Invito alla lettura di un genocidio recente (Ruanda 1994)

Di Andrea Inglese

Dopo aver letto quattro o cinque libri sul Ruanda, averne sfogliati altrettanti, ricercato informazioni in rete, assistito a delle conferenze pubbliche e visto un documentario sull’argomento, mi sono chiesto perché mai un evento accaduto più di dieci anni fa in un paese dell’Africa dove non ho mai messo piede dovesse interessarmi tanto. Ci ho pensato su. E la risposta a cui sono giunto è questa: il genocidio ruandese dei tutsi del 1994 è una vicenda che non può non interessare tutti noi. Noi chi? Noi italiani, europei, occidentali. Provo a spiegarne i motivi e vi propongo una bibliografia selettiva sul tema.

Il mio intervento ha come presupposto un’idea particolare. Esiste un grado di consapevolezza storica minima, al di sotto del quale nessun cittadino dovrebbe sprofondare. Nel mio discorso pressuppongo un nesso forte tra questi tre concetti: “consapevolezza storica”, “cittadinanza”, “capacità critica”. Intendo dire con questo che una piena cittadinanza non solo implica un legame d’appartenenza giuridica di un individuo a uno stato, ma anche la capacità di questo individuo di esprimersi criticamente (negativamente) nei confronti di scelte operate all’interno del suo stato dalle istituzioni. Tale capacità di scelta e vaglio critico deriva inevitabilmente, oltre che dall’esperienza diretta, da quella grande parte di esperienza indiretta che è data dalla lettura e visione di documenti, immagini, studi, inchieste, ecc. È in questo modo che noi costituiamo un bagaglio minimo indispensabile di consapevolezza storica. Ora, rimane aperto il problema dei limiti di questo bagaglio minimo indispensabile. Faccio un esempio: in quanto “occidentale”, che cosa debbo sapere io di assolutamente indispensabile? Fino a dove dovrebbe risalire il mio sguardo rammemorante? Fino alle crociate? Fino alla conquista delle Americhe? Probabilmente sì. A patto che il mio sguardo non vada verso il “mito” delle crociate, ma verso i risultati della storiografia delle crociate. Risultati che ovviamente non saranno perfettamente unanimi, ma che anche nella loro molteplicità permettono di delineare una visione tendenzialmente spassionata e imparziale dei fatti.

In quanto italiano il discorso è diverso. Posso ignorare la storia del regime fascista? L’antifascismo che ha animato la mia costituzione? E posso ignorare le implicazioni di certe istituzioni dello stato italiano in atti criminali come la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969? Atti criminali che hanno colpito il paese per almeno un decennio. Posso ignorare la massiccia violazione dei diritti civili attuata dalle forze di polizia e carabinieri durante il G8 di Genova del luglio 2001? Insomma, per farla breve, ogni identità implica, per funzionare in modo critico, un grado sufficiente di consapevolezza. Non si può essere di sinistra, e tanto meno comunisti, senza sapere che cosa siano i Gulag sovietici e senza conoscere il grado di ferocia e arbitrarietà del sistema poliziesco sovietico. Non perché ci sia un nesso d’implicazione necessaria tra gli scritti di Marx sul comunismo e le forme del totalitarismo stalinista, ma il nesso storico basta e avanza per obbligare una persona che utilizza oggi concetti marxiani ad un vaglio critico sulle implicazioni storiche dell’ideologia marxista. (Gli esempi che faccio possono sembrare pacifici, ma non lo sono. Oggi non è più evidente che tipo di conoscenze dovrebbero essere presupposte da “identità” quali “italiano” o “di sinistra”.)

Non è comunque questo un discorso che voglio fare adesso. Quanto ho appena espresso costituisce però il presupposto del mio ragionamento sul genocidio ruandese. È banale affermare che non possiamo conoscere tutti i fatti di cui ci parlano gli organi d’informazione. Lo è meno il credere che sia necessaria una gerarchia da imporre alle informazioni di cui possiamo disporre. Non lo è affatto stabilire quali sarebbero i criteri per una tale gerarchia. Io direi innanzitutto che tali criteri non possono essere assoluti, ma devono essere contestuali. Detto in altri termini, la notizia più importante – per il nostro bagaglio minimo di consapevolezza storica – non è per forza la più grave. La morte accidentale di una persona è altrettanto grave di una morte violenta per assassinio, ma nel contesto in cui potremmo essere coinvolti come attori sociali la seconda può essere più importante, in quanto implica anche un dovere di giustizia.

1.
Un evento della nostra recentissima storia definito come “genocidio” (l’ultimo genocidio del XX secolo) dovrebbe di per sé interpellarci tutti. Per la gravità innanzitutto. Perché nella gerarchia dell’orrore e della gravità, non c’è nulla di più grave. Lo sterminio di massa organizzato è una soglia. Una catastrofe naturale o accidentale può uccidere più persone di qualsiasi atto di sterminio di massa, ma non potrà mai suscistare in noi lo stesso grado di orrore. La catastrofe naturale o accidentale ci provoca soprattutto profondo spavento, lo sterminio di massa profondo spavento e profondo ribrezzo.

Un amico mi diceva: “Con tutti i massacri che esistono nel mondo, perché occuparsi proprio del Ruanda?”
Perché Ruanda-1994 non è un massacro. Perché Ruanda-1994 non è (solo) una guerra civile. Perché Ruanda-1994 è stupri di massa, sterminio di massa, genocidio.

(Per altro, bisognerà applicare il termine “genocidio” in un senso ben preciso. Nel caso ruandese, infatti, vittime del genocidio non sono i membri di un’etnia x sterminati da membri di un’altra e diversa etnia y.

Cito dall’introduzione di J-L Amselle al libro di Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri, 2000:
“Dato che, agli occhi degli antropologi e degli storici, le etnie Tutsi e Hutu non esistono ‘oggettivamente’, l’utilizzazione stessa del termine genocidio diventa problematica: infatti, nella sua definizione canonica questo concetto si applica soltanto a minoranze etniche o religiose. Siccome queste etnie esistono “soggettivamente” nella coscienza degli attori sociali – e sopratutto in seno all’apparato dello Stato che fa figurare sulle carte d’identità le menzioni Hutu e Tutsi – si impone la necessità di estendere il concetto di genocidio a ogni gruppo sterminato in quanto tale, che si tratti di una minoranza o della maggioranza.”

È quanto, ad esempio, ricorda YVES TERNON in Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, Corbaccio, Cuneo 1997. Ciò che caratterizza il genocidio è “l’intenzione particolare di distruggere un gruppo e il fatto che gli individui sono presi di mira in quanto membri del gruppo, in quanto tali”. In questo senso, il genocidio rappresenta qualcosa di ancora più grave del crimine contro l’umanità.)

