FICTIONSCAPE. Splendori e miserie della fiction televisiva italiana #2
di Giorgio Vasta
Seconda parte della conversazione con Giovanna Koch sulla
CENSURA, AUTOCENSURA, DEVIANZA CREATIVA, MANDRIE E COW BOY
GIORGIO. Provo a precisare alcuni punti per evitare fraintendimenti.
Quando mi riferivo alla profonda differenza tra la resa drammaturgica dell’Innocenzo di Bacon rispetto a quello di Velazquez non era assolutamente mia intenzione far valere questa differenza in termini di giudizio – meglio Bacon e peggio Velazquez. Né volevo cadere nell’equivoco di immaginare che avendo Velazquez un committente, allora questo semplice fatto avrebbe limitato le sue capacità espressive, mentre Bacon, svincolato da queste pressioni, si costituirebbe come modello ideale di artista “libero”. Tanto meno mi interessava sostenere che un autore è tale soltanto nella misura in cui dissacra, in cui bombarda, in maniera fine a se stessa e per puro e puerile spirito di contrasto, il modello. Cerco anch’io di tenermi lontano dal ribellismo e dalla cortina fumogena che è in grado di generare.
Quello che intendevo fare portando l’esempio dei due ritratti era di focalizzare l’attenzione sugli aspetti cosiddetti “tecnici”, cioè su come il complesso di segni che ogni autore ha a disposizione quando progetta e realizza un’opera, di qualsiasi specie, è un patrimonio decisivo per la configurazione finale del suo lavoro. Sia Velazquez che Bacon hanno potuto attingere, mutatis mutandis, a un patrimonio non limitato da vincoli, e questo a partire da quello che era il loro spessore ed eventualmente “perforando” del tutto tranquillamente eventuali barriere.
Ma, al di là del loro caso, che appunto richiamavo soltanto per evidenziare delle differenze di messinscena a partire da un uguale e diverso patrimonio espressivo disponibile, il dover rinunciare, in altri casi plausibili, per una censura imposta dall’esterno, o peggio per una censura interiorizzata, alla totalità di questo patrimonio produce delle conseguenze “politiche”. Per dirla in un altro modo: c’è una tastiera espressiva, come quella di un pianoforte, e chiunque voglia comporre un brano musicale desidera poter utilizzare la tastiera nella sua interezza. Ma può capitare che, appunto per ragioni esterne o interne, sia inibito l’uso dei tasti neri. Il brano musicale verrà composto lo stesso, ma mancheranno una serie di semitoni, di sfumature, di elementi impercettibili che un utilizzo completo della tastiera avrebbe previsto e consentito. E che avrebbero avuto un loro valore.
Sto insistendo su questi aspetti proprio perché mi sembra – magari mi sbaglierò clamorosamente – che siano cruciali.
Tu fai riferimento ai Promessi Sposi televisivi del Trio Marchesini Lopez Solenghi. Penso che quel loro lavoro sia stato effettivamente molto bello e molto utile. A venire messi in discussione erano, come scrivi, i modelli narrativi italiani ormai svuotati di senso, quell’insieme di dispositivi di retorica televisiva che già da tempo avevano il fiato corto ma che una specie di ostinazione produttiva continuava a proporre al pubblico. Il Trio ha saputo sentire tutto ciò e ha portato avanti un lavoro da virus, parassitando il modello e restituendolo nella sua vacuità. Sulla stessa falsariga penso al Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti, altro confronto con una retorica, quella del Ventennio, perfettamente ricalcata nei toni e nei modi e rivelata nel suo ridicolo costitutivo semplicemente estremizzando delle situazioni di partenza storicamente compatibili (il furor colonialista che si dilata fino alla pretesa colonizzazione di Marte).
Queste eccezioni mi sembrano indicative di un uso non limitato delle risorse espressive (e ancora una volta il soggetto, sia nel caso del Trio che in quello di Guzzanti, ha un carattere monumentale e apparentemente immodificabile). Non conosco le circostanze produttive di questi due lavori ma devo supporre che questo grado di libertà sia stato il risultato di una serie di contingenze positive, contingenze che sembra si verifichino raramente nel caso della fiction mainstream.
Mi ricollego a una cosa che hai scritto e che mi ha colpito, un punto secondo me nodale, e ti pongo una domanda.
Scrivi: “I committenti hanno bisogno degli artigiani. I committenti non hanno gli strumenti per tradurre in essere la loro richiesta. Dalla richiesta alla realizzazione esiste il territorio no man’s land a disposizione degli autori.”
La domanda è: esiste davvero questa no man’s land, seppure esilissima? Oppure la sua è soltanto un’esistenza ideale, potenziale?
Prosegui: “Se gli autori percorrono questo territorio credendo che la committenza li abbia anche ipnotizzati o asserviti come robots, o se invece l’attraversano cercando se stessi, il mondo e le relazioni emotive che tra essi intercorrono, è problema solo degli autori, dipende solo da loro. La committenza resta in trincea.”
