Per Witold Gombrowicz: un elogio
di Giuseppe Montesano
Sono felice di pubblicare un pezzo di uno dei miei autori italiani preferiti. È così: tutti gli scrittori europei e latinoamericani che amo sono dei grandi lettori di Gombrowicz. Gombrowicziani di tutto il mondo no todo está perdido! (M. R.)
Chi era veramente Witold Gombrowicz? Confesso che questa domanda insensata mi ha sfiorato e tentato mentre rileggevo Ferdydurke, Pornografia, Bacacay, Cosmo, il Diario, Una giovinezza in Polonia, Trans-Atlantico, e leggevo tutto ciò che ero riuscito a procurarmi su di lui: saggi, interviste, prefazioni. Ma a ogni pagina di chiosa, spiegazione, interpretazione, sentivo risuonare dentro la testa una frase di Karl Kraus, sempre più ossessiva, sempre più chiara e nello stesso tempo assurda: Chi ha qualcosa da dire, si alzi in piedi e taccia. Mi addentravo inebetito e affascinato, e sempre più disarmato, nelle centinaia di pagine che Gombrowicz ha scritto su se stesso: perché, coerente con una sua particolare forma di difesa, Gombrowicz era andato molto più a fondo dei suoi critici nella critica di se stesso. I suoi libri si chiudevano in una specie di intoccabilità: su tutti lo scrittore polacco aveva esercitato il mestiere di analisi che spetterebbe all’interprete. Davvero non mi restava altro da fare che alzarmi in piedi e tacere. Finché, a un tratto, come accade a volte in certi sogni, sfogliando il suo Diario mi sono imbattuto in una sorta di consiglio: “Scarta con rabbia e con orgoglio tutta l’artificiosa superiorità che la tua situazione ti assicura. La critica letteraria non equivale al sentenziare di un uomo sul conto di un altro uomo (chi mai ti ha dato questo diritto?), ma è invece lo scontro di due personalità con diritti esattamente uguali. Non giudicare, dunque. Descrivi soltanto le tue reazioni. Non scrivere mai dell’autore e nemmeno della sua opera, bensì di te stesso in rapporto all’opera o all’autore.” Finalmente! Nella corazza che Gombrowicz aveva costruito intorno alle sue opere si apriva una crepa: dentro, allora, e in fretta, prima che si richiuda!
In un libro-intervista intitolato Testamento Gombrowicz, all’accusa che la sua scrittura fosse sospesa a metà strada tra la tradizione e l’esperimento, rispose: “La mia scrittura è fondata sui modelli tradizionali. In qualche maniera Ferdydurke è una parodia del racconto filosofico alla Voltaire. Trans-Atlantico è la parodia di un racconto nello stile antico, vecchiotto e stereotipato. Pornografia si riallaccia alla bonarietà del romanzo campagnolo polacco. Cosmo è un po’ un romanzo poliziesco. Se mi appoggio alle forme tradizionali, è perché sono le più perfette, e il lettore vi è già abituato. Ma non dimenticate, per favore, che in me la Forma è sempre la parodia della Forma. Me ne servo, ma ne evado. Io cerco il legame fra questi generi letterari di un tempo, che sono leggibili, e la più nuova, l’ultimissima percezione del mondo. Trasportare il contrabbando più attuale in vecchie carriole come Trans-Atlantico o Pornografia, questo sì mi va a genio.” Non c’è uno stile buono per sempre, e la scrittura va usata in qualche modo contro se stessa, contro il proprio soggetto: lo stile è la forma di una contraddizione insanabile. La nostra verità si trova molto al di là della maschera che la cultura di cui siamo imbottiti ci modella sulla faccia: che rapporto c’è tra il me stesso che si immerge estatico o finto-estatico nelle profondità del Tristano di Wagner, e il me stesso che sbava dietro una quindicenne che fa enormi bolle con un chewingum alla fragola? Dov’è che io sono più vero? Tutto Ferdydurke è un calcio nel sedere del Sublime sbandierato dall’Arte, una rivolta del basso e dell’informe contro la presunta nobiltà, contro ciò che è sclerotizzato dalla forma. Ma ecco che sono caduto nella trappola-Gombrowicz: quello che sto cercando di descrivere sembra un’opera filosofica, ma non lo è: è la parodia di un’opera filosofica, è quell’ibrido mostruoso a cui il romanzo moderno è costretto a fare affidamento: la farsa che fa piangere, la tragedia che fa ridere. I romanzi di Gombrowicz non raccontano la realtà: raccontare la realtà senza resistenze vuol dire solo soggiacere ad essa, ripetere la sua apparente profondità o banalità, descrivere. Gombrowicz sta al