Ma perché mai un genocidio avvenuto nel piccolo stato del Ruanda dovrebbe interpellarci? Dovrebbe interpellare proprio noi? Perché la nostra cultura, di paese tra i più ricchi e evoluti del mondo, costruisce una certa immagine dell’altro, dell’Africa in questo caso. Perché questa immagine è bene o male nelle nostre teste, più o meno esotica, più o meno stereotipata… Grazie anche a certe distorsioni della nostra etica della solidarietà, ben scissa da ogni politica della solidarietà, l’Africa è per noi qualcosa di omogeno, semplice, rigido. L’Africa è un “ruolo”, nel nostro racconto del “mondo” attuale. Il ruolo del bambino scheletrico e il ruolo del bambino-soldato. Certo, non ci fermiamo a questo. Certo, anche questo ha una sua ragion d’essere. Ma entrambi queste immagini contribuiscono alla determinazione di un ruolo ben preciso: l’Africa interpreta per noi, ancora oggi, il selvaggio, il pre-moderno, il flagello naturale. Nel colossal statunitense, ennesimo remake di King Kong, di Peter Jackson, i “negri” sono ancora questo: la trance nella sua forma non liberatoria, ma “incatenante”, e il sacrificio umano. Nel film “mancato”, Lord of war, di Andrew Niccol e interpretato da Nicolas Cage, lo stereotipo della “naturale” guerra permanente degli stati africani s’impone su qualsiasi tentativo di analisi capace di fornire una minima profondità storica, un minimo spessore politico, al paesaggio di cui si parla.

In realtà, credo che l’Africa abbia, nel nostro modello di mondo, una sua funzione importante: essa è custode di quegli incubi di cui pensiamo di esserci liberati (la scarsità di cibo e acqua, la scarsità di cure e strutture mediche) o dei nostri incubi tout-court (l’uomo-automa della trance, il massacratore ancestrale, il cannibale). A volte, ma meno spesso, è custode anche di quei sogni, che non siamo più in grado di realizzare (la vita comunitaria, l’equilibrio uomo-natura, la compenetrazione arte-vita).
Ebbene, anche limitata una lettura del genocidio ruandese ci costringe a ridefinire drasticamente questo ruolo e il modello di mondo in cui s’inserisce. Il genocidio del 1994 non è una guerra tribale, una guerra di razze. E inoltre, è il segno della modernità, ossia della pianificazione, della potenza sistematica della macchina statale, del ruolo chiave dei media, radio e televisione, ecc.

2.
I responsabili del genocidio sono degli africani, nati in Ruanda, appartenenti al gruppo sociale hutu. Uomini politici, soldati e poliziotti, funzionari statali, liberi professionisti, persone qualsiasi, spesso molto povere, con poco o nessun lavoro, anche preti. Nessuna analisi storica e politica ridurrà mai di un grammo la piena responsabilità che queste persone hanno avuto nel genocidio dei loro connazionali. Ma questo non implica, che questo genocidio interpelli anche noi, noi europei e occidentali, per vie indirette.
L’istituzionalizzazione della fantasia etnica è un portato dell’amministrazione coloniale belga. In un momento in cui il revisionismo storico francese, ad esempio, investe la vicenda coloniale, cercando di riscattarla contro ogni evidenza, di liberarla dai suoi più indegni fardelli, possiamo ancora ragionare su questo. Abbiamo un debito di memoria nei confronti delle vittime del benessere europeo che non si è ancora esaurito. E questo debito di memoria ha senso per i limiti che esso pone alle politiche europee nel futuro, non per un semplice atto di contrizione rivolto al passato.

3.
Tutti noi siamo stati spettatori di una vivace rappresentazione delle grandi questioni politiche del dopo guerra fredda. Multilateralismo-unilateralismo, Nazioni Unite, Nato, democrazie contro regimi, democrazie contro terrorismo, interventi umanitari, guerre preventive, giustizia internazionale, difesa dei diritti umani, ecc. Di fronte a queste complesse questioni, ognuno di noi tocca con mano i propri limiti: quanto posso capirne? Oppure, all’opposto pensiamo di avere schemi infallibili per tutto interpretare e tutto acclarare. Non di rado sentiamo che gli specialisti la fanno inevitabilmente da padroni. E molto ci sfugge. A volte, ancora, pur nella convinzione intima di vederci chiaro, abbiamo dovuto combattere un flusso pervasivo di propaganda, che corrompeva la possibilità stessa di discutere con altri. La discussione in quanto tale si faceva impossibile. Erano stati aggrediti anche i minimi presupposti per organizzare, in forma comunicativa, l’esperienza del dissenso.

Noi italiani, ridendo e scherzando, non solo forniamo uomini per interventi delle Nazioni Unite nel mondo, ma anche abbiamo partecipato a una “guerra umanitaria” (governo d’Alema) e a una “guerra preventiva” (governo Berlusconi). Questi termini (e questi fatti) già ci riguardano, e anche i discorsi che su di essi si costruiscono.

Non voglio qui fare di ogni erba un fascio, confondere “intervento umanitario” e “guerra preventiva”, ONU e Nato, e via dicendo. Dico solo che tutte queste vicende e tutti questi discorsi ruotano intorno ad un concetto relativamente nuovo, quello del “diritto di ingerenza”. Deve risultare subito chiaro che questo non è un concetto politico come tutti gli altri, né un termine tecnico buono per gli specialisti del diritto internazionale. È uno dei concetti chiave, nel dopo guerra fredda, che legittima nel mondo occidentale, e in Europa in particolare, qualcosa di illegittimo o di molto difficilmente legittimabile, ossia la guerra. Ora questo concetto è stato usato per giustificare la guerra in Kosovo, ma è anche all’origine della meno “riuscita” giustificazione della “guerra preventiva” contro l’Iraq.

Che c’entra Ruanda-1994 in tutto ciò? Me lo ha chiarito un articolo di Tzvetan Todorov dal titolo Diritto d’ingerenza o dovere di assistenza? Esso è inserito in un libro dal titolo Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione, Oscar Mondadori, Milano, 2005. Oltre a Todorov, si possono leggere interventi di Ignatieff, Sontag, Eva Hofman, ecc.

In breve, Todorov traccia la comparsa del concetto di “diritto d’ingerenza” nel panorama politico occidentale (1999) e ne analizza la legittimità alla luce di principi etici condivisi e di fatti della storia recentissima. Non voglio qui riassumerne l’argomentazione, che è assai articolta. Ma riportare le sue conclusioni.

Nel “diritto d’ingerenza” si annida una terribile tentazione. Una tentazione che, nonostante tutti i richiami ai valori della democrazia, nasconde in sé un germe totalitario. L’idea di poter imporre il bene è l’espressione più diretta di tale germe. Ogni volta, in effetti, l’applicazione del “diritto d’ingerenza” è stata contestabile da molti punti di vista, provocando più danni che benefici. Inoltre, non si è mai sciolta dalla logica “dei due pesi e due misure”. Applicazione a chi fa comodo, quando fa comodo, contro chi fa comodo.

C’è un unico caso, però, in cui Todorov considera legittimo, e anzi imperativo il “diritto d’ingerenza”. Leggiamo:

“Per sottrarsi allo Stato universale e alla tentazione di costruire il paradiso in terra, la cosa migliore è non assumersi il compito di guarire l’umanità dai suoi mali. Vuol forse dire che dobbiamo rimanere a guardare quando gli altri sono sopraffatti dalla catastrofe? No. Dobbiamo mettere in discussione proprio le alternative sterili del tipo “bisogna scegliere tra l’inazione codarda e i bombardamenti a tappeto”. Ci si può opporre al male senza soccombere alla tentazione del bene.