Davvero la committenza, adesso, resta in trincea? O non è immaginabile che imponga se stessa in maniera silenziosa e insinuante, attraverso una interiorizzazione, da parte degli autori, delle logiche della committenza stessa, arrivando così a una specie di appropriazione aziendale dei codici e degli stili espressivi, e quindi alla riconducibilità sostanziale dei codici e degli stili espressivi alla cultura aziendale?
Non voglio proporre scenari apocalittici, da invasione degli ultracorpi, pretendendo che l’autore sia oggi un puro involucro semiconsapevole, un mero esecutore di opere narrative le cui premesse e i cui obiettivi sono del tutto eterodiretti e rispetto ai quali l’autore non ha voce in capitolo. L’immagine di un autore del tutto succube, che come il Cesare del Gabinetto del Dottor Caligari se ne va, nel pieno della notte, sonnambulico, in giro per il villaggio a strangolare i poveri telespettatori, può anche essere interessante ma non regge alla prova della realtà, sempre più sporca e contraddittoria e scarsamente consequenziale delle nostre ipotesi.
Ma allo stesso modo, nel mettere in secondo piano questi scenari paranoico-apocalittici, resta la sensazione che oggi molti autori televisivi (anche se il discorso potrebbe essere ricondotto pari pari ad altri contesti autoriali) rinuncino a percorrere la no man’s land che a un certo punto le circostanze spalancano loro davanti, correndo tutti i rischi che questo territorio comporta, preferendo ripiegare su un attraversamento “ragionevole”, organizzato dal pilota automatico del cliché, rassicurando se stessi e la committenza e generando così un sistema di regole e di codici di composizione drammaturgica che a poco a poco, depositandosi nell’immaginario e nella stessa prassi della composizione, sedimentano fino a sclerotizzarsi e a inibire ogni altra risorsa espressiva.
Il cortocircuito che ne deriva mi sembra pericolosissimo.
GIOVANNA. Esiste un problema di censura sui prodotti di fiction da parte della committenza?
Sì. Ci sono situazioni, argomenti, personaggi di cui si evita accuratamente di parlare.
Esiste un problema di autocensura da parte degli autori?
Sì, spesso in misura inversamente proporzionale alla loro fama professionale.
Esistono tecniche narrative che obbligano alla censura, funzionali alla censura? NO!
Le diverse tecniche narrative creano diversi generi, ma non si legano in modo indissolubile a dei contenuti politici o sociali.
I generi hanno delle categorie sociali alle quali si rivolgono, utilizzano e creano un linguaggio che si pensa adatto a produrre degli effetti su un gruppo di persone ai quali vengono attribuiti (erroneamente o no) specifici gusti, aspettative e desideri.
I generi creano modelli (madonne e santi, dottori e carabinieri) che si ritengono socialmente utili ed economicamente redditizi.
Questi modelli, in quanto modelli socialmente richiesti, producono obbligatoriamente prodotti scarsamente artistici? NO, insisto, NO.
La committenza può limitare il numero dei generi prodotti, può limitare – all’interno di ogni genere – la no man’s land degli autori, ma non può escluderla del tutto senza autodanneggiarsi.
Ogni ordine deve tollerare del disordine per potersi affermare (vedi il saggio di Donolo). Ogni società libera deve tollerare al suo interno una parte criminale, per non essere criminale a sua volta.
Dunque la committenza è costretta a tollerare la devianza creativa dell’autore dal modello per conservare il modello.
La no man’s land degli autori non può essere distrutta, senza rischio grave per chi la distrugge.
La committenza può esercitare una pratica di esclusione dal lavoro nei confronti degli autori che approfittano di troppa no man’s land rispetto al consentito, ma tende più spesso a non far lavorare chi dimostra di ignorare del tutto l’esistenza della no man’s land e di non sapercisi avventurare.
Noi autori tendiamo a sopravvalutare la funzione della committenza e la trasformiamo in un potere persecutorio. Se io vado dal fornaio e chiedo un cornetto e lui vorrebbe tanto vendermi un biscotto, il fornaio è autorizzato a dire che io limito la sua libertà di fornaio perché gli chiedo sempre cornetti e mai biscotti? E se a lui vengono bene i biscotti, ma io continuo a chiedergli cornetti, lo obbligo forse a cuocermi male i cornetti?
La linea della no man’s land è la linea del rapporto tra committenza e autori. Certe volte passano sigarette e scatole di pelati, altre volte arrivano pallottole da schivare. Ma questo fa parte del nostro pericoloso lavoro, che – insomma, diciamola tutta, no? – è un lavoro parecchio privilegiato.