centro di questo problema in cui sono immersi tutti quelli che scrivono oggi: parlare della Realtà ma senza arrendersi alla sua evidenza ricattatoria. Se tutto quello che si può scrivere è intaccato dalla malattia della falsificazione o dalla presunzione di poeticità, allora bisogna parodiare tutte le forme in cui ci esprimiamo: oggi fare i buffoni è l’unico modo per restare seri. La comicità di Gombrowicz è profondamente tradizionale, non rinuncia alla danza carnevalesca di Aristofane o di Rabelais, ma non si nega alla cretineria apocalittica dell’operetta o al picaresco demente del film muto. Allora le randellate e le fughe rovinose, le “torte in faccia” e i doppisensi osceni invadono la pagina: la degradazione di ogni altezza è continua, l’astrazione finisce a testa sotto, e il sublime viene palpeggiato sotto le gonne: in Ferdydurke, proprio come in una comica del muto, a un certo punto scoppia un pestaggio generale tra padroni e servitori, signori anziani spaccano vetri e sputano sui passanti; e due illustri filosofi ormai ritornati bambini, ammazzano in un grottesco duello le rispettive mogli. Se il comico vive del senso di superiorità dello scrittore sui suoi eroi-vittime, Gombrowicz rovescia anche questo: l’immaturità deficiente, il rimbambinimento demenziale, il farsela sotto del pensiero di fronte al corpo assaltano l’autore stesso: così l’idea satirica va in frantumi, il comico esce dai suoi panni e persino la cosa più profonda, l’eros, perde la testa sotto la mannaia della parodia. In un racconto di Bacacay intitolato Verginità, Gombrowicz identifica l’amore con l’atto di rosicchiare insieme un osso, e attraverso l’uso traslato delle metafore amorose, nelle parole della protagonista appare selvaggiamente Eros. Ma come esprimerlo? Bisogna immergerlo nel comico: “’Io, invece, vorrei tanto, caro Paolo, che tu rosicchiassi – ossia che rosicchiassimo insieme – quest’osso.’ ‘L’osso? Cosa, Alice, cosa? Cos’hai detto?’ Paolo era esterrefatto. ‘Ma amore mio, cosa te ne fai di un osso? Sei impazzita! Se proprio non ne puoi fare a meno, fatti dare almeno un osso fresco da brodo.’ ‘Ma no, si tratta appunto di questo osso della pattumiera’ gridò lei con impazienza, battendo il piedino.” Il Paolo del racconto ripete le parole stereotipe dell’amore: ti voglio tanto bene, il mio bene è così grande che per trovarne uno simile bisognerebbe andare in cima a una montagna, e tutte le sdolcinatezze del caso. Tocca a lei, alla vergine, scoprirgli l’abisso, farglielo intravedere nella metafora del rosicchiare e passarsi di bocca in bocca l’osso: metafora che raccatta il suo simbolo dalla spazzatura e lo sostituisce alla bellezza d’accatto del salotto borghese, nominando attraverso la degradazione l’insurrezione del corpo. In una pagina di un libro rifiutato, Gli indemoniati, c’è una scena in cui i due protagonisti si trovano per equivoco chiusi in un armadio e, dopo il primo momento di atterrito stupore, si stringono ebbri l’uno all’altra: la passione amorosa nasce in mezzo al vaudeville, ma è così affascinante proprio perché sopravvive al ridicolo. La parodia di Gombrowicz sembra quella di Stravinskij: è per amore o per odio verso l’oggetto della tradizione che Stravinskij rifà Pergolesi e Gesualdo? La distorsione e la dissonanza introdotte nell’oggetto sono il segno di un amore profondo che si sa non più esprimibile direttamente. Nel presente falsificato che abitiamo non si possono pronunciare come se niente fosse le semplici parole Amore Odio Vita Morte, così come non si può fare Beethoveen: la parodia salva l’oggetto della sua attrazione nel momento stesso in cui sembra perderlo. Ma la parodia può anche essere considerata come una sorta di rito iniziatico: ciò che non sopravvive al riso, non ha in sé nessuna verità, la bellezza che non si confronta con il brutto è falsa, il bene che non è stato pericolosamente sull’orlo del male è solo ingenuità. In un brano del Diario Gombrowicz si descrive ipnotizzato, invaso e sopraffatto da un cafone. Dall’uomo proviene un “odore di cesso”, la sua volgarità è enorme e soprattutto soddisfatta: insomma è orrendo. Ma il dandy Gombrowicz reagisce a questa invasione di volgarità ribaltando la prospettiva: “Io che lo osservo, in tutte le mie raffinatezze borghesi, sono il complemento