Natale con i tuoi
Allora, ieri sono andato alla manifestazione pro Di Canio davanti alla Figc. Alle tre del pomeriggio di un giorno di bailamme pre-natalizio, circa mille persone sono arrivate a via Po, vicino Villa Borghese. Quasi tutti uomini, ma di età molto diverse. Ragazzini e settantenni, qualche famiglia pronta per lo shopping. Doveva esserci anche Di Canio, ma alla fine ha preferito non andare “per tutelare lui e i propri amici-tifosi”. Ossia, se la cosa trascendeva, sarebbero forse scattate squalifiche peggiori. Al suo posto ha parlato un capo-tifoso degli Irriducibili che ha chiarito da subito che la loro era una manifestazione apolitica, che da anni ormai gli Irriducibili sottolineano la loro volontà assoluta di eliminare la politica dagli stadi, e che se hanno esposto croci celtiche e simbolame vario è stato soltanto a Livorno con lo scopo di rimettere sul tavolo il problema dei due pesi e due misure: se loro espongono il Che, allora noi non siamo coglioni e ritiriamo fuori i fuan.
Poi ha enumerato i nemici: Blatter (che ebbe lui uscite antisemite, e questo è vero), la Juve assolta dal doping, i giornalisti pennivendoli. Insomma il sistema, il potere, il Palazzo, secondo la declinazione di un tifoso. Ha ribadito l’apoliticità della manifestazione, e ha letto il bigliettino che Di Canio aveva fatto pervenire: “il mio gesto non era razzista, né fascista, ma un gesto di appartenenza”, diceva.
Apoliticamente a quel punto, come per un comando pavloviano alla dr. Stranamore, scattavano le braccia alzate, e le urla marziali: Paolo! Di Canio! Paolo! Di Canio!
Allora, se la contraddizione era stravisibile a me ed evidentemente non lo era a chi manifestava, un motivo c’era, ho pensato, e non era semplicemente il tentativo di imbellettarsi e dirsi semplicemente tifosi, prigionieri di una fede, invece che fascisti (con volantini di Forza Nuova e “quando passi in sezione?” che comparivano qua e là). Ho pensato che in un certo senso quella era una manifestazione, è vero, che fa dell’apolitica, della riduzione della dialettica delle idee a scontro di tifoserie, il suo perno. E della possibilità di effetto mediatico la sua forza aggregante.
Mi spiego: le parole chiave che Di Canio ripete in continuazione sono più o meno quelle che la cosiddetta cultura o sottocultura fascista e neofascista in Italia sbandiera da anni, con una costante chiara: la ipersemplificazione, il sincretismo totale, l’appello allo pseudoconcetto.
Appartenenza. A che?
Valori. Quali?
Tradizione. Ossia?
Ognuno può ricavarsi a suo uso e consumo un senso di comunità e di contrasto con quello contro cui gli fa rodere più il culo.
Il problema è che questo linguaggio ipersemplificato, sincretico, insomma autocontradditorio, vuoto, vittimistico in sé, che toglie a se stesso e all’altro la possibilità del confronto dialogico (lo striscione di ieri più grosso: “Uomo libero? No, tifoso”), aggregante al niente se non a un’immagine di vago fascino simbolico è ormai una delle modalità più in voga anche della politica professionale, da quando appunto la Lega prima e Berlusconi poi la sdoganarono. Di Canio e i dicaniisti utilizzano con i loro pochi mezzi a disposizione lo stesso armamentario. Slogan che non vogliono dire un cazzo, “Politicamente Scorretto”, rimandano ai cartelloni in giro per tutta Italia, con Berlusconi che proclama “Operazione verità”, ma anche – in un certo senso, a questo – a quelli della famigliola dell’Unione che dicono “Amare l’Italia”. Una contrapposizione fatta quando va bene di toni e non di idee. Ognuno con la sua faccetta a corredo, quella di Di Canio – e qui aveva Montanari vedeva giusto nell’evidenziarla – campeggiava con ghigno da picchiatore su due striscioni disegnati a mano. Di Canio ha capito come funziona e vuole diventare logo. Ripete il suo ghigno davanti alle telecamere, e la gente comincia a girare con i cappellino o il giaccone con scritto il suo nome.