L’intervento militare in un paese straniero, a scapito della sua sovranità nazionale, è giustificabile in un caso estremo, sempre che, naturalmente, non rischi di provocare più vittime di quanto non ne risparmi. Negli ultimi decenni questo caso estremo ha avuto un nome: genocidio. Escludendo però il genocidio potenziale, che potrebbe giustificare attacchi preventivi, e la guerra civile, per quanto orrendi possano essere i relativi massacri. Proprio per questo sarebbe stato illegittimo dichiarare guerra alla Germania nazista nel 1936: la linea del genocidio non era stata ancora applicata.”

Ora, come sempre, Todorov accompagna le sue affermazioni più importanti, da una serie di osservazioni atte a sfumare quelle che potrebbero esserne le interpretazioni più schematiche e riduttive. Ma per queste osservazioni rimando al suo testo. Ecco però le conclusioni che mi interessano:

“L’errore non può essere eliminato; ma assumendo come principio che solo il genocidio giustifica l’intervento militare, è lecito sperare che quest’ultimo si verifichi sporadicamente. I due genocidi verificatisi dopo la Seconda guerra mondiale – quello della Cambogia, iniziato nel 1976, e quello del Ruanda nel 1994 – non hanno prodotto il minimo accenno di intervento da parte della comunità internazionale. Furono interrotti, tardivamente, da una forza militare dislocata nelle vicinanze: in Cambogia dall’esercito vietnamita e in Ruanda dal Fronte patriottico ruandese, di stanza in Uganda.”

Questa chimera della giustizia planetaria, che tante guerre ormai ha legittimato, guerre nostre, non solo di occasionali mercenari senza scrupoli, ma di esercito pagato dai cittadini italiani, ebbene questa chimera ha avuto fino ad oggi un’unica ed estrema occasione per realizzarsi, almeno in parte, con tutte le incertezze del caso. Questa occasione però non ha provocato nessuna reazione: né a livello di ONU né a livello di singoli stati “democratici”. Chi sentirà l’esigenza di leggere del genocidio ruandese, vedrà che esso è un genocidio “annunciato”, non solo, ma anche direttamente “documentato”.

4.
Ma accanto al capitolo “inazione codarda”, bisognerebbe aprire quello di “complicità infame”. Questo capitolo riguarda un settore dello stato francese e il suo capo di stato, François Mitterand, figura di primo piano della sinistra riformista in Europa. È questo, a maggior ragione, un discorso che non si può fare di fretta, rischiando la semplificazione e l’equivoco. Ma non è giusto neppure passarlo sotto silenzio. Io su questo e su altri argomenti relativi al genocidio ruandese posso fornire una bibliografia selettiva. Una bibliografia che non sarà, per altro, priva di lacune.

Lacunoso o limitato è anche il mio discorso. E per varie ragioni. La difficoltà del tema avrebbe implicato un lungo e più sistematico lavoro. Questo è da considerarsi quindi come un semplice invito alla lettura. Una lettura d’orrore, è vero. Ma in qualche modo necessaria, come ho tentato di spiegare.

*
In italiano

Jean Léonard Touadi, Congo Ruanda Burundi. Le parole per conoscere, Editori Riuniti, Roma, 2004.

(Libretto breve, ma che fornisce un’adeguata immagine d’insieme sul genocidio ruandese, inserendolo nelle dinamiche politiche più ampie e regionali, che l’hanno preceduto e seguito.)

Michela Fusaschi, Hutu-Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

(Seria analisi di taglio antropologico sulle “pre-condizioni” del genocidio.)

Libri di testimonianza:

Tadjo Véronique, L’ombra di Imana. Viaggio al termine del Ruanda, Ilisso, 2005.

Hatzfeld Jean, A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda , Bompiani, 2004

Boris Diop Boubacar, Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, edizione e/o, Roma, 2004.

Gourevitch Philip, Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Storie dal Ruanda , Einaudi, 2000

*

In altre lingue (sopratutto in francese)

1. Guerra civile e genocidio

Alison Des Forges, Leave None to Tell the Story: Genocide in Rwanda, New York: Human
Rights Watch, 1999 – trad. francese nello stesso anno

Braeckman Colette, Rwanda: histoire d’un génocide, Fayard, Paris, 1994 [trad. It., Strategia della Lumaca, Roma, 1995]
Terreur africain : Burundi, Rwanda, Zaire : Les racines de la violence, Fayard, Paris, 1996.

Chretien Jean-Pierre (a cura di), Rwanda : les médias du génocide, Karthala, Paris, 1995.

Verdier R., Decaux E., Chretien J. P. (a cura di), Rwanda : un génocide du XXe siècle, l’Harmattan, Paris, 1995

2. Reazioni internazionali

Coret L., Verschave, F. X., L’horreur qui nous prend au visage : L’État français et le génocide, Rapport de la Commission d’enquête citoyenne sur le rôle de la France dans le génocide des Tutsi au Rwanda, avec Laure Coret, 2005, Karthala

Klinghoffer A. J., The international dimension of genocide in Rwanda, Macmillan press, 1998.

Ould Abdallah A., La diplomatie pyromane : Burundi, Rwanda, Somalie, Bosnie…, Calman-Lévy, Paris, 1996

Willame J-C., L’ONU au Rwanda (1993-1995) : la communauté internationale à l’épreuve d’un génocide, Maisonneuve et Larose, Paris, 1996.

3. Inchieste sul ruolo della Francia nel genocidio

Gouteux J-P, La nuit rwandaise. L’implication française dans le dernier génocide du siècle, l’Esprit frappeur, Paris, 2002.

De Saint-Exupéry P., L’inavuable. La France au Rwanda, les arènes, Paris, 2004.

(Invito chi conoscesse altri titoli, sopratutto in italiano, a segnalarli nei commenti.)

(immagini tratte dal sito: www02.couleur3.ch/rwanda/archives/accueil_simple.html)

Prima foto:
23 mars 1999, Nyamata: Jean-Paul, 14 ans, porte encore les marques des coups de machette reçus en 1994. Les milices hutues l’avaient laissé pour mort aux côtés des corps de ses parents. Au moment où a été prise la photo, Jean-Paul déclarait vouloir devenir soldat pour pouvoir se venger un jour. [brennan linsley / keystone]

Seconda foto: Kibumba (Zaïre), 31 juillet 1994 : un bulldozer piloté par un soldat français charge les corps pour les enfouir dans une fosse commune. [jean-marc bouju / keystone]

31 COMMENTS

  1. Andrea, senza scendere in altre considerazioni, ma se “l’intervento militare” – mi chiedo perché non la chiamino col suo nome: guerra – è applicabile nel caso di genocidio, riporto il periodo, “L’intervento militare in un paese straniero, a scapito della sua sovranità nazionale, è giustificabile in un caso estremo, sempre che, naturalmente, non rischi di provocare più vittime di quanto non ne risparmi.”; la domanda che mi parte subito è:
    chi è in grado di calcolare questi numeri e decidere quando il limite per un intervento militare esterno (guerra preventiva per capirci) è stato raggiunto?