Detto questo, i problemi che ti preoccupano restano tutti, ma è anche vero che il pubblico televisivo in questo momento sta cominciando ad essere imprevedibile. Boccia e promuove programmi senza troppa coerenza. Il che rende incerta la committenza sulle proprie richieste e dunque – paradossalmente – attribuisce agli autori più potere. Insomma, io penso che – proprio perché siamo arrivati alla frutta – sia arrivato anche il nostro momento. Saremo migliori della committenza? Mah…
GIORGIO. In quello che dici ci sono un paio di punti che mi incuriosiscono molto, perché permettono di spostare il fuoco del discorso, adesso, dalla riflessione su chi (e come) scrive la fiction a chi (e come) invece la riceve e la consuma (e, a sua volta, dà delle indicazioni di gusto che autorizzano a produrre ancora altra fiction).
Sto parlando del pubblico.
Scrivi: “I generi hanno delle categorie sociali alle quali si rivolgono, utilizzano e creano un linguaggio che si pensa adatto a produrre degli effetti su un gruppo di persone ai quali vengono attribuiti (erroneamente o no) specifici gusti, aspettative e desideri.”
E poi: “… è anche vero che il pubblico televisivo in questo momento sta cominciando a essere imprevedibile. Boccia e promuove programmi senza troppa coerenza. Il che rende incerta la committenza sulle proprie richieste e dunque – paradossalmente – attribuisce agli autori più potere.”
Mi interessa evidenziare questa imprevedibilità e conseguente “imprendibilità” del pubblico, in questo momento (non so quale fosse la situazione in passato, sarebbe bello se fosse stata scritta una “Storia del pubblico televisivo dagli anni ’50 a oggi” – chi lo sa, forse esiste), questa sua capacità di sgusciare attraverso le maglie della previsione e di andare a collocarsi in posizioni che non si sarebbero mai considerate possibili.
Una delle condizioni fondamentali di esistenza di un prodotto – vale a dire chi quel prodotto lo consuma, il pubblico – sembra in questo momento rivelare una specie di volto di sabbia, continuamente cangiante, disgregato, del quale è sempre più arduo mettere a fuoco, e fissare e studiare, la fisionomia.
Il produttore della fiction (sto impropriamente categorizzando, assolutizzando, me ne rendo conto), per il quale la conoscenza scientifica, quasi entomologica, del pubblico, è un presupposto operativo imprescindibile, è sempre più spaesato. Le azioni compiute non producono le reazioni previste. Una batteria di cause non è seguita dal sistema di effetti che le analisi lasciavano supporre. Le ricerche di mercato, i sondaggi, tutta la prassi della predizione, si risolvono in una serie di inutili superstizioni. Niente è come sembra, come si crede. Neanche il pubblico.
Del resto lo spiazzamento e l’incertezza del produttore sono comprensibili. Il produttore non si pone lo scrupolo di Wittgenstein, per il quale la serie 2-4-6-8-10-12 non deve obbligatoriamente prevedere, come elemento successivo, 14, perché potrebbe anche esserci 15 oppure “mela” o “astronave”.
No, per il produttore non wittgensteiniano, per la sua lettura del presente e dell’immediato futuro, l’elemento successivo a quella serie è necessariamente 14, e uno scarto anche minimo da questa certezza può metterlo in crisi.
Ma la realtà dei fatti, come tu accenni riferendoti al gruppo di persone cui vengono forse erroneamente attribuiti gusti, aspettative e desideri, dribbla una certa logica e lascia il produttore col sedere per terra.
Resto su questa piccola immagine calcistica per provare a sviluppare il discorso.
Nel calcio il dribbling è pressoché sempre intenzionale. Faccio finta di andare a destra, costringo il mio avversario a muoversi specularmente al mio movimento, invece di colpo vado a sinistra e lo supero. Il meccanismo è elementare, direttamente legato all’evocazione di un riflesso e alla sua contraddizione.
Se però provo ad applicare in pieno questa metafora a quello di cui stiamo parlando devo fare un passo indietro e dirmi che non si può. Il far pensare di andare da una parte e invece andare dall’altra coincide con quello che accade al pubblico, ma l’intenzionalità di questo comportamento non coincide per niente.
Il pubblico è un fenomeno enigmatico. Non sono molto aggiornato sugli studi che lo riguardano, temo di essere ancora fermo alle analisi di Le Bon, Freud e Canetti sulle masse (non proprio assimilabili tout court alla nozione di pubblico e in particolar modo di pubblico televisivo italiano), e quindi non so se la quota di mistero che governa una parte di comportamenti del pubblico sia stata in qualche modo svelata o per lo meno affrontata.
Quello che mi sembra però abbastanza probabile è che il pubblico, nella sua eterogeneità, non può generare una intenzionalità paragonabile a quella del calciatore che dribbla l’avversario. Questo prevederebbe una consapevolezza forte e omnicomprensiva del contesto e una sorta di piano, di strategia, nonché – e mi sembra impossibile – di coesione e di collegialità.
Eppure il pubblico svicola, svia, lascia sul posto il produttore e lo supera in avanti (in tutti i sensi, c’è da augurarsi).