Del resto, scriveva qualche tempo Roberto Saviano, che funzioni così l’hanno capito anche i camorristi, sfrontati nel presentarsi alle telecamere nel momento dell’arresto. Se lo può fare un capo del governo o un ministro, sputare sulla Costituzione e dire mi sono sbagliato, dare del kapò a piacimento e poi aggiustare il tiro, perché non io? Non è fascismo il mio, è appartenenza.
E qui vengo al punto che vorrei approfondire meglio ma non qui. Il fenomeno della frangia di ultras come movimento politico non è un dato isolato, ma è perfettamente in consonanza con quanto diceva Hobsbawn nel Secolo breve. Il dibattito politico, culturale, in un mondo che supera le grandi ideologie novecentesche, si deve nutrire delle sue briciole. E allora chiama in causa, le minime forme di consonanza, le identità. Identità padane, fondamentalismi religiosi, tifoserie. In fondo tutto serve per non sentirsi soli a Natale.
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Ehi raimo, continui a voler dimostrare cosa dovrebe essere la letteratura
… ma ti sarai diplomato no? una laurea te l’hanno data no? ti pubblicano persino dei libercoli no? e allora perché insisti a dire delle ovvietà? perché non dici chiaramente “quello che ho detto su montanari e di canio non c’entra un cazzo ma lo volevo dire perché lo devono capire tutti ma tutti che io so proprio nu ‘ndellettuale cone si deve, anzi pure ‘no scrittore
Restringi quella foto, altrimenti rovini il layout.
Wovoka, l’animale terribile che compare cliccando sul tuo nick è in tema?
È anche l’animale di cui si è parlato nel thread su Novarina?
Signor Raimo, lei abitualmente scrive così? Immagino avrà anche un editore, dei recensori, lettori, ammiratori…. Ma forse, molto più semplicemente, aveva fretta di recarsi alla messa di mezzanotte (minuscolo) e non ha avuto tempo di rivedere il test (icolo).
giorgio di costanzo è una delle poche voci che ancora hanno il coraggio di dire la verità. ischia fa buon sangue nel vino e non solo.
Se vedi un nesso, cara Emma, allora esso c’è; da parte mia non voglio imporre la pertinenza di alcunché, ma soltanto delirare più forte, come consiglia Jack Kerouac. Tra parentesi, anche Mozzi, poco sopra, ha scoperto l’animale, che nella sua confusa formulazione (resa ancora più indefinita dai commenti successivi) sembra apparentarsi a quel carattere “meccanico” della “cultura” che avevo intravisto in queste dinamiche, dinamiche che il buon senso di Maslow aveva già grossomodo sistemato l’una sopra l’altra – e che invece lo “scrittore-direttore-promotore”, che si presume demiurgo, deus ex-machina capace di trarre alimento persino dal “rumore di fondo” – traendone però in salvo soltanto quei due ovetti kinder di banalità, peraltro deposti entrambi su Vibrisse, dove sarà evidentemente all’opera qualche formidabile “Genius loci” – si affretta a confondere i piani, perché è così che gli fa comodo. Lui però sa di essere animale parlante, e presume che gli altri non sappiano affatto di esserlo – perché altrimenti ne darebbero prova stilistica – e quindi può rivendicare una superiore razionalità. Direi che è meglio, simmetricamente, lasciarlo perdere. Del resto l’autoconfessione di impotenza che questi thread esprimono, è particolarmente patetica. Mi viene da pensare a quanto sul tema in questione possa raccontarti “L’anatomia della distruttività umana” di Eric Fromm, e confrontarlo con le puerili confusioni che si possono ricavare da questo angolo di infosfera. Dunque l’unico interesse si pone sempre al lato del tema in questione, come puro stimolo: the crowd and the individual’s mind symmetricize, each becoming an incoherent “agglomeration of beta elements, more like an agglutination than integration”.
Caro Wovoka, il nesso ce lo trovo, ma non solo per mie proiezioni o perché questi ultimi post e questo clima non particolarmente edificante e natalizio su NI mi portano a pensarci.
La domanda nasce anche dalla constatazione del cambio che tu – per delirio o per altro viene dopo – hai deciso di fare.
Dal linguaggio verbale all’immagine. Da un messaggio relativamente complesso a uno semplice, chiaro, definitivo, senza vie d’uscita.
È difficile separare il livello razionale dal resto. E però razionalmente, e un po’ forse anche istintivamente, e senz’altro anche ingenuamente, non sono e non voglio essere d’accordo.