    Non so, ho come l’impressione che manchi qualche passaggio…

    Buona serata. Trespolo.

  2. Per un’analisi politica del massascro e del non-intervento della comunità internazionale consiglio “Istruzioni per un genocidio. Rwanda: cronache di un massacro evitabile”, di Daniele Scaglione, edito da EGA.

  3. 2 bei testi di Andrea Inglese

    Il massacro è la mia storia, in allegoria,
    la porticina, la feritoia, il filo di luce
    disatroso sotto la porta. Dietro di essa
    la piena interrompe il discorso degli ospiti,
    rovescia i piatti sul soffitto, riempie
    gli intervalli di dubbio e cortesia
    e le narici. È cosi che l’altra sterminata storia
    che non sa compiersi, mi chiama
    dalle case inondate, dalle statue
    a braccia tese, immerse.

    *******

    Lasciammo che le milizie. Doveroso intendersi. Presero la parola.
    Ancora una volta, con attenzione e calma. I tovaglioli appena posati
    ad ogni tavolo, in una piega elegante, a cono. Noi partecipammo
    in silenzio, con fogli pieni di appunti. Il negoziato continuava.
    La sera avanzava dolce dai tetti. Rimasero seduti. Altri
    preparavano i bersagli. Una croce di vernice sulle porte.
    Una sigla d’inchiostro nella pagina interna, dietro la foto.
    Per noi si era fatto tardi. Passavano gli ultimi pullman.
    Sospesero sereni il colloquio. Le donne s’infilavano
    i ganci degli orecchini nei lobi forati. I miliziani ancora
    insonni infilavano i proiettili con la testa tagliata a croce.
    Al ritorno distribuirono dolci tipici del paese. Pensammo
    a loro. Alle milizie sedute al tavolo, al passaggio delle caraffe
    da una mano all’altra. Tagliarono prima le pance degli uomini.
    Fracassarono gli armadi e chi era rannicchiato dentro.
    Non dovevano più pensare né parlare. Il coltello andava pulito
    ogni volta sui pantaloni, nella parte di stoffa rinforzata.

  4. Prendendo per buono l’assunto alquanto discutibile di Todorov dell’intervento “giustificabile” (ma già viene la domanda: giustificabile o doveroso?), restano, a mio avviso, almeno due ordini di problemi non facili da risolvere:
    il primo lo ha già evidenziato trespolo: come poter distinguere in modo chiaro il genocidio dallo sterminio e dal massacro? Molti (non io) non riterrebbero forse un tentato genoocidio ciò che è successo nella ex jugoslavia?
    il secondo problema: immagino che sia l’ONU, ossia una organizazione multinazionale riconosciuta da quasi tutti gli stati ad avere l'”onere della prova”, ad avere cioè il compito di dire ciò che è genocidio.
    Bene, ma l’ONU attuale è nella condizione di poter dare un giudizio equilibrato, sapendo il peso che hanno USA, GB, RUSSIA CINA E FRANCIA?
    Sappiamo tutti quanto queste potenze siano storicamente indirettamente colpevoli d’inazione di fornte a crimini perepetrati da una delle stesse potenze.
    Lorenzo Galbiati

  5. a Trespolo e Galbiati: giuste le vostre osservazioni; vi rimando all’intero articolo di Todorov; ma di certo alla vostra domanda è difficile dare una risposta infallibile, univoca… quando si ha massacro e quando genocidio?

    Ma già questa domanda imposta adeguatamente il discorso. Per alcune ragioni. Non accetta una posizione di pacifismo radicale o assoluto. Guerra mai, in nessuno scenario possibile. Nello stesso tempo esclude categoricamente non solo ogni guerra preventiva, ma ogni guerra per rovesciare un regime che viola i diritti umani o che ha realizzato dei massacri.

    Per rispondere in ogni caso alla vostra domanda, studiare la vicenda Ruanda è appunto molto importante. Di certo, e lo dice anche Todorov, l’ONU NON è nei fatti un attore politico capace di fare alcunché di decisivo, anche e sopratuttto in casi estremi. (quindi bisognerebbe anche smmetterla con: intervento si, ma sotto le forze ONU, ecc.) Inoltre il Ruanda 1994 è un caso in cui era possibile comprendere la portata eccezionale e sistematica dei massacri in corso.

  6. Andrea, la vicenda Rwuanda mi è, purtroppo, tristemente nota ed è, per quanto mi riguarda, uno dei pesi che gravano sulla coscenza dei paesi occidentali. Ma la questione, premesso che sono anni (parere personale) che l’ONU conta meno del due di picche, rimane comunque aperta: quali metodi, metriche, deduzioni, esperienze possono essere utilizzate per arrivare a distinguere lo scenario *teorico* che Todorov abilmente descrive?
    E, sopra tutto, vista anche la situazione ONU: chi dovrebbe decidere?

    Senza una risposta a questi due temi credo che fra molti anni saremo ancora qui a discutere le *filosofie* di presunti esperti senza aver trovato nemmeno un barlume di soluzione.

    E’ giusto, come nel caso della guerra in Irak, che la decisione pesi, con tutti gli onori e gli oneri del caso, sulla testa di un solo Presidente/Stato? Personalmente ritengo di no, ma non vedo alternative; almeno per ora.

    Quali altri Paesi dovrebbero intervenire? E quali strutture potrebbero agire come *consulenti*? Solo i militari? Anche i presunti esperti? Bohh…

    Non vedo molte vie d’uscita e se penso che i più strenui oppositori all’intervento in Irak, almeno negli Stati Uniti, furono i militari (quelli, la maggioranza, che non seguono le direttive di Ramsfeld e Cheeney)… mi viene da preoccuparmi.

    Buona notte. Trespolo.

  7. Faccio fatica a trovare il centro di questo intervento di Andrea, che pure per altri versi mi piace.
    Difficile interiorizzare ogni volta la violenza che si manifesta – talvolta in modi apocalittici – altrove, in luoghi remoti.
    Difficile farne davvero propria la tragedia, mentre è facile, perché sempre vero, affermare che la causa, diretta o indiretta, siamo NOI.
    Questo forse è il punto.
    Qualcuno potrebbe rimproverare ai ruandesi di non essere intervenuti in Kossovo o, prima, in Cambogia, oppure a Timor?
    Come mai i tahitiani non mossero un dito di fronte ai massacri napoleonici?
    Questo tipo di domanda diventa pura provocazione ai nostri occhi di occidentali “di sinistra” (chissà cosa vuol dire, ormai) e “pacifisti”.
    (((Per inciso: personalmente credo che tra i Diritti Umani andrebbe incluso il non-uso del corpo di un individuo, consenziente o no, a fini politico-militari: dunque la pace come *diritto civile*, invece che come generica istanza ideologica.)))
    Questo perché non è il Ruanda che modifica i rapporti di forza all’interno dell’Occidente, ma è, ed è stato, esclusivamente il contrario: una delle due etnie, non ricordo quale, fu fortemente favorita dall’occupazione coloniale, dalla quale ebbe troppo potere.
    Insomma credo si possa affermare che tutto ciò che accade nel non-occidente è direttamente o indirettamente causato dall’occidente.
    L’ONU aveva questa funzione di redenzione e pentimento, di risarcimento dei torti (simbolico) e inibizione della violenza, eccetera, talvolta opponendosi “al male senza soccombere alla tentazione del bene”.
    O almeno si aveva l’impressione che lo facesse.
    Serviva alle coscienze, più che altro, l’ONU: operava lavacri nelle menti d’occidente, perché si sentissero tranquille: “ci va l’ONU”, “ci appelliamo all’ONU”, “una forza di interdizione dell’ONU”, eccetera.
    Sappiamo che l’ONU era anche in Ruanda, ma che non ha fatto/potuto fare nulla, eccetera.
    Genericamente, il pensiero marxista è stato messo a tacere o ha taciuto sua sponte: l’ONU è morta e le sinistre di tutto il mondo non hanno mosso un dito.
    Senza rendersi conto – genocidio o no – che non ha senso porsi il dilemma intervento/non-intervento senza una forza comune capace di metterlo in pratica.
    Insomma, senza l’ONU non è nemmeno possibile porre in atto il nostro tipico procedimento di costruzione di falsa coscienza: che brutte cose, mandiamoci l’ONU.
    Fatico a trovare il centro anche in queste mie righe, a dire il vero.