Tutto ciò, come scrivi, genera incertezza. La committenza non sa bene come orientarsi, annaspa, cerca punti fermi e prova ad affidarsi all’autore, accettando quello che la no man’s land dell’autore stesso potrebbe generare.
È un quadro, questo, che mi sembra convincente e che mi lascia spazio per un’ultima riflessione che ti sottopongo.
Lo spazio del rischio, quello che crea le condizioni per l’allungo in avanti, che in sostanza dà all’autore la possibilità di inventare un mondo narrativo intenso, credibile e davvero incidente sulle cose, dipende in modo fondamentale da questa sempre più frequente incertezza della committenza, dallo smagliarsi del sistema produttivo? Le rotture paradigmatiche sono subordinate a uno sguardo perplesso, da gatto che ha sentito un rumore ma non sa da dove arrivi, del produttore reso infelice dalla sua stessa incapacità di ordinare il reale sulla carta millimetrata delle previsioni del gusto?
Sarà il pubblico a “liberare” del tutto l’autore, a metterlo nelle condizioni di raccontare le storie che considera davvero le più urgenti, e nella forma che l’autore considera la più giusta?
GIOVANNA. Il pubblico è parte di un società che è immersa nella storia, che vive in particolari condizioni geografiche ed economiche, che è inserita in uno stato e così via, fino ad arrivare ai collegamenti col pianeta, con l’universo e insomma col caos.
Dunque il pubblico è solo una parte collettiva di un’organizzazione molto più vasta dai contorni indefiniti.
Il pubblico di oggi percepisce ciò che avviene in Italia, ma anche in Pakistan o negli Stati Uniti.
La scienza da secoli cerca di percepire le leggi che regolano quello che definiamo caos e in genere va in cerca di formule matematiche che diano formula leggibile a delle intuizioni, e appena ci riesce viene smentita e superata.
Siamo un mondo in movimento. Forse andiamo verso la catastrofe, forse l’eviteremo, forse impareremo qualche altra cosa.
I produttori onesti ammettono che quando si immagina un successo e lo si progetta, in genere il successo non arriva. Talvolta il successo premia prodotti inaspettati. Quindi il concetto di caos nella previsione dei comportamenti del pubblico è da tempo pane quotidiano dei programmatori. Il punto è preparare strumenti duttili per adeguarsi al cambiamento dei gusti e – se possibile – cavalcarlo. Una società organizzata tende a indirizzare il cambiamento, come facevano i cow boy con le mandrie, verso un luogo di sviluppo o di mercato. Ma la mandria è molto più potente dei cow boy, e se al capo branco gli gira, la mandria dei cow boy fa polpette.
Quindi la committenza (i cow boy) ha paura della mandria, cerca di stare più in alto e di governarla con la forza.
Gli autori fanno parte della mandria, ne possono percepire gli umori e intuire la direzione che la mandria sta prendendo.
Nel momento in cui i cow boy sentono di non poter contenere la mandria e di essere sull’orlo di un collasso provano a farsi consigliare dagli autori.
La produzione sperimentale è sempre stato un modo per anticipare i gusti, per verificare le ipotesi degli autori (che in genere vengono tenute a bada come pulsioni individualiste e narcisiste), per tastare il polso della mandria.
Ora, questo non vuol dire che gli autori sanno dove andare o che trovano mezzi di comunicazione migliori, però in tempi di crisi gli autori prendono il sopravvento e in genere danno vita ai capolavori.
Quindi alla tua domanda “Sarà il pubblico a ‘liberare’ del tutto l’autore, a metterlo nelle condizioni di raccontare le storie che considera davvero le più urgenti, e nella forma che l’autore considera la più giusta?” penso di dover rispondere sì. Però ti contesto l’ingenuità implicita nella domanda, e cioè che “liberare” l’autore voglia dire lasciare il campo alle pulsioni migliori del genere umano.
Gli autori fanno parte della mandria e sono come tutti belli o brutti, buoni o cattivi, degni o indegni. Se pensano di sapere tutto e di poter prescindere dalle produzioni o dalle condizioni economiche o dai linguaggi noti al pubblico, sono degli sciocchi. Però io credo che un artista (e non tutti gli autori lo sono) ha dentro di sé una voragine che lo minaccia e il suo talento va su e giù come la lava e lo tiene in contatto con i livelli profondi del genere umano (il che in genere lo rende temperamento fragile e infelice, da cui nevrosi, isterismi, suicidi, alcolismi e droghe varie). Ma dentro l’artista la lava caotica (che altrove fa danni) quando sale chiede di essere organizzata. E dunque l’artista è continuamente sollecitato a trovare espressioni consone a quello che sente dentro e che gli sfugge, a tamponare o a esaltare i mali dell’umanità. È costretto a inventare linguaggi. Uno di questi linguaggi verrà riconosciuto come proprio dalla mandria e diventerà storia, cancellando gli altri e ricreando una nuova, piccola dittatura culturale del genere. Ma non si passa a nuovi linguaggi senza passare dagli artisti. È questa la realtà della no man’s land degli autori di cui ti ho parlato finora. Se ci tengono a bada, è perché anche di noi hanno bisogno. Noi siamo la chiave di volta dei linguaggi, non dei contenuti. Per questo possiamo svuotare i linguaggi dei contenuti imposti e metterci i nostri, spostando di fatto anche il linguaggio. Se lo sappiamo fare, se siamo artisti veri, se la storia vuole che il nostro sia il linguaggio vincente. Noi, gli autori, abbiamo anche il grandissimo ostacolo di personalizzare talmente i linguaggi da produrre fra noi fenomeni continui di incomprensione e di competizione. Se vince Wagner non vince Mozart. E quindi non smetteremo mai di piangerci addosso e di considerarci salvatori della patria, mentre gli altri sono tutte cacchette al servizio dei padroni.