E adesso vado a dedicarmi all’edificante d’obbligo.
Vedi Emma, assodato che la comunicazione è impossibile, che non vi è serietà nel gioco, che stiamo effettivamente qui a far da tappezzeria, oppure “rumor bianco”, muffa sopra ai muri per qualche novello Leonardo che saprà proiettarvi sopra i propri contenuti (“..perché nelle cose confuse l’ingegnio si desta a’nove invenzioni, ma fa prima di sapere ben fare tutte le membra di quelle cose che voi figurare..”) non per questo la libido demorde, ma anzi si intensifica, regredendo e facendosi più polimorfa e perversa (“questi, in definitiva, non riesce più ad affermare il proprio statuto – lo statuto del piacere – mediante una operazione che sente ormai screditata, ma non si arrende: al contrario riafferma le proprie ragioni scatenando contro l’ostacolo i meccanismi aggressivi e autogratificanti della propria energia libidica.) C’è un gioco che si può fare per ingannare il tempo quando si è circondati da un po’ di gente, e consiste nel fissare lo sguardo su qualche punto preciso in maniera tale che alcuni dei visi che ti stanno attorno vadano a cadere sui confini del campo visivo. Allora, se poni attenzione a ciò che in esso accade senza distogliere lo sguardo dal punto prefissato, li vedrai trasformarsi in maniere incredibili, come dei cangianti quadri di Bacon, un po’ grotteschi ma affascinanti (“al polo opposto di questa natura di tenebre, la follia affascina perché è sapere. Essa è sapere, in primo luogo, perché tutte quelle figure assurde sono in realtà gli elementi di un sapere difficile, chiuso, esoterico. Queste forme strane sono situate, di primo acchito, nello spazio del gran segreto, e il sant’Antonio che viene tentato da esse non è sottoposto alla violenza del Desiderio, ma a quella, ben più insidiosa, della curiosità; egli è tentato da questo sapere così lontano e così vicino, che è offerto e dissimulato nello stesso tempo dal sorriso del grylle; con il suo indietreggiamento si vieta di oltrepassare i confini proibiti del sapere; egli sa già – e in questo consiste la sua Tentazione – ciò che Cardano dirà più tardi: “La Saggezza, come ogni altra materia preziosa, deve essere strappata alle viscere della terra”.)
Così, una volta stabilito che tutti questi testi non servono a nulla nel loro significato primo, perché per lo più stupidi e pretenziosi (meglio andare sui libri, sui saggi, sugli autori legittimati) possono essere utilmente guardati come mostruosità, come grylle che enigmaticamente ci svelano qualcosa del mondo, di quello che è, o di quello che è stato o che sarà. Basta leggerli senza riguardi (e perché mai averne?) alla ricerca dei propri indizi, e poi ritirarsi da essi e lasciarli fluttuare, modificandosi, nella tua memoria. Quella foto di Di Canio era davvero notevole per come la smorfia deturpava un viso normalissimo, se non addirittura più bello della media. Come se l’essenza ignobile delle ideologie e delle pulsioni implicate, anche se ufficialmente negate, si rivelasse in quello straordinario effetto, quasi demoniaco. Un demoniaco che deve aver affascinato Montanari spingendolo ad una risposta scoordinata, che ha dato la stura a repliche altrettanto scoordinate, quasi che la maledizione di quella autorivelazione si propagasse dalla foto a tutti coloro che ne parlavano, rivelando le bestie nascoste e tutti quei severi limiti che ognuno di noi può facilmente constatare nell’altro. Mozzi mi ha irritato più di tutti perché in questo quadro popolato da mostri lui ha cercato, con mossa bassamente opportunistica, di sistemarci al centro (proprio come in quel celebre quadro di Bosch dell’incoronazione di spine) il proprio profilo da bottegaio, in una “Imitatio Christi” alquanto grottesca ed oscena – quando è del tutto evidente come il suo pensiero sia condizionato dal proprio onorevolissimo ruolo, che è quello di smerciarti della paccottiglia culturale di terz’ordine. He is not pure …
@ giorgio di costanzo
boia chi (la) molla!!!