  8. “La pace come diritto civile, invece che come generica istanza ideologica”. Bellissimo, Tashtego: una elementare, fondamentale base su cui costruire un sapere e una convivenza di altro segno. O almeno provare. Mi piace: come teoria e come prassi.

  9. Tashtego: a mio parere continua a mancare un passaggio nella tua bella riflessione: chi si deve far carico di intervenire e andare a SPARARE (perché di questo si tratta) a “pochi” per salvarne tanti?

    Fino a quando non ci sarà la risposta il resto ho l’impressione che rimarrà null’altro che una più o meno piacevole ammucchiata di parole.

    Buona notte. Trespolo.

  10. Il nostro posto
    (tavole nuove per quale mai legge?)

    Se solo sulle tavole
    imbandite di nulla,
    su queste nostre lucide
    mattonelle di vuoto,
    se sulle mille chiacchiere
    per non fare mai niente,
    su queste nostre comode
    vite di occidentali
    copiose di penuria,
    piovessero di colpo
    i brandelli dei corpi
    esplosi giù a Baghdad,
    rimestandoci il sangue
    nell’alcool dei bicchieri,
    cadrebbero gli schermi
    d’ogni pubblicità
    e ufficiale pietà:
    sentiremmo davvero
    che cosa è vita e morte,
    e saremmo obbligati
    a scegliere all’istante
    che mondo costruire,
    che uomo edificare
    ex novo – al posto nostro.

    (23/06/2005)

  11. a Trespolo e Tash:

    “E, sopra tutto, vista anche la situazione ONU: chi dovrebbe decidere?”(Trespolo)

    Prendiamo atto prima di tutto di una cosa. E’ da combattere il principio stesso dell’ingerenza umanitaria. Quindi inutile piangere perché l’ONU non funziona. Sulle cose più gravi ed urgenti non ha mai funzionato. Ricordarsi anche la Bosnia. Togliamo quindi, come dice Tash, il paravento lavacoscienze.

    Che cosa rimane?

    “Senza rendersi conto – genocidio o no – che non ha senso porsi il dilemma intervento/non-intervento senza una forza comune capace di metterlo in pratica.” (Tash)

    No. Bisogna invece dire a chiare lettere: vi sono casi estremi, rari, in cui potremmo avere prove di un genocidio in atto. In questi casi, e solo in questi, intervenga chi puo’ e riesce, con mandati o senza mandati. Rileggetevi il passaggio di Todorov su Cambogia e Ruanda. Fermare un genocidio, ma non preventivamente (e non è un dettaglio) è l’unico atto che giustifica un’intervento militare anche del tutto unilaterale.

    “Senza una risposta a questi due temi credo che fra molti anni saremo ancora qui a discutere le *filosofie* di presunti esperti senza aver trovato nemmeno un barlume di soluzione.” (Trespolo)

    E’ proprio di una discussione filosofica, accompagnata da un’analisi storica e politica, di cui abbiamo bisogno. Le guerre, come il capitalismo, hanno bisogno per regnare di appoggiarsi su discorsi legittimanti. Senza ipocrisia il capitalismo e suoi annessi (imperialismo) non pèuo’ vivere. Dunque è sempre errato l’atteggiamento di chi, a sinistra, liquida come irrilevanti i discorsi “ipocriti” del capitale.

    “E’ giusto, come nel caso della guerra in Irak, che la decisione pesi…”
    Nella guerra in Irak non c’è nulla di giusto. E’ un’azione totalitaria, la cui logica è più simile a quella dell’attacco della germania nazista all’URSS, che a qualsiasi altra forma di intervento “ipocrita” di una potenza occidentale in zone di interesse strategico.

    Mi piacerebbe riprendere anche altre cose che dice Tash. Intanto spero che lo faccia qualcun altro.

  12. Andrea, sono d’accordo quando riprendi i concetti di Tashtego e riaffermi la necessità di *discorsi legittimanti* – io li chiamerei con un altro nome, ma adesso non me ne viene uno appropriato.
    Però, a forza di attendere *discorsi legittimanti* l’Europa si trovò nelle mani di un criminale come Hitler e, forse per colpa dei *discorsi legittimanti*, il regime comunista riuscì, a suon di milioni di morti, a fare e disfare sulla testa della gente, per decenni, nella vecchia Unione Sovietica. E i prodromi ancora non si sono esauriti.

    A questo punto il dubbio che mi viene è: chi li deve fare questi *discorsi legittimanti*? chi ha le conoscenze? chi l’equilibrio? e, sopra tutto, chi deciderà quando intervenire e ci metterà i soldi e i morti, non dimentichiamoli, necessari?

    Cito 2 casi recenti, completamente diversi, ma sui quali potrebbe valer la pena riflettere: Darfur e la sua strage dimenticata per anni, Iran e la svolta nucleare che promette, con le nuove tecnologie missilistiche acquisite dalla Corea del Nord, di tenerci sotto tiro nel giro di qualche anno.

    Che fare? Aspettare, come per il Darfur che la tragedia si consumi e arrivare con i pannolini per curare i morti, oppure intervenire prima?
    Bel dilemma.

    Per chiudere: l’esempio che facevo sull’Irak è sicuramente sbagliato e le motivazioni addotte per giustificare l’intervento mi erano parse da subito un’invenzione, ciò non toglie che, in termini prettamente tecnici, il paragone sia del tutto simile ad altre situazioni recenti. Vedi la guerra nelle repubbliche Jugoslave che ci ha visto passivi, con una guerra alle porte di casa, massacri da scoop strappalacrime e strane operazioni finanziarie a fare da contorno. E’ valsa la pena intervenire? Non lo so, le tesi, come sempre sono molte e una diversa dall’altra, ma, come al solito, abbiamo dovuto attendere – parlo dell’Europa e non solo dell’Italia – che gli Stati Uniti ci mettessero faccia e soldi per poi aggregarci a fronte di un voto del parlamento di allora che rasentò il ridicolo. In sintesi: la situazione internazionale è completamente cambiata dalla caduta del Muro di Berlino, e ancora stiamo cercando *discorsi legittimanti*. Non è che servono solo a noi occidentali e nati con la camicia?

