (qui è la scommessa) anche nel XXI secolo. I numeri in questo caso sono più alti; i nomi sconosciuti sono assai di più; i “giovani” pure.
Volponi in “Dopo la lirica” è presente, ma non mi pare sia “sempre” presente nelle antologie di poesia del novecento. Insomma, come poeta non è tra i “maestri” indiscutibili, o comunque non lo è ancora.
ciao sto facendo la tesi su nissim ezekiel…non è che qualcuno di voi ha del materiale da consigliarmi????
grazie….