Wovo, quei giudizi su Mozzi sono completamente sballati, quelli della “mossa bassamente opportunistica ecc. ecc.” Non se li merita proprio.
io spero che al più presto si leggerà sul sito un post di lello voce con un suo microracconto come quello geniale sulla gobba. solo così potremo capire la verità su di canio.
eppure raimo cerca di capirci qualcosa, non solo nel fenomeno in sé – che ci ostiniamo a dire fascistico in mancanza di altre definizioni – ma anche nel modo in cui uno che scrive, cioè che narra vicende umane, deve, dovrebbe, dovrà, porsi di fronte a questo tipo di cose, che sono attualmente ciò che passa la temperie culturale di massa in cui viviamo (briciole e retrogusti di ideologie novecentesche, giusto) e che probabilmente tenderanno ad estendersi ed a aumentare.
come si dice, di fronte a tutto questo “saltano le categorie d’analisi politica tradizionali”, così come è saltato agli occhi il riflesso, anche questo automatico e pavloviano, di disprezzo (di classe?) di molti per il dicanio e i suoi.
Ne sei proprio sicuro, Andrea? Ma si potrà pur interrogare un qualsiasi testo, invettive comprese, per sondarne il fondo ideologico: o no? La cosa culturalmente più terribile che abbia visto lo scorso anno è stato lo “special”, sul Corriere Magazine, di D’Orrico su Piperno. Nulla a che vedere con il valore di tale romanzo – ne chiederò notizie tra vent’anni – lo schifo viscerale è stato vedere quali “tasti” D’Orrico andava a premere, quali corde andava a pizzicare per raggiungere il suo scopo. Questo mi ha portato a studiare un po’ l’induzione dei bisogni, cioè l’induzione di quel senso di “mancanza ontologica” che ti spinge a compensazioni in linea con i desideri di certi interessati “mediatori”. Studiando il Nostro attraverso la sua abbondante “imago” in rete, mi sono accorto che, nel suo piccolo, è fatto esattamente della stessa pasta, anche se evidentemente qualcosa nella sua mente lo preserva da una tale sgradevole consapevolezza, che potrà allora provenire più facilmente dall’esterno (“non si elogia mai abbastanza la bella coscienza cartesiana che compartimenta la sua vita mediante paratie stagne, riservando la fede per la domenica e la ragione per i giorni feriali.”) Ma il suo destino, come quello della sua rete di complici, non mi interessa, è stata la sua maniera di insultare i commentatori senza discernere e senza lasciare quello “scampo” che Montanari aveva invece concesso, che gli ha guadagnato quella mia interpretazione “non benevola” delle sue “cose confuse”. Del resto sono qui per divertirmi e non per reggere lo strascico ad alcuno.
Wovoka, tralascio la tua parte livorosa, questo chiedere troppo alla rete e ai tuoi possibili interlocutori, questa violenza esibita che non riesco a capire.
Penso invece sia da seguire il tuo invito a guardare. Dunque tornare alle foto.
Forse le immagini ci dicono più cose di tutti i discorsi accumulati, lo fanno in un modo diverso, e comunque lavorano in profondità, continuano a lavorare anche quando le parole si sono allontanate. Non per niente le immagini – anche immagini terribili e mostruose – sono il supporto per la meditazione in religioni e vie per la conoscenza e la saggezza.
Prendiamo allora – di nuovo – la foto del Di Canio “brutto”, il ghigno feroce e il braccio teso.
E subito dopo la foto del Di Canio “bello”, sicuramente simpatico e così simpaticamente intenzionato ad ingurgitarsi la pizza.
E poi la foto dei manifestanti pro Di Canio, soprattutto il particolare del pannello con su disegnato Di Canio.
Non c’è il disegno del corpo, lì, non c’è traccia di braccio teso, c’è solo la faccia.
Ma non la faccia simpatica e ammiccante della pizza – no. L’“altra” faccia, quella che digrigna i denti, il ghigno brutto e feroce.
Il braccio teso potrebbe essere l’osceno, ma sull’osceno si può evidentemente patteggiare. Non si patteggia invece sulla faccia, sull’ordinario della scena.
Forse è la faccia la cosa che conta veramente, non il braccio teso. E a “quella” faccia non si rinuncia.
(Sì, mi capita di soffermarmi con intenzioni deformanti sulle facce degli altri. Mi succede soprattutto in contesti in cui si è in molti, non ci si ama alla follia e si vorrebbe sostanzialmente essere altrove.)
(Le fonti. Le fonti che citi, prego.)