    Buona giornata. Trespolo.

  13. Inglese: “Bisogna invece dire a chiare lettere: vi sono casi estremi, rari, in cui potremmo avere prove di un genocidio in atto. In questi casi, e solo in questi, intervenga chi puo’ e riesce, con mandati o senza mandati. Rileggetevi il passaggio di Todorov su Cambogia e Ruanda. Fermare un genocidio, ma non preventivamente (e non è un dettaglio) è l’unico atto che giustifica un’intervento militare anche del tutto unilaterale.”

    Perché mai uno stato dovrebbe intervenire unilateralmente per fermare un genocidio tra etnie che si svolge dall’altra parte del mondo? Proviamo a chiedercelo seriamente. Io non vedo altro motivo se non quello di averne un tornaconto, politico ed economico. Sbaglio? Convincetemi del contrario…
    Ma se non sbaglio, bisogna tornare al punto di partenza: costruire una nuova ONU, su altre basi, con un vero esercito multinazionale e, se si trovano coraggiosi disposti a farlo, con un corpo di pace che agisca (ma questo non è il caso del genocidio già in atto) in alcune circostanze promuovendo la difesa popolare nonviolenta.

    Trespolo: “…Iran e la svolta nucleare che promette, con le nuove tecnologie missilistiche acquisite dalla Corea del Nord, di tenerci sotto tiro nel giro di qualche anno. Che fare? Aspettare, come per il Darfur che la tragedia si consumi e arrivare con i pannolini per curare i morti, oppure intervenire prima?”

    Trespolo, mi spieghi con quale diritto le potenze nucleari (USA, GB, FRANCIA, ISRAELE ECC.) dovrebbero vietare ad altri stati, che peraltro loro stesse minacciano (gli USA, almeno), avendoli iscritti nel club “stati canaglia” (per non dire di ciò che gli USA nei ’50 hannno fatto a Iran e Corea), di possedere il nucleare? Con quale diritto? Di fatto avere un grande esercito, avere le armi nucleari è l’unico deterrente per l’Iran (e forse anche per la Corea) a un’invasione angloamericana. Mi spiace, ma su questo punto il tuo è un ragionamento fatto con i paraocchi. L’Occidente non è nella posizione morale di proibire alcunché né di intervenire militarmente in altri stati! Inizino gli USA e Israele a ratificare tutti i trattati ONU contro la proliferazione delle armi, che invece sistematicamente boicottano, inizino loro a farsi ispezionare le basi da osservatori ONU (e inizi Israele ad abbandonare la Cisgiordania e gli USA ogni minaccia alla Corea), poi vedremo se dovremo
    ancora preoccuparci di Iran e Corea.

  14. Sommessamente mi assumo il compito di riassumere l’ovvio.
    Dunque.
    Sarebbe il caso, forse, di sgombrare il campo da norme, principi, diritti, di tipo internazionale, perché semplicemente non esistono.
    Norme diritti e principi valgono per le comunità insediate che condividono anche cultura, identità sistema politico, storia, tradizioni, eccetera: religione, persino.
    Gli stati sono invece mostri freddi che reciprocamente si valutano e si comportano secondo convenienza, anche se in qualche caso le affinità culturali (vedi per tutti il rapporto USA/GB) contano, eccome.
    Dunque ogni tipo di intervento non si basa sul diritto, ma piuttosto sul tornaconto, tattico o strategico che sia.
    Il tornaconto può essere mascherato in molti modi, ivi compreso un ardore democratico come quello che infiamma i cuori dei marines – e dei “nostri ragazzi” – in Irak.
    Ma esiste anche la nostra (coscienza?) opinione, il nostro sentire etico-politico di cittadini di democrazie mediatiche occidentali, e questa opinione conta, perché preme efficacemente sui governi per spingerli all’azione a fini “umanitari”.
    Un obbiettivo è “umanitario” quando concerne questioni di “nuda vita”, quando si prefigge di salvaguardarne i fondamentali, di contrastare e interrompere con urgenza momenti di emergenza come fame e massacri locali, eccetera.
    Questo tipo di intervento, indipendentemente dal tipo di coscienza che lo genera, va distinto da ogni altro, anche se la politica naturalmente non ne resta fuori, mai.
    Quindi è opportuno non mescolare temi squisitamente politico strategici, come l’atomica dell’Iran o della Corea, col massacro ruandese o quello cambogiano.
    Per politico strategico intendo ciò che, secondo la sublime definizione di Schmitt, afferisce il “binomio amico nemico”.
    Difficile che una situazione che rientra a pieno titolo nel binomio di Schmitt possa allo stesso tempo avere aspetti davvero “umanitari”, perché la potenza ultimativa della divaricazione “amico nemico” prevale di molto su ogni slancio solidaristico/opportunistico/propagandistico.
    L’Irak insegna: si fanno cose buone per i bimbi irakeni e allo stesso tempo li si bombarda a tappeto, perché in mezzo a loro si annida il nemico, perché *sono* il nemico.

