Previous article
Next article

La cura dello specchio

di Franz Krauspenhaar

Erano anni ormai che mi portavo dietro, come un fardello invisibile, i miei problemi di ansia, perché l’ansia mi prendeva da anni allo stomaco e alla testa a tradimento, mordendomi come un invisibile cane idrofobo; con quel morso profondo nella mente, un solco di denti nettamente avvertiti nei pensieri più vari e nei sentimenti più contrastanti, vagavo a volte per la città, sperando di arrivare presto a destinazione per trovare un po’ di requie. M’era più volte successo mentre ero in mezzo ad amici, davanti a una tavola imbandita, in una tipica situazione di distensione dei nervi e di abbandono delle difese; e soltanto la mia volontà m’aveva permesso di non lasciarmi andare, tenendo a bada con una forza che avevo fin lì creduto di non possedere l’istinto di scappare a gambe levate da quello come da ogni altro luogo.

E poi al cinema, guardando il film di uno dei miei registi preferiti – ricordo che si trattava di Michael Mann – così che, essendo state sbarrate le porte della sala e non volendo con tutte le forze cedere all’ansia e alla paura per una questione di orgoglio, ero sgattaiolato fuori dal mio posto centrale, attorniato da centinaia di spettatori, poco dopo l’inizio di quel film che avevo atteso per mesi, ed ero riparato in cima, dietro all’ultima fila, rimanendo in piedi fino alla fine, sotto il buco dal quale il proiettore sparava docilmente le sue ombre magiche, sgargianti.

E m’era capitato, infine, anche a casa, nel pieno della notte, mentre stavo leggendo un libro; e così, per tentare di sfuggire a quell’ansia profonda e infida, ero uscito di casa e avevo cominciato a camminare sul marciapiede antistante lo stabile; e così era stato ancor peggio, poiché l’ansia s’era trasformata in una cieca paura, cosicché ero rientrato a piccoli passi, ansimando come dopo una corsa di chilometri, ed ero rientrato nel mio appartamento come un ladro impaurito dall’arrivo dei poliziotti, e avevo continuato a star male, finché il sonno procurato da un’enorme stanchezza mi aveva dato una specie di colpo di grazia liberatorio che mi aveva spedito in un lampo nell’oblio.

Dopo gli ultimi attacchi – eppure andava tutto bene, mi sembrava di aver ripreso da qualche tempo le cose pratiche della mia vita in pugno – avevo deciso di cercare qualcuno, uno specialista, che potesse mettere fine una volta per tutte a quei miei dolorosi affanni.

Dapprincipio avevo chiesto ad amici e conoscenti, i quali s’erano amichevolmente prodigati nel segnalarmi nomi e indirizzi di specialisti del settore; ma da nessuno m’ero sentito dire la frase che avrei voluto con tutte le mie forze sentire: “E’ un mago, il dottore che ti raccomando, e il successo della cura è garantito”. In verità quelle benintenzionate persone che avevo interpellato non avevano provato direttamente quelle cure, ma ne avevano sentito soltanto parlare. E questo non mi bastava, perché io avevo bisogno di fidarmi ciecamente della persona alla quale avrei affidato le mie prolungate sofferenze.

Finché un giorno, esasperato da quel nulla di fatto dietro al quale mi trinceravo assieme alle mie paure, decisi di giocare la carta del caso; e scorrendo le Pagine Gialle tentai di individuare un nome di specialista che in qualche modo m’ispirasse fiducia. Dopo un’ora di consultazione febbrile mi soffermai su un riquadro abbastanza piccolo, in cima all’ultima pagina: “ Dr. Franz Krauspenhaar – psicologo e psicoterapeuta”, un numero di telefono della mia città, un indirizzo email, una via che conoscevo bene. Quel nome straniero, per di più tedesco, m’ispirò una sorta di rispettosa fiducia; di psicologia sapevo ben poco, ma ricordavo bene che i cosiddetti padri della psicoanalisi – Freud e Jung – erano uomini che venivano dal nord, che parlavano e scrivevano in tedesco. C’era qualcosa di familiare che mi spingeva verso quello strano nome germanico.