Beh, Emma, la mia parte livorosa rientra nella mia attuale deliberazione di sperimentare in prima persona gli strumenti di quel delirio desiderante che Georgia, e i nostri deleuziani più o meno alla violetta, vedono in un’ottica così monocromaticamente positiva. Io ho invece l’impressione che certi “scatenamenti” non siano affatto innocui – sto inoltre scoprendo che non è proprio così brutto palleggiarsi al proprio interno certe cariche di odio, così “unificanti”, scaricabili all’istante su chiunque ce ne fornisca un fondato pretesto (d’altronde riesco sempre a far apparire a me stesso queste “scariche” come un’istanza di giustizia, o almeno di vendetta – suppongo che il gioco terminerebbe subito se mi accorgessi di aver arrecato danno ad un qualche autentico “innocente”, o forse no, forse le mie soglie dell’ “inumanità” potrebbero nel tirocinio elevarsi indefinitamente, proprio come in certi fascinosi esiti antiumanistici della nostra formidabile “cultura”). Ma d’altra parte se la crudeltà è uno strumento cognitivo, che va bene per Artaud, Piperno, Novarina eccetera, perché “noi” non dovremmo farne uso? Perché dovremmo rinunciare a fare la nostra “letteratura” in diretta, il nostro teatro, con tutto il versamento di frattaglie che è necessario allo spettacolo? Perché non dovremmo appropriarci dello spazio commenti come spazio “creativo”? Capisco che gli attori sul palcoscenico possano risentirsi del fatto che in platea e tribuna si cominci a mimarli e sbeffeggiarli, fino a volgere loro le spalle affascinati (e quindi resi autonomi) da qualcos’altro, ma d’altronde diciamocelo francamente: la recita è così scadente che questo esito se lo meriterebbero pure, perché la “differenza” che essi rivendicano di continuo (e si assicurano continuamente con reciproche pacche sulle spalle, da qui il dolore provocato dalla scollatura Raimo-Montanari) diventa sempre più una posa: visti in diretta questi autori si dimostrano talmente “normali”, più banali dell’oggetto stesso del loro interesse, in questo caso le turbe inneggianti a di Canio, che non sembrano avere gli strumenti neppure per “avvicinare”, figurarsi “redimere”. Forse ci si dovrebbe prima render conto di come non basti un’infarinatura di erudizione, di privilegio, e buone maniere, a trasformarci ontologicamente. Bisognerebbe capire come quelle stesse dinamiche “bestiali” che stanno lì, visibili a tutti come le palle del cane o i soldi del povero, ricompaiano puntualmente, soltanto eufemizzate e rese ingannevoli, negli scambi simbolici della “cultura”. Si tratta sempre della stessa bestia, come è peraltro del tutto ovvio, anzi nel loro porsi “per sé stessi”, indifferenti all’approvazione altrui, questi mi sembrano persino più innocui, un ennesimo falso obiettivo sul quale estenuarsi.
INDIZI 3
G1> Da Jung in avanti (almeno), il romanzo moderno, che rifiuta il mito in quanto privo di necessità ermeneutiche, col mito deve fare i conti: e se non sono miti, saranno almeno, con Weber e Jaspers, almeno idealtipi.
Qui mi son detto, “ecco, questo forse diventerà NI: uno scrive una frase di questo tipo, a questo livello di astrazione, e nessuno che gli chieda una spiegazione, segno evidente che si tratta di una mera decorazione convenzionale, l’esibizione di quarti di nobiltà culturale”. Mi è venuto un attacco di orticaria, ma ho deciso di lasciar perdere, continuando a leggere.
G2> Non era uso al tempo, lo è diventato purtroppo oggi, in questi tempi pipèrni. Anche io mi ci sono adeguato
G3> Ho finito ora un MBA in marketing della cultura giù in Luiss e, specie qui sul web, cerco di metterlo a frutto.
Qui il quadro cambia: G mostra la capacità, più o meno autoironica, di prendere le distanze dai suoi comportamenti, fare un passo indietro e dire, “beh, certo, si tratta di questo”. Improvvisamente ho intravisto la possibilità di un modus vivendi: il critico deve essere, almeno in una certa misura, ecumenico, il mediatore deve mediare e quindi alienarsi. L’artista da parte sua può essere selettivo e integralista, come in effetti normalmente avviene. E’ la stessa differenza che passa tra lo storico (o il docente di filosofia) che deve attribuire un giusto valore “storico” (o pedagogico) a tutto quanto, e il filosofo tout-court che deve invece affermare la sua filosofia nell’assoluto, e quindi perseguire una mutua esclusione, intrinsecamente violenta. Verità e socievolezza, mistici e chiese, una dialettica infinita.