(continua)
Comments are closed.
O.T. (ma neanche tanto).
approfitto del colpo di teatro di Benigni per dire qualcosa in merito ai fuori scena, a schemi rotti e a beneauguranti giullari infangatori di intellettualismi e sobrietà.
CANCRO BENIGNO
Che grande invenzione la follia!
la Divina mania platonica, recitata, raccontata, ballata,sposata o simulata è l’unica vera soluzione alla mediocrità e alla mancanza di spirito.
Ed è proprio con colpi di teatro che Roberto Benigni, unico istrione giano bifronte, ha dato una svolta al pantano massmediale-politico- istituzionale di questi giorni.
Il giullare di corte è figura eterna, ubiqua, onnipotente, sacra, senza sesso e senza età a cui è permesso sfidare tempo e spazio, operare giunture di senso laddove non sono date.
L’arte, la poesia, diventano miracolosi espediente per entrare in empatia con gli eventi, modificarli e mediarli.
La banalità del quotidiano viene polverizzata in chiave lirica, metaforica, ironica sino a rendere il grigiore burocratico motivo di esaltazione attraverso il riso catartico e liberatorio.
E’ con l’arma e la maschera della finzione teatrale che si puo’ travasare cosi abilmente la farsa nel dramma, la satira nella filosofia, la vita nella morte,il tragico nel comico spostandosi dal riso di Pan al pianto di Socrate, messaggero ai posteri dell’odierna morale.
E tra uno stile e l’altro passano forti i segnali di Voltaire:”io non la penso come te, ma darei la vita perchè tu possa continuare a esprimerlo”, di Socrate:”io muoio per rispettare la legge che ho sempre difeso” ed è grazie a persone come queste che noi oggi possiamo discutere, parlare e interrogarci di democrazia, giustizia o libertà.
Grazie Benigni, per avere portato un po’ della nostra anima folle sul palkoscenico di rockpolitic, per avere ricordato i nostri motti, per essere sempre sintonizzato con spiriti guizzanti deliranti come te, e dare loro voce.
Perchè “ci vuole talento per invecchiare senza diventare adulti” (Leo Ferre’)
Magda Mantecca
E grazie a quel mirabile paraculogista di Adriano Celentano, per aver dato l’opportunità al Maestro Benigni (il Chaplin dei tempi moderni…) di essersi fatto la dovuta (a lui, a noi) pubblicità per il lancio dell’ennesimo capolavoro…
Sempre più bello. Vasta sa allestire delle formulazioni molto intriganti, tipiche di chi ha saputo assimilare molti grandi autori (a partire dal Foucault delle sue amate “torsioni”) però mi rimane l’impressione che tutto questo allestimento racchiuda un nucleo tutto sommato banale, come in fondo tipico di quei pensatori che sembrano dimenticare troppo presto che i “sistemi di pensiero” di quegli stessi grandi autori in verità sarebbero, per la gran parte, mutuamente esclusivi: o questo, o quello. Ma la logica, la scientificità, annoia, esclude ed intristisce: meglio un uso creativo, criptodadaista: prendiamo una leva da questo, un ingranaggio da quell’altro, ed assembliamo la nostra installazione, un bel cristallo di erudizione postmoderna, la perla al cui interno scopriremo il granellino di buon senso.
Possibile, mi chiedo, attraversare tanto testo per ritrovare l’ovvietà che l’arte modernamente intesa si gioca sul “come” e non sul “cosa”, sulle connotazioni e non sulle denotazioni (che diventano così facilmente pretesto)? E, ancor peggio, che questa ovvietà la si ritrovi ammantata da quella stucchevole enfasi pseudomitologica che è ormai filtrata fino dentro ai cataloghi della più infima delle esposizioni artistiche?
> “Noi siamo la chiave di volta dei linguaggi, non dei contenuti. Per questo possiamo svuotare i linguaggi dei contenuti imposti e metterci i nostri, spostando di fatto anche il linguaggio.”