Telefonai a quel numero di sette cifre come in trance. Una voce profonda ma giovanile rispose con un tono cordiale; capii immediatamente che si trattava del dottore in persona. Mi dette un appuntamento per l’indomani, nel pomeriggio, alle cinque.

Quella notte non dormii. Ero tentato di abbandonare tutto, mi feci prendere da mille dubbi: e se quell’uomo fosse stato un imbroglione? Se, invece di guarirmi, mi avesse fatto stare ancor peggio? Avevo già avuto, in un passato ormai divenuto lontano, varie esperienze con i cosiddetti medici dell’anima, e spesso, soprattutto dopo le prime sedute, la sofferenza, invece di placarsi, s’era acuita, e così m’ero sentito immancabilmente come andare a rotoli. Ero davvero stanco d’ogni dolorosa trafila, avevo bisogno di qualcuno che capisse velocemente il perché della mie pene e desse loro un nome, che queste pene le immobilizzasse, le rendesse innocue, impedendo loro di farmi altro male, che le smascherasse e le mettesse all’angolo, in castigo, spuntandone gli artigli per sempre.

Fino all’ora dell’appuntamento vissi in uno stato quasi catatonico; la paura, col passare delle ore, s’era trasformata in una sorta di pesante rassegnazione, propria forse del condannato alla massima pena; non c’era più via d’uscita, pensavo, e allora tanto valeva affidarsi al caso e, se non sperare, perlomeno abbandonarsi al destino che quell’uomo a me sconosciuto e al contempo familiare nelle mie affannate speranze avrebbe impersonato.

Verso le quattro uscii di casa, vestito con giacca e cravatta (m’imposi una divisa da impiegato modello non so nemmeno perché, erano anni che non mettevo più la cravatta, che mi dava fastidio e mi ricordava troppe cose del mio passato) e presi la metropolitana dopo aver fatto cinque minuti a piedi.
Il viaggio fu abbastanza lungo. Scesi dopo sei fermate, presi la linea verde e feci altre sette fermate. Scesi, presi la linea gialla per altre tre fermate, scesi di nuovo, presi il treno nel senso inverso, e così invertii tutto il tragitto, finché mi ritrovai alla stazione di partenza, a meno di cinque minuti da casa mia. Mi sembrava normale, quel viaggio, nonostante tutto. Tornai indietro verso lo stabile dove abitavo, c’era un bel sole, le giornate stavano allungandosi. Davanti al mio stabile mi fermai a guardare le targhe lucenti dei professionisti che lì avevano il loro studio, targhe d’ottone – chiaro e scuro, a seconda – che avevo visto migliaia di volte, uscendo e soprattutto entrando, nei miei innumerevoli ritorni a casa. Vidi la targa più grande come se fosse stata la prima volta: “Dr. Franz Krauspenhaar – psicologo e psicoterapeuta – 2° piano”. Possibile che quella targa non l’avessi mai notata prima? Ricordavo di averla vista – in mezzo a tutte le altre, come in un grande, metallico groviglio di nomi stagliati e incisi nel metallo scintillante di fronte al marciapiede – ma non ricordavo nulla di quella targa e di quello strano nome se preso singolarmente, se isolato da tutti gli altri.

Erano le cinque precise. Abituato da sempre a un’ossessiva puntualità, entrai nel mio stabile temendo di ritardare. Il giovane portinaio non ebbe alcun bisogno di una mia spiegazione, mi informò spontaneamente, senza che io dovessi spiccicare parola, che lo studio del dottor Krauspenhaar si trovava al secondo piano, scala B.