di quell’obbrobrio, ci sto bene come un negativo al positivo, siamo due scimmie, l’una derivante dall’altra.” Gli attacchi di Gombrowicz al mito della cultura sono feroci. Lui, l’innamorato della Bellezza, l’estatico ascoltatore degli ultimi quartetti di Beethoveen e delle sonate di Chopin, sente il bisogno di difendersi da tutto questo eccesso di cultura. L’arte in cui siamo immersi, in cui sguazziamo felici e che spacciamo in pillolette soporifere, è ormai una enorme colla. Da protesta e impulso alla liberazione, sta diventando una camicia di forza. Cos’è che rende stupidi gli sforzi più estremi dell’intelligenza? Perché alla fine dei periodi più grandiosi di Essere e tempo ci si sente solleticare da una strana voglia di sghignazzare? E perché fuggiamo dai capolavori esposti nei musei e ci fermiamo a guardare incantati un bidone sfondato dell’immondizia o una scritta su un muro? Ho insegnato un anno in una scuola media, a ragazzini sui dodici anni, e in quell’anno ho vissuto sulla mia pelle il rapporto delirante tra la cultura e l’immaturità. Nell’atmosfera di cultura coatta della scuola tutto si volgeva nel suo contrario: il bello diventava brutto, la giustizia ingiustizia, la conoscenza ignoranza. Ma il meccanismo perverso del sistema educativo è da tempo sfuggito alle sue sedi deputate: tutta la vita che ci tocca in sorte sembra diventata scuola, e si presenta affetta da questa malattia paradossale, l’eczema didattico. Non può essere vero che la colpa sia sempre da qualche altra parte: ci deve essere nella cultura qualcosa di radicalmente sbagliato. Bruno Schulz, il primo e il più acuto recensore di Gombrowicz, ha scritto sul finire degli anni ’30: “Gombrowicz ha dimostrato l’omogeneità della sfera della cultura e della sotto-cultura, anzi, si può ammettere che nella sfera della sotto-cultura, nella sfera dei contenuti immaturi, egli veda il prototipo e il modello dei valori in genere.” Questa omogeneità l’abbiamo ormai sotto gli occhi con una evidenza abbagliante: chi di noi ha il coraggio di dire che per il nutrimento dello Spirito oggi la contemplazione del Campo di grano con corvi sia più importante della contemplazione di un qualsiasi programma televisivo, e che un film di Kubrick sia più stimolante di uno spot? Non ce la caveremo se non attraversiamo questa caotica, deforme e urtante brodaglia che sta dietro, sotto e dentro la grande cultura. Là, ci avverte Schulz, troveremo un museo dove tutto è perpetuamente attuale: “Non vi sono ideologie per quanto residue e superate, forme per quanto scadenti e ripugnanti che non abbiano qui per sempre una quotazione e non godano di un permesso di divulgazione. Appare qui in tutta la sua grettezza la struttura della mitologia, la prepotenza celata sotto le forme della sintassi linguistica, la violenza e la grassazione della frase fatta, la forza della simmetria e dell’analogia.” Ma l’esplorazione di questa forma informe, di questa cucina che sta a ridosso del salone di rappresentanza del linguaggio va avanti ormai da un secolo e mezzo: la stagione all’inferno fiorisce nel momento in cui la modernità si installa nella coscienza, e il poeta inciampato nelle sconnessioni della strada perde la sua aureola: ormai non si tratta più di rimettersela in testa, ma di calarsi nella fiumana innominabile che sta aspettando appena dietro la porta. E il rischio da correre è sempre lo stesso: Baudelaire si sentiva sfiorare dal “vento dell’ala dell’imbecillità”, Flaubert diventò non meno delirante dei suoi due copisti, Gombrowicz secondo Schulz era irretito da tutto ciò che minacciava di distruggerlo: “Questo demonologo della cultura, questo accanito braccatore delle menzogne culturali, è nel contempo, in qualche strano modo, venduto a loro, è innamorato del loro fascino di un amore patologico e incurabile.” Lo scrittore è costretto ad accogliere i suoi io più vergognosi, a dare asilo ai peggiori nemici, a far deflagrare la guerra fra le sue convinzioni più care e ciò che più detesta. Ogni volta che prova a esprimere direttamente se stesso, la sua raffinatezza e le sue presunte profondità, si imbatterà nel silenzio o nella banalità: il dandy è condannato a subire il fascino del cafone, e in lui l’odio è forse solo una forma di amore impossibile per ciò che gli è estraneo.