Ma questa è retorica, per la madonna! Modulare la forma, il significante, la strutturazione (ad uno qualunque dei suoi tanti livelli) per farci scaturire nuove possibilità di proiezione psichica, tanto di significati quanto di emozioni, non equivale certo a “creare nuovi linguaggi”, ma semplicemente a fare ciò che si è sempre fatto (più o meno consapevolmente): operare per tentativi, sulla scorta di un insieme di abitudini, più o meno tramandate (cioè selezionate da processi più ampi) oppure accidentali e idiosincrasiche, e sedimentate infine nelle coordinazioni inconsce che costituiscono lo stile. Insomma: provare e vedere cosa succede, senza voler dare a bere di essere in grado di aprire la scatola nera!
Perché i linguaggi veri sono pochi, sono largamente condivisi, e sono il risultato di processi filogenetici che ci sfuggono in larga parte (anche perché sono ciò che ci costituisce!). Ma non è certo dalle oneste e caute formulazioni di linguisti, neurologi, o antropologi che può derivare questa titanica pretesa di “spostare” o addirittura “creare” un linguaggio (operazione che per lo più si confonde con la creazione di qualche inutile grammatica priva di semantica). Più probabile che derivi dai noti deliri di artisti “concettuali” che, visti da vicino, appaiono per lo più ignorantissimi, letteralmente ubriacati da termini che neppure comprendono (penso che fra qualche secolo rileggendo il Menna della “linea analitica” sarà inevitabile ridere di gusto).
Dunque pensare che un pubblico possa essere conosciuto in maniera quasi “entomologica” (e da un produttore di fiction per giunta!) non so, mi pare un problema altamente artificiale, forse una semplice esagerazione per fini retorici. Così le metafore del dribbling e della mandria mi sembrano un po’ sprecate, ancorché suggestive. Se la mia stessa coscienza è un fenomeno enigmatico – non posso proprio dire se domani mi convertirò a qualche fede, impazzirò, realizzerò le mie opere più belle oppure brucerò tutto quanto, perché mai non dovrebbe esserlo l’inconcepibile (per tutti, Le Bon, Freud e Canetti compresi) ammasso di coscienze (che ho buoni motivi di ritenere abbastanza simili alla mia) che costituisce un pubblico? Soltanto perché il mio cervello si può anche pesare, o un pubblico può essere sottoposto ad un sondaggio? Boh. A me tutto questo suona, a dispetto dell’erudizione, un pochino ingenuo, oppure fintamente ingenuo.
NB – per evitare possibili incomprensioni, specifico che stavolta la mia riflessione non sollecita larvatamente alcuna replica: essa è sufficiente a se stessa.
Se la mia stessa coscienza è un fenomeno enigmatico (…) perché mai non dovrebbe esserlo l’inconcepibile (…) ammasso di coscienze (…) che costituisce un pubblico?
Molto bella questa domanda. E non sto sfottendo.
A questo punto, scendendo più sul terra terra, mi piacerebbe che venissero alla luce i meccanismi produttivi che sono stati continuamente evocati, ma che sono rimasti in uno stato fantasmatico.
I committenti.
Come funziona oggi la produzione di fiction in Italia? Chi è, di norma, la testa pensante? Il produttore TV (RAI-Mediaset)? Il produttore privato? Non capita mai (non capita più) che l’autore, come un tempo, si presenti con le due paginette di “concept” sottobraccio dal produttore amico?
Da quello che so, per esempio (ma potrei sbagliarmi), “Elisa di Rivombrosa” è nata dalla mente di un autore, non di una ipotetica committenza. E’ stato un enorme, quanto imprevisto successo. Di chi il merito? E come collocarla nella graduatoria artistica?
La domanda non mi sembra di secondaria importanza. Nella attribuzione delle responsabilità del generale scadimento di valore nella produzione di fiction in Italia, come dobbiamo pesare i contributi di tutti gli attori in gioco? Se, come penso, gli autori non rivestono un ruolo di mera sussidiarietà, non sarebbe il caso di valutare, intanto, le proprie?
Questo per l'”idea di partenza”.
Poi ci sono le “direttive” che riguardano la scrittura quotidiana; non metto in dubbio che per quanto riguarda questo aspetto il potere persuasivo della produzione sia maggiore, e che il peso politico dell’autore sia infinitamente più scarso. E qui credo che il discorso sulla “terra di nessuno” di Koch sia estremamente interessante.
Gli esiti di questa conquista del West possono essere scoraggianti o esaltanti (io, molti anni fa, quando il contesto era troppo diverso da oggi – si facevano poche fiction, si preferiva comprarle – ho sperimentato soltanto i primi, e ho preferito, per il bene della mia salute e dei miei familiari, lasciar perdere).
Ezio
to Wovoka
Riguardo l’ammasso di coscienze che costituisce un pubblico, pertinentissimo citare Freud e Canetti, ma anche, sopra tutti, quel grande conoscitore di pubblici ammassati che è stato Simon Le Bon.