Presi l’ascensore e suonai alla porta; una targa abbastanza piccola teneva dentro di sé quell’insolito nome abbastanza lungo.
Un uomo sulla quarantina, capelli grigi quasi metallizzati, gli occhi chiari, di media statura e corporatura, comparve sulla porta. Era vestito in giacca e cravatta, aveva modi affabili. M’invitò a entrare. Ebbi la netta impressione di essere già stato in quello studio. Non solo: mi pareva di aver già visto quell’uomo, il dottor Krauspenhaar; nelle ore precedenti m’ero immaginato un vecchio signore tedesco o austriaco sui settanta, la barba e i capelli lisci e candidi (ma quel nome, in tedesco, non voleva più o meno dire “capelli crespi”, poi?) il portamento discretamente solenne; era chiaro che, senza volerlo, avevo pescato a piene mani, dentro me stesso, in un bel mucchio di immagini stereotipate, di cianfrusaglie mentali preconfezionate. E invece quell’uomo abbastanza giovane, che doveva avere all’incirca la mia stessa età, non aveva nulla dell’immagine dello psicologo – e per di più tedesco – che m’ero creato chissà come negli anni, senz’altro con poca fantasia.

Mi fece accomodare nello studio e mi chiese semplicemente quali fossero i miei problemi. Io, con altrettanta asciuttezza, gli raccontai delle mie paure, delle mie ansie senza vero nome a identificarle, a isolarle da tutto il resto.
Più passava il tempo più il dottore mi pareva familiare; era come se lo stessi, lentamente ma inesorabilmente, riconoscendo in mezzo a una folla di estranei deambulanti in una grande piazza cittadina all’ora di punta.

A un tratto mi disse: “Vede, io forse sono l’unico che puo’ tirarla d’impaccio in questa prima fase della cura. Abbia di me una moderata fiducia, questo glielo voglio dire subito; anche perché molto del lavoro lo dovrà fare lei, da solo. Ma lei deve credere in me, altrimenti la nostra cura non servirà a niente. Creda in me in maniera critica, ecco, perché anch’io, come tutti, posso sbagliare; dunque si affidi a me ma resti vigile sempre, attenda sempre di avere una controprova dallo svolgersi dei fatti, di sperimentare i progressi. Per il resto, sia se stesso.”
“Parla di prima fase, dottore”, lo interruppi preoccupato. “Cosa intende? Che dopo, forse, dovrò affidarmi a un altro specialista?”
Il dottore sorrise. “No, non credo”, disse semplicemente.”Voglio soltanto dirle che questo è solo l’inizio. Più tardi sarà in grado di scegliere, se lo vorrà. Potrà andare da un collega forse più preparato ed esperto di me – non sarà difficile trovarlo – oppure, una volta terminato il nostro ciclo di sedute, riprenderà la sua vita come se niente fosse successo. Sta a lei. Io credo di essere l’unico, sulla piazza, in grado di farle riprendere in questa prima fase della cura quel coraggio che a quanto pare in questo momento le manca. Io non sono infallibile, però. Sbaglierò molte volte. Dunque lei, se e quando io dovessi sbagliare e lei se ne dovesse accorgere, non abbia indugi nel farmelo notare.”

Quelle poche parole mi sollevarono di peso dalle mie angosce. Finalmente qualcuno che non prometteva l’impossibile. Finalmente qualcuno che, onestamente, mi chiedeva di essere a sua volta aiutato nella sua opera di aiuto. Mi sembrò di specchiarmi in quell’uomo, tutto all’improvviso. Era come se mi stessi riconoscendo in lui.

Quando uscii dal suo studio, circa un’ora dopo, stavo decisamente meglio. Non ricordo nulla a partire da quando uscii da quella porta: mi ritrovai un secondo dopo nel mio studio, seduto al computer, a scrivere questo racconto.

39 COMMENTS

  1. questo racconto è come un cocktail Martini prima di una cena in buona compagnia, magari col Rava Quartet in sottofondo.

    ti è andata pure bene, Franz: pensa se in vece del dottor Crespicapelli, ti fossi imbattuto in Bellachioma Crepet!