M1> La maggior parte dei degnissimi commentatori NON HA CAPITO una comunicazione ironica ovvia come quella.
M2> non cercare di fare operazioni retoriche troppo complesse, perché in certe situazioni la gente non ti ascolta e rizza subito il patibolo.
M3>è anche vero, però, che moltissimo di ciò che di meschino, di vigliacco, di stupido, semplicemente di negativo emerge da forum, blog e affini sta in una dimensione comunicativa che sarebbe tagliata fuori all’istante se le persone si guardassero in faccia e si parlassero viso a viso.
Due cose da annotarsi:
1) gli scrittori sembrano identificarsi nelle loro capacità retoriche o stilistiche, che li contraddistingue da scienzati ed esperti di qualsiasi altra disciplina. Ritengono che piegare ed organizzare i significanti in determinate foggie possa far scaturire certe scintille di verità dalla matassa caotica delle descrizioni. E’ in fondo, ad un diverso livello di articolazione, la stessa convinzione dei poeti, e si contrappone chiaramente alla costruzione di “modelli” esplicativi che rinuncino alla suggestione e siano quindi aperti ad un confronto completo, più indipendente possibile da preferenze e pregiudizi estetici (cos’altro è il tirocinio estetico se non la formazione di pregiudizi?).
A me sembra piuttosto alto il rischio che tutto questo possa invece condurre a delle epifanie puramente emotive, condivisibili soltanto con i sodali che hanno incorporati “meccanismi a molla” altrettanto conformati. E lo si è visto bene, questo rischio, nell’assenza effettiva di “strumenti” dimostrata nei riguardi della turba dicaniesca: l’esito complessivo è infatti un vaffanculo reciproco, e la prospettiva tracciabile uno sbudellamento reciproco nella guerra civile. Credo che le fatiche supplementari che la scienza si accolla (rifiuto del soggettivismo, attenzione all’attendibilità delle fonti, all’intersoggettivabilità, alla valutazione critica ecc.) la conducano un po’ più in là, anche se probabilmente in misura non sufficiente (sono pessimista).
2) Sulla comunicazione “viso a viso”. Ciò che dice M è vero, ma è anche, ormai, un luogo comune. Non potremmo provare a ribaltare la frittata e pensare che sia proprio la comunicazione “viso a viso” a rinsaldare immediatamente le allucinazioni collettive nelle quali siamo immersi, e quindi che la comunicazione disincarnata di Internet presenti anche dei vantaggi? Nella vita reale tutto sembra ovvio e ben fondato, i comportamenti si accordano che è una meraviglia, le gerarchie si accettano senza neppure vedere che esistono. Allo stesso modo, deve essere sembrato ovvio e normale, ovvero l’esito di miliardi di piccole transazioni tutte abbastanza ovvie e normali, anche caricare della gente sui vagoni per avviarle al lager o al gulag. Quanto “stride” cognitivamente certo pathos con le musichette, le risate, gli auguri e i regali del Natale, con la patina scintillante della pubblicità e con il mondo pulito e ordinato del computer e di Internet. Eppure tutto questo convive di fatto con immani tragedie in atto. La compartimentazione delle coscienze appare allora come una necessità, quindi ovvia e normale, e appare sufficiente a spiegare i movimenti di questa stultifera navis che è il nostro mondo, ormai nell’orbita di certe ineludibili cascate.
Raimo è l’apologia dell’ovvio, ma anche l’autoenfasi in silente cecità dell’aterità dentro e fuori di sé, come anche dell’identità. All’incirca questo è quanto è stato detto durante due risse che Zizzi (una l’ho seguita di persona a Roma, l’altra mi è stata narrata) per solo pleonasma della recita ha voluto somministrare come ipotesi all’anemico raimo. Molti spettatori si sono divertiti.
Zizzi è un grande. Ha fatto bene con questo Raimo. Ra’ i ‘mo’ te spausciu u cul!!! Vai Zizzi!!! Tu sei uno vero!