Gustave Le Bon (1841-1931) scrisse la “Psicologia delle folle” nel 1895. Questo giornalista francese era stato molto colpito dalle folle rivoluzionarie dal 1789 a quelle di Parigi del 1871 e degli anni successivi. Nel 1900 il successo delle idee di Le Bon è stato immenso nelle scienze sociali ed in politica, poiché si fonda su due distorsioni: una di tipo politico (pregiudizio contro le folle) ed una di prospettiva interpretativa (gli atti della folla visti dall’esterno, senza preoccuparsi di coglierne le ragioni.
Nella folla la personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee si orientano lungo una sola direzione, formando così una sorta di anima collettiva. L’anima della folla è formata da un substrato inconscio che accomuna tutti gli individui di una stessa razza o cultura, ma le loro individualità si annullano. La folla è sempre intellettualmente inferiore all’uomo isolato, ha la spontaneità, la violenza, la ferocia, ed anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi. “Le folle si possono accendere d’entusiasmo per la gloria e l’onore, si possono trascinare in guerra senza pane e senz’armi”. L’Individuo in folla acquista un sentimento di potenza per il solo fatto del numero di presenti, quindi può facilmente cedere a istinti e compiere azioni che da solo non avrebbe mai compiuto. Inoltre essendo la folla anonima scompare anche il senso di responsabilità, e ogni atto diventa facilmente contagioso, tanto che l’individuo sacrifica il proprio interesse per quello comune. Le azioni delle folle sono un qualcosa di istintivo, perché esse sono completamente dominate dall’aspetto inconscio degli individui. L’assenza dell’aspetto cosciente priva le folle di capacità critica, spingendole ad accettare giudizi imposti e mai contestati, e a farsi suggestionare dalle cose più inverosimili. All’interno di un gruppo, poi, la volontà personale si annulla, e così le persone tendono a ricercare d’istinto l’autorità di un capo, di un trascinatore. La maggior parte degli individui è incapace di auto-governarsi, quindi è da qui che nasce il culto del capo che fa loro da guida. La folla antepone l’istintività al giudizio, all’educazione e alla timidezza, pertanto il “capopopolo” deve presentarsi ad essa con un linguaggio adeguato alla recettività del destinatario. Pertanto è fondamentale che segua alcuni principi comunicativi. La semplicità del lessico e della sintassi poiché la folla si presenta per istinto, restia a parole difficili, ai meandri del ragionamento, rifiutando l’esercizio attivo del pensiero; l’affermazione, che senza alcun dubbio è un mezzo sicuro per far penetrare un’idea nelle folle, deve essere laconica, concisa, categorica, pregnante di significato, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorevolezza; la ripetizione, per penetrare nelle zone più profonde dell’inconscio diventando così una verità inviolabile; le immagini, il potere di una parola non dipende dal suo significato, ma dall’immagine che essa suscita; il contagio, “quando un’affermazione è stata ripetuta a sufficienza, e sempre allo stesso modo, si forma ciò che viene chiamata una corrente di opinione e interviene il potente meccanismo del contagio. Le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze, possiedono tra le folle un potere contagioso intenso e ciò fa sì che tali opinioni si radichino maggiormente (teoria della dissonanza cognitiva)” . Infine non bisogna tralasciare l’azione esercitata dal prestigio di un capo. Il prestigio è una sorta di fascino che un individuo o una dottrina esercitano sull’uomo, paralizzandone ogni sua capacità critica. Il prestigio può suscitare sentimenti dì ammirazione o di timore, e tende ad essere imitato inconsciamente, determinando una completa sottomissione e accettazione del capo. ” Sulla base di questi precetti si venne quindi formando un vero e proprio “linguaggio” che Mussolini utilizzò nei suoi discorsi propagandistici.
Siamo in retrocessione di almeno millenni!!!!!!!!!
ps non è tutto mio ma non mi ricordo l’autore….
Simon Le Bon (1958- ) scrisse ‘Wild Boys’ nel 1984, suo articolo di punta e quinto capitolo della raccolta di saggi ‘Arena’, curata insieme al collettivo di artisti militanti Duran Duran.
Questo artista e sociologo inglese era stato ispirato nella stesura del saggio dalle folle ribelli degli operai scatenatesi nel 1971 e in seguito, durante i moti del 1980 di Liverpool, in piena era Thatcheriana.
Negli anni ’80 il successo delle idee di Le Bon fu immenso presso le masse popolari e sulla musica pop mondiale, pur fondandosi su due distorsioni piuttosto complesse: una di tipo sociologico (il cosiddetto postulato della groupie) e una di prospettiva storico-interpretativa (la teoria della mediazione tra istanze positivistiche delle prime scienze sociali e istanze di osservazione partecipata dell’artista al fenomeno ‘massa’, con la conseguente preoccupazione di capirne le esigenze per sfruttarle appieno commercialmente; e la trasformazione conseguente dell’artista da artista impegnato ad artista impiegato).