  2. Franz senza neanche leggerti so’ che questa volta sei andato in strafondo.
    sei sicuro di non essere uno speleologo?

    Magda con ….non so dire il sentimento.

  3. “anche perché molto del lavoro lo dovrà fare lei, da solo.”

    E’ una gran bella verità, questa, Franz. Nella situazione che tu ben descrivi, spesso ci si lascia prendere dal panico, e si peggiorano le cose, mentre una energica risposta dal “di dentro” può arrestare la caduta.

    Bart

  4. Non sono d’accordo con 6.11., né del resto con gli elogi agli scrittori in generale.

    Krauspenhaar, che io sappia, non è stato sempre “un grande scrittore”, e probabilmente non lo è ancora diventato; invece a me sembra che stia crescendo, evolvendosi: migliorando. Rispetto a quello che di lui si è potuto leggere in passato (cfr. i suoi primi pezzi su NI), prose come questa, dove si respirano un fermento personale e un confronto effettivo con una tradizione narrativa e rappresentativa, presentano uno scarto netto, un autosuperamento qualitativo che fa molto ben sperare. Nell’attuale mare magnum dell’arte verbale italiana non se ne contano molti, di percorsi del genere.

    Ma questa è solo un’opinione personale, na klar.

  5. Stefano, la tua opinione è assolutamente la mia, soprattutto per quanto esprimi nell’ultima parte del tuo intervento. Non volevo fare un elogio acritico (quale nella sua brevità il mio scritto è sembrato), che lascerebbe comunque il tempo che trova. Era solo una constatazione. Di quella crescita qualitativa a cui fai giustamente riferimento.
    Peace.

  6. Per l’ansia ho una nausea incredibile, il mal di testa e brividi di freddo. E non so neanche perché. Stavo pensando: scriverò un romanzo con un personaggio ansioso, vediamo se quella roba che si dice della scrittura terapeutica è vera.

  7. Bravo Franz, un post veramente edipico; nel senso che, come nella tragedia di Sofocle, vi è un uomo che indaga su un colpevole che, in realtà, è lui stesso.

  8. Quando S/Z fa lo spocchioso mi viene da ridere perchè so che significa , quando si è giovani, darsi un tono. Sarebbe però un gran bene se ti leggessi di FK “Le cose come stanno”. Baldini & Castoldi, che sto leggendo ora e che, seppure non finito di leggere, c’est une pure merveille.

    Franz con questo testo NI ha secondo me colto nel segno. Dopo un attacco- d’ansia o di romanzo, racconto- che è un puro concentrato di dolore, un’esperienza limite ancorchè personale e vissuta, FK elabora un percorso di allontanamento, di presa di distanza,e in qualche modo si mette a cartografare il viaggio. Il vero viaggio che come diceva Jabes è solo lo spostamento del punto di partenza.
    effeffe

  9. Questa cura dello specchio fa davvero “riflettere”.
    “Le cose come stanno” è davvero un gran bel libro.
    Intenso e febbrile. Consigliato a chi ama Dostoevski.

  10. @ effeffe e tramutoli

    Repetita iuvant.

    “Le cose come stanno” è uno dei più bei libri letti negli ultimi anni: mi capita raramente di leggere un’opera tre volte in sei mesi. Avendo già espresso questo giudizio in tempi non sospetti, son ben felice di imbattermi in queste autorevolissime conferme (riferimento a Dostoevskij incluso).