L’arte è l’unica forma oggettiva di conoscenza. La scrittura saggistica, filosofica, esplicativa è in balia dell’ideologia e della soggettività più sfrenate. Quanto più cerco di dare una forma oggettiva a ciò che penso, alle mie idee, alle mie sensazioni, tanto più ne divento preda e mi allontana da quella che è la voce altrui: allora la mia voce cancella tutte le altre, e quella che sembrava la verità diventa immediatamente menzogna. Il Diario di Gombrowicz trabocca di annotazioni intelligenti e acute, ma sempre come irrigidite dalla necessità di esprimere l’io di Witold Gombrowicz. E alla fine che valore possono avere per un artista le idee? I romanzi non si fanno con le idee, e forse nemmeno con l’intelligenza. La realtà non è raccontabile, se non a patto di farla parlare torcendole il collo. Tutti i tentativi di descriverla sono dei fallimenti, perché il loro fine ultimo è la registrazione, una cattiva magia dove della realtà resta solo la scorza. Gombrowicz ci ha insegnato che il romanzo deve scendere sul terreno dell’immaginazione, e l’”oggettività” si può trovare solo volgendo le spalle all’io sveglio, apparente, solido. La polemica con la Polonia, la guerra agli intellettuali, le mistificazioni, lo snobismo, le teorie sull’arte, sono solo le idee coscienti di Witold Gombrowicz: ma la sua verità, se ce n’è una, la afferriamo più nel desiderio di infanzia che devasta Ferdydurke o nella spirale di demenza erotica di Pornografia che nei paradossi delle sue intelligenti pagine saggistiche. L’inverosimiglianza che fa franare il terreno sotto i piedi nei suoi romanzi, è semplicemente l’immaginazione al lavoro che capovolge le cose o le ingrandisce per vederle meglio. Come in Kafka, l’abnorme e l’assurdo sono in Gombrowicz uno sforzo di precisione estrema, un tentativo di seguire la realtà nelle sue continue metamorfosi. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel voleva raccontare la storia romanzata del formarsi della coscienza perchè solo il racconto delle avventure della coscienza avrebbe mostrato, e non più spiegato, che cosa fosse lo spirito. L’ultimo romanzo di Gombrowicz si intitola Cosmo, ed è un “giallo” che non racconta più come la coscienza scopre la soluzione della realtà, ma come si forma in noi la coscienza della realtà. E ancora una volta sia il “giallo” che la “filosofia” vengono defraudati della loro pretesa di organizzare il caos: l’erotismo da scantinato, le tiritere e i doppisensi, la beffa della ragione deduttiva si impadroniscono di Cosmo e ci fanno letteralmente fare sotto dal ridere, scaraventandoci sotto di noi, a un passo dallo smarrimento, dove l’intelligenza è solo uno dei tanti relitti che fluttuano nell’oscurità del corpo. Ma nel momento stesso in cui la scrittura ci immerge nella sua misteriosa promessa di conoscenza, proprio allora deve svegliarci dalle illusioni. Le avventure dell’immaginazione sono imparentate con le fantasticherie dell’oppio, ma invece del sonno danno il colpo che fa sussultare l’addormentato: a un tratto si aprono porte e botole inaspettate, e dobbiamo infilarci di corsa nel buio, come banditi. Gombrowicz non vuole lasciarsi sistemare nella bara del classico: strizza l’occhietto, mostra la lingua, tira calci. Dai suoi libri arrivano morsi idrofobi e seduzioni, fenomenologie dell’incoscienza e critiche della ragione impura, e guai a entrarci disarmati: una pistola giocattolo è già pronta a farci saltare le cervella. Non c’è niente da fare, il signor Gombrowicz non si concede, e mi congeda e si congeda con le ultime righe di Testamento: “Dove sono finiti i miei fermenti di una volta, le gaffe, le dissonanze di un tempo, tutta quella tormentosa Immaturità? Invecchiando, la mia vita è diventata più facile. Ho imparato a destreggiarmi fra le mie contraddizioni, la mia voce si è fatta più ferma. Sì, ora ho un mio posto e una mia funzione: sono un servo. Di chi? Di Gombrowicz. La mia rivolta di un tempo tornerà a vivere nell’immaginazione di qualcun altro? Lo ignoro. E io? Troverò, ora che sono vecchio, la forza di ribellarmi ancora, stavolta contro di lui, contro Gombrowicz?”