  15. Fin dalla prima mattina radio mille colline ha iniziato a passare il messaggio “tagliate gli alberi alti” alla fine di ogni canzone.
    Alla spicciolata piccoli gruppi di ragazzini hanno cominciato ad arrivare sulla strada, gente di fuori, con maceti e facce tirate come maschere. Abbiamo cominciato a sentire delle raffiche in lontananza, e a vedere gente che scappava.
    “tagliate gli alberi alti”
    gli assembramenti si sono ingrossati, le urla sono diventate sempre più alte e le raffiche sempre più vicine.
    Quando hanno incominciato a capire come si mettevano le cose, che erano “loro” gli alberi alti era ormai troppo tardi,
    gli interhahamwe erano già arrivati.
    E la radio aveva cambiato messaggio:
    “schiacciate gli scarafaggi”.
    A mezzogiorno è scoppiato il macello; il panico si è impossessato di “loro” che fuggono da tutte le parti come scarafaggi sorpresi dalla luce, e si sentono spari nella nostra strada, urla di donne, ancora spari, qualche rantolo.
    Ma il peggio deve ancora iniziare, per me.
    Ormai l’odore del sangue si è diffuso nell’aria come una droga e gli interhahamwe sono ovunque come cani da caccia che inseguono la preda.
    Un ragazzino di non piu’ di quindici anni sfonda la mia porta e mi intima di seguirlo, mi punta addosso un Kalasnikov, i suoi occhi sono due palle che schizzano fuori.
    Sulla piazza principale sono radunate parecchie famiglie di scarafaggi, gente che conosco che vive dove vivo io da una vita.
    Il ragazzo mi porge il macete e mi grida di fare il mio dovere.
    Le donne urlano, i bambini piangono. Non voglio fare una cosa simile ma quello mi sputa addosso frasi smozzicate
    “chi non odia gli scarafaggi e anche lui uno scarafaggio”.
    basta un tremito del suo dito e verrei investito da una raffica. non voglio ma le sue urla di rabbia mi stanno frastornando
    e quella vecchia grinzosa mi implora di avere pietà dei suoi figli.
    Urla dovunque, così uguali. non voglio morire e i mio braccio armato di macete si abbatte sula testa di quella donna che si spacca come un melone maturo
    il suo cervello mi schizza sui vestiti
    ormai sono anch’io un assassino.
    le munizioni sono finite prsto e siamo passati al machete e chi non ha un machete basta un grosso bastone di legno con duee chiodi alle estremità
    ho ucciso la famiglia che abitava davanti a me, per primo il figlio che mi rubava il lavoro infine il padre , ma non sono riuscito a levargli dalla faccia quel sorriso dignitoso. la sorella gli è andata bene, l’hanno stuprata due quattordicenni pieni di chat.
    che si poti dentro la nostra vendetta : sangue marcio e figlio hutu.
    la radio sibilava ” le fosse non sono ancora piene, avanti hutu”
    ma questa gente non finisce mai. Ormai è notte è noi ssiamo sfiniti.
    nel buio vedo solo gli occhi dei miei compagni occhi che non hanno più limite all’orrore, che non vedono più il discri mine tra bene e male.
    le fosse non sono ancora piene, avanti hutu”
    finiremo di riempirle domani, adesso siamo stanchi.
    abbiamo chiuso i superstiti nella chiesa. le donne sono già morte anche se respirano ancora.
    per gli uomini basta un tagllierino affilato, tagliamo i tendini delle caviglie e li lasciamo li a rantolare
    lavo il mio corpo dal sangue le mie mani, così distanti, le mani di un assassino.
    dall’altare un gesù cristo indifferente ci guarda enon dice niente ma sappiamo che “dio è con noi hutu”
    lo sta dicendo radio mille colline.
    i ragazzini assassini così come sono venuti riscompaiono nella boscaglia lasciandoci soli col nostro senso di colpa. io e altri come me ci guardiamo odiandoci perchè vediamo negli altri noi stessi.
    mangio qualcosa e mi addormento di un sonno di piombo
    forse domani non sarà successo niente.
    invece la mattina sono risvegliato dalle raffiche in lontananza. e dalla voce suadente della radio che dice
    “le fosse non sono ancora piene”
    sono ancora un assassino

  16. mi piacerebbe che Tony Miami contestualizzase il brano che ha riportato. E’ tratto da un libro di testimonianze?

    Condivido perefettamente la risposta di Galbiati a Trespolo sulla questione Iran. E condivido quanto dice Tash. Non credo pero’ Trespolo che ci si intenda sui discorsi legittimanti. Essi non sono una mia necessità, sono una necessità dell’organizzazione capitalistica della società. Ma perché la nostra critica sia efficace, non possiamo per certi versi “non prenderli per buoni”. E prenderli per buoni non significa credere alle motivazioni umanitarie, ma significa discutere i principi di quei discorsi umanitari, e mostrare come essi siano contraddittori e insostenibili.

    Lorenzo: “Perché mai uno stato dovrebbe intervenire unilateralmente per fermare un genocidio tra etnie che si svolge dall’altra parte del mondo? Proviamo a chiedercelo seriamente. Io non vedo altro motivo se non quello di averne un tornaconto, politico ed economico. Sbaglio? Convincetemi del contrario…”
    Scusa, ma allora non hai letto il pezzo. Primo: né in Ruanda né in Cambogia il genocidio è stato “davvero” etnico. Ma sopratutto, sono intervenuti a fermarlo non l’ONU, non gli USA, non la NATO, ma degli eserciti di paesi confinanti o stanziati nei paesi confinanti. Sono intervenuti per quali motivi? Chissenefrega. Quando i soldati sovietici sono entrati nei lager nazisti, liberando gli internati, tu credi che fossero importanti le “pure intenzioni” dei sovietici? Fermarano i massacri. Punto. (A questo proposito, varebbe la pena di rileggersi “La tregua” di Levi.)

    Il vero problema mi sembra ancora quello che è stato sollevato all’inizio: come distinguere dei massacri, che ce ne sono ovunque e sempre laddove esistono guerre o regimi, da un genocidio in atto. E seconda cosa: come garantire che qualcuno abbia sufficienti interessi politici per fermare un genocidio? E qui si riapre il discorso sull’ONU. Ma non come portatore di pace nel mondo. Impossibile, per come funziona oggi il mondo. Ma capace di intervenire almeno e soltanto nei casi estremi. Cosa che non è mai riuscito a fare finora.

  17. Non so. Ti confesso che mi aspettavo una cosa un po’ diversa. Quando ti chiesi “perché il Ruanda?” non volevo certo dire che il Ruanda lo possiamo trascurare. La tua lunga petizione di principio iniziale mi sembra quindi un po’ superflua.
    Poi il tuo pezzo mi sembra molto buono, e la discussione è davvero notevole, in quanto lettore vi ringrazio tutti. Noto che parlate solo dell’ONU e non, fra i mezzi di controllo possibili, del TPI dell’Aja – che non funziona al meglio, certo, ma che pure esiste e che mi sembra voler rispondere, a suo modo, alle preoccupazioni espresse da Todorov.

    Un’osservazione laterale su un tema da te sfiorato e che come sai mi è molto caro, quello degli stereotipi. Credo che in Europa il mito del “buon selvaggio” (o del “selvaggio” tout court) non esista solo nei confronti dell’Africa, ma di chiunque – anche dell’Europa stessa, se è per quello. Ai tempi della guerra nell’ex-Iugoslavia ho sentito con le mie orecchie, e molte volte, frasi come “lasciamo che si ammazzino, tanto lo fanno da secoli, è più forte di loro, è la loro cultura”. La non-interpretazione dell’altro, la sua riduzione ad una figurina di cartone, la fanno tutti, è stata quasi fondante quando nascevano gli Stati-nazione (ti avevo raccontato dei miei anni in Giappone, dove il “negro” ero io). Ed è sempre esistita, dovunque. Uno dei tanti motivi per cui ritengo Tacito un autentico genio è che resto esterrefatto, ad ogni rilettura, di fronte ai mille modi con cui, parlando dei “barbari”, si sottrae alle trappole del “noi da una parte, loro dall’altra”.

    Come lo stereotipo sull’Africa selvaggia (che peraltro non penso sia presente nel nuovo “King Kong”, non nel modo che dici tu – ma questo è un punto davvero MOLTO MENO importante) non ha per obiettivo di capire ciò che accade, ma di lavare la coscienza alla parte più ottusa dell’opinione pubblica, così non credo che la sua semplice negazione (tale mi sembra la tua constatazione che in Ruanda esistono un apparato statale, la radio e la televisione) apporti granché. È quasi banale, credo, dire che i genocidî del 20° secolo sono figli dell’era della tecnica; ma il Ruanda, così ad occhio, mi sembra comunque un misto di “tecnica” e di “antitecnica” – e di molto altro. Come sempre, come tutti. Su questo punto, come sai, la mia posizione è radicale (e un po’ provocatoria): se davvero ti interessa, stàccati dal computer e vacci a vivere e a studiarlo per dieci anni.
    Dico questo rispetto all’analisi del genocidio ruandese (se vuoi evitare di rimasticare il già detto) e della sua “identità” in quanto genocidio (non più solo, quindi, un discorso di ricostruzione storica in senso stretto); la tua discussione sul tema più prettamente giuridico del “diritto d’ingerenza”, invece, non avrà bisogno d’altro che di sé stessa, credo, e sarebbe bello che tu la approfondissi.