  11. @ GT
    I tuoi “Temporali” e “le cose” di Franz mi fanno “forte” compagnia. effeffe
    ps
    Chi semina vento
    raccoglie Giancarlo
    che non è a Benevento

  12. Caro Effeffe,
    credo solo che gli elogi, quando sono meritati, li si debba fare alle opere, non ai loro autori.
    Ho letto “Le cose come stanno” e mi è piaciuto.
    Saluti, StZ

  13. Franz, un lavoro “storico” da archiviare.
    In linea di principio pero’ dovrebbe esserci un’evoluzione verso l’antiedipo, considerando che, la psicanalisi essendo autereferenziale e fortemente intimistica ed introspettiva, si presta molto bene e molto facilmente ad essere teatralizzata, come fece Giorgio Gaber nel “grigio” o Alan Parker in “Angel heart” ascensore per l’inferno o infiniti altri esempi ante Freud come Shakespeare.
    ps. Sto pensando ossessivamente ad un autore contemporaneo a Freud , fortemente psicanalitico che scrisse un libro di cui non ricordo il titolo…..puo’ essere “il cacciatore d’anime” o qualcosa di simile?

  14. A mio, e scommetto anche di Freud, modesto parere Franz dovresti fare più sesso. A meno che questa tua aura non serva per rimorchiare???

  15. Hai ragione Magda. Oltretutto con i miliardi (di euro) guadagnati in diritti d’autore, Franz una cenetta potrebbe proprio offrircela (in subordine va bene anche un panino con una birra). :-))

  16. Se avessi guadagnato miliardi e vi offrissi un panino e una birra sarei solo meschino…
    Se vi offrissi una cena ora come ora mi ritroverei, come suol dirsi, “alle cozze”.
    Meglio attendere il prossimo libro.
    (Comunque grazie).
    P.s.: in alternativa propongo che me la offriate voi, la cena:-)
    (Scherzo?)

  17. a questo punto dicci quante copie hai venduto e di che libro, e sopratutto quanto hai guadagnato….no cosi per sapere se mi conviene stare nel copyleft o optare per il copyright……

  18. Mag, quando sarò ricco darò tutto in beneficienza a Bono degli U2; qualcosa anche a Bob Geldof, và!…
    Ti rispondo subito: ho venduto “abbastanza” per poter chiedere, senza imbarazzi, l’assistenza degli amici di buon cuore..

  19. e cazzo Franz ti sei scordato Bob Sleigh. Non so chi sia ma qui alle olimpiadi invernali va molto
    effeffe

  20. Francé, non l’avevo mai sentito nominare nemmeno io; però, con quel nome “esotico” puo’ chiedere cio’ che vuole…
    Perchè non ci mettiamo anche a noi a fare collette, dico io?:-)

  21. Ottimo e abbondante, Mag-a-Maghella. Col cuore (Grappa Julia reclamavit) si vince, col fegato si resiste, col cervello – quasi sempre- si esce fuori di testa.

  22. Allora mi do’ all’ippica e compro un reggiseno nuovo anzichè studiare heidegger che mi tira scema con i suo Zuhandenait Vorhaindenait o come si scrive….(allamano sottomano cioè pragmata o idealità…tutta una storia solo su due parole, pensa su tutte le altre….a proposito come si pronunciano? )
    Meglio essere una stupida naturale che un intelligenta artificiale.
    (questo lo dico per i geni telematici che mi prendono in giro per l’analfabetismo informatico)

Comments are closed.

articoli correlati

“STAFFETTA PARTIGIANA” concorso letterario

Nazione Indiana promuove un concorso per racconti e scritture brevi inedite sulla Resistenza e la Liberazione.

Il ginkgo di Tienanmen

di Romano A. Fiocchi Da sedici anni ((test nota)) me ne sto buono buono sul davanzale di una finestra in...

Partigiani d’Italia

E' online e consultabile dal 15 dicembre 2020 lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle...

Intellettuali in fuga dal fascismo

Patrizia Guarnieri, storica, ha ricostruito la vicenda dell'emigrazione forzata a causa del fascismo di intellettuali e scienziati, soprattutto ebrei:...

Mots-clés__

di Ornella Tajani Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore...

Mots-clés__S.P.Q.R.

S.P.Q.R. di Luigi Di Cicco This Heat, S.P.Q.R. -> play ___ ___ James Joyce - Lettera al fratello Stanislaus (25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di...