In una groupie la personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee si orientano lungo una sola direzione: l’idolo. Più groupies formano così una sorta di anima collettiva. L’anima di un gruppo di groupies è formata quindi da un substrato inconscio che accomuna tutte le fan che, per esempio, morirebbero per un pelo di culo di John Taylor o, in un altro sottogruppo di groupies, per una ciglia finta di Nick Rhodes; ma nel complesso le loro individualità si annullano. L’insieme delle groupies è sempre intellettualmente inferiore al lead singer, ha la spontaneità della violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi di esseri ingenui e primordiali quali i rocker emiliani degli anni ’80 o dei più attuali self made writers delle stesse zone. “Le groupies”, dichiarava Le Bon in un’intervista recenziore rilasciata a Cioè “si accendevano d’entusiasmo per la gloria e perdevano volentieri l’onore per essa, si potevano trascinare nei camerini senza passi stampa o resistenze”
E fu ragionando su questi semplici temi ‘dal basso’ che Le Bon giunse all’elaborazione della seconda prospettiva: esiste un momento in cui lo scienziato sociale che guardi il fenomeno ‘folla dei fan’ non potrà che traslare quelle facce di folla su uno sfondo sociale di emergenza, e quella che nel decennio precedente poteva essere un’urgenza etica diventerà ora un’operazione ambigua, in cui l’inconscio groupie emergerà carsicamente.
Le Bon del resto non poteva sottrarsi a questo sovrapposizione, data la solida educazione ricevuta nei church choirs di voci bianche , e all’esperienza successiva in un kibbutz israeliano.Ma sono l’università di Birmingham e l’esperienza dei moti studenteschi a segnare per lui il passo decisivo: in questa attitudine al sincretismo post new age lo vediamo mediare magistralmente cultura pop e strascichi di ribellismo giovanile, i sogni e le vaghezze del movimento new romantic britannico con le istanze politiche del Red Wedge anti Thatcheriano. Così tra le righe di Wild Boys, dall’osservazione positivista e distaccata dello scienziato sociale Le Bon nella prima strofe, si giunge tramite un progressivo avvicinamento del punto di vista, più attento, partecipato, addirittura commosso nel riconoscimento dell’orrore sanguinario ai bordi delle strade e di un mondo ‘dolente’ e ‘spaurito’. Tuttavia, tramite una presa di distanza alternata nei toni politici, Le Bon si dichiara parte del movimento ribellista (‘hanno provato a spezzarci’, ed è il culmine dell’identificazione con l’oggetto di studio), ma subito dopo dichiara pessimisticamente, poco progressisticamente ‘ci proveranno ancora’, con un tocco di understatement tipicamente anni ’80. E’ la fine del periodo degli eccessi, sembra un richiamo al messaggio pre-reclame dei conduttori tv coevi (‘ma non finisce qui, restate con noi’).
Il resto suona più come un’esortazione che come descrizione, ed è soltanto un’eco sbiadita delle lotte degli anni precedenti. Il fulcro del saggio ‘Wild Boys’ rimane tuttavia il passaggio ‘Wild Boys, always shine’, due emistichi che il canto strozzato di Le Bon tenta di unire malamente, ma che restano divaricati: uno appartiene al decennio trascorso, l’altro è ormai pienamente rispondente all’estetica sociale degli anni ’80, con quello ‘shine’ che brilla ovunque, dalle melense canzoni di ‘Fame’, al correlato spot dell’acqua Panna, a tutti i lustrini dello spettacolo dai Muppet Show alla Carrà (scintillante anche nel cognome tronco). Un brillare sicuramente diminutivo rispetto alla gloria che pure si tenta di evocare, e che approderà a evocare orizzonti di memoria orrorifica in Stephen King.
Dedicato a Magda, con la preghiera di non rispondere con una biografia di Simon Le Bon copiata da internet.
Cenni biografici reali tratti da en.wikipedia.org
Cenni biografici fittizi tutti ritrattabili.
Cenni storici http://www.bbc.co.uk
Il testo qui sotto riprodotto non ha nessun riscontro filologico valido, ma vale come vulgata :
“Wild Boys”
The wild boys are calling
On their way back from the fire
In august moon’s surrender to
A dust cloud on the rise
Wild boys fallen far from glory
Reckless and so hungered
On the razors edge you trail
Because there’s murder by the roadside
In a sore afraid new world
They tried to break us,
Looks like they’ll try again
Wild boys never lose it
Wild boys never chose this way
Wild boys never close your eyes
Wild boys always shine
You got sirens for a welcome
There’s bloodstain for your pain
And your telephone been ringing while
You’re dancing in the rain
Wild boys wonder where is glory
Where is all you angels
Now the figureheads have fell
And lovers war with arrows over
Secrets they could tell
They tried to tame you
Looks like they’ll try again
Wild boys never lose it
Wild boys never chose this way
Wild boys never close your eyes
Wild boys always shine
:-)))
:-))))