(2001-2002)
Ho letto solo Cosmo, e mi ha molto intrigato, specie all’inizio. Poi ricordo un monologo delirante davvero gustoso verso la fine del libro. Mi è piaciuta la sua imprevedibilità. Però la mancanza di senso e di connessione tra gli atti narrati – questo è ciò che percepisco io, ma può esser dovuto a un mio limite di interpretazione – a me fa rimanere, con questo libro come con altri, con la sensazione di un esercizio un po’ fine a se stesso, e forse per questo mi vien da pensarlo come un romanzo notevole ma non come un capolavoro.
Io ho letto Ferdydurke e Pornografia (Pornograzia in un certo senso) e la Lezione di filosofia, e per quanto possa essere inutile, dannoso, antiletterario perché possessivo molte delle cose che amo, ho che ho amato (come il mio gatto rosso), si chiamano Witold.
Witold.
bel post e bello che sia stato postato qui.
chi
…e allora leggete “A capofitto” (dell’autore del post), dove uno dei personaggi attanti nella sarabanda “Post-picaresca” (vai, mi concedo una botta di criticismo letteraio) si chiama- e non a caso- Gombro.
Comunque, sempre lucidissimo e innamorato della letteratura, Montesano, fino a “perdersi” dietro il sogno di una iraggiungibile ( o meglio intrattenibile) bellezza!
Si, amici, leggete o ri-leggete A CAPOFITTO, il romanzo d’esordio di Giuseppe Montesano. Lo trovate in una comoda edizione degli Oscar Mondadori, vi trovate “messe in scena”, sotto i vostri occhi e con la forza della rappresentazione comico/grottesca , gran parte delle considerazioni estetiche presenti in questo post.Corroborate dall’occhio affascinato, indignato e trasognato di Montesano su una realtà che è essa stessa epifania del grottesco;dove il bello è un fuggevole lampo fermentato dalle bassezze e dalle brutture del reale.
…oops, il criticismo è letterario, non letteraio.
Ma in “Diario” c’era questa chiusa: “Ribellarmi? Ma come? Io? Un servo?” E già che ci sono, mi pare che la prescrizione di Gombrowicz:
“Non scrivere mai dell’autore e nemmeno della sua opera, bensì di te stesso in rapporto all’opera o all’autore” sia giusta nel rivendicare la legittimità di riportare l’opera letteraria alla contemporaneità del lettore, ossia la lettura di un’opera, in qualsiasi epoca la si legga, è sempre rapporto tra due contemporaneità. In questo, a mio avviso, l’opera scritta nel passato è sempre viva e attuale, essa vive con gli occhi del lettore presente. E’ la ricezione di un’opera attraverso le varie epoche storiche che ce la fa apparire sempre come se fosse stata scritta oggi. Però, anche alla filologia bisogna riconoscere il proprio ruolo, indispensabile nella conoscenza storica dell’opera e della cultura di quel tempo storico che l’ha resa possibile.
Aggiungo con la mia piccola voce che A Capofitto è un romanzo di lingua esilarante, ricca, saporosa come un pranzo a Napoli. Le parole sono cibo lussureggiante con bellezza mostruosa. Si entra nella caverna dei sogni, alla matrice della madre prima: la città partorita in doglia sempre.
Ringrazio Salvatore d’Angelo per la scoperta di questa grande voce di Napuli.
Consiglio anche la lettura du festin de la comtesse Fritouille (racconto ) di Gombrowicz