  18. Andrea, certo che ho letto il tuo articolo – che mi spingerà anche ad approfondire il tema trattato – : la mia espressione: “perché mai uno stato dovrebbe intervenire unilateralmente per fermare un genocidio tra etnie che si svolge dall’altra parte del mondo?” era ovviamente una semplificazione di una delle questioni in gioco. Sottintendeva una premessa implicita: se non c’è uno stato che abbia tali interessi in gioco dall’essere spinto a intervenire in quel genocidio, chi può farlo se non una istituzione come l’ONU?
    Francamente, non credo tu possa liquidare la questione all’insegna di un “intervenga chi può e basta”, per dirla in soldoni.
    Tu scrivi: “sono intervenuti a fermarlo non l’ONU, non gli USA, non la NATO, ma degli eserciti di paesi confinanti o stanziati nei paesi confinanti. Sono intervenuti per quali motivi? Chissenefrega”
    Eh no, a me frega proprio questo, e per vari motivi: perchè non si sono mossi gli USA? Perché non l’ONU?
    Perchè il genocidio ruandese probabilmente era un problema troppo grosso da risolvere, che divideva la comunità internazionale, che sul piano costi-benefici era troppo oneroso ecc. (i motivi li saprai tu meglio di me).
    Quindi si sono mossi eserciti confinanti, immagino si sentissero parte in causa, potenzialmente o concretamente. E, vorrei sapere, quando si sono mossi, presto o tardi? E come si sono mossi? E quali conseguenze politiche ci sono state per il Rwanda e la Cambogia in seguito a questa “ingerenza”? Non credo che questi siano dettagli di cui fregarsene.
    Mi citi la Russia che invade la Germania nazista e libera gli ebrei. Ora, a parte il fatto che la Russia non era uno spettatore confinante, era parte in gioco in quanto aggredita dai nazisti, è chiaro che a Stalin di liberare gli ebrei non poteva fregare niente. Ma il punto non è questo, il mio discorso non è un “processo alle intenzioni” fine a se stesso. Non mi vorrai infatti dire che non ha avuto conseguenze lunghe e pesanti l’invasione dell’est Europa da parte della Russia e dell’ovest Europa da parte dell’America: ci siamo spaccati in due, come continente, agli ordini di due superpotenze straniere che hanno condizionato in modo più o meno eclatante le nostre istituzioni politiche, la nostra convivenza civile, e ci siamo trovati nel bel mezzo di un’altra guerra, benché fredda, per decenni. Non credo si possa dire: “fermarono i massacri. punto.”: il punto sta procedendo fino a oggi.
    (E il genocidio degli ebrei europei si collega direttamente con la nascita dello stato di Israele, con tutte le conseguenze per la pace in Medioriente.)
    E’ o era lo scotto da pagare per la liberazione? Forse sì, ma io non direi che tutto ciò che è avvenuto era necessario o inevitabile.
    In altre parole, le conseguenze di una guerra hanno sempre o quasi onde lunghe, anche delle guerre di resistenza più legittime e, a maggior ragione, anche delle liberazioni ottenute grazie all’intervento di eserciti stranieri
    Tornando al punto, bisogna chiedersi: perchè finora sono intervenuti a fermare i genocidi solo stati confinanti? Quali conseguenze hanno avuto queste ingerenze?
    E poi, e se gli eserciti di stati confinanti non si muovessero perché non all’altezza della situazione? A chi dovremmo affidare il compito di una ingerenza?

  19. Lorenzo: il discorso che fai mi può stare anche bene, forse ho sbagliato esempio, allora mettiamola in questi termini: è giusto intervenire e rovesciare regimi come quello Nord Coreano che ha massacrato per fame milioni dei suoi cittadini e continua a farlo? Togli il tema armi nucleari e fai finta che non esista.
    Seguendo il ragionamento di Todorov mi pare proprio di sì. Eliminiamo pure i paesi occidentali dalla decisione: chi la prende questa benedetta decisione? Oppure è giusto che il governo coreano, in casa sua ovviamente, faccia quello che gli pare e continui ad ammazzare per fame i suoi cittadini?
    E’ un genocidio? Forse no. Un massacro? Quasi sicuramente sì. Rientra fra i *discorsi legittimanti*? Non lo so.

    In parte hai risposto ai miei dubbi quando scrivi: “Perché mai uno stato dovrebbe intervenire unilateralmente per fermare un genocidio tra etnie che si svolge dall’altra parte del mondo? Proviamo a chiedercelo seriamente. Io non vedo altro motivo se non quello di averne un tornaconto, politico ed economico. Sbaglio? Convincetemi del contrario…
    Ma se non sbaglio, bisogna tornare al punto di partenza: costruire una nuova ONU, su altre basi, con un vero esercito multinazionale e, se si trovano coraggiosi disposti a farlo, con un corpo di pace che agisca (ma questo non è il caso del genocidio già in atto) in alcune circostanze promuovendo la difesa popolare nonviolenta.”

    E allora che si fa? Si piange per i morti di fame in Darfur e in Corea del Nord quando passa qualche documentario sbiadito e poi si torna a urlare contro lo sporco occidente colonializzatore e capitalista?

    Restringo il cerchio e lo porto a eventi quotidiani: metropolitana di Milano e tipo strano che, nonostante il vagone pieno, cerca di fregarsi la borsetta di una Signora anziana. Che fare? Aspettare che compia il misfatto e denunciarlo poi alla Polizia descrivendolo minuziosamente dopo aver assistito l’anziana Signora che, caduta per terra per lo strattone si è rotta il femore e ha una botta in testa?
    Sarò anche un *paesano* vecchio stampo da 85kg e di maniere brusche, ma, dopo averlo invitato verbalmente a lasciare in pace la Signora e aver ricevuto come risposta un vaff… grande come una casa l’ho *accarezzato* col sinistro (sono mancino) e accompagnato, all’apertura della porta, fuori dal vagone a calcioni nel didietro.
    Sono un guerrafondaio? Non credo; mica vado in giro a fare a cazzotti e se proprio lo devo fare mi infilo in una vecchia palestra di paese per niente alla moda. Ho seguito i dettami di Todorov? E che ne so, mai uscito a cena col tizio.

    Cosa ci ho guadagnato? Nulla mi pare, se non il rischio di pigliarmi magari una coltellata. Lo so, sicuramente non è stato un intervento *urbano* e *politically correct* (in alternativa avrei potuto sicuramente organizzare al momento un discorso sui danni fisici e psicologici che lo hanno portato a un tale agire e tentare di riportarlo sulla retta via), ma la Signora mi pareva contenta.
    Dici che la semplificazione non regge? Beh, allora continuiamo a lasciare che la gente muoia di fame in Darfur e in Corea del Nord per evitare che… qualcuno ne abbia un tornaconto.

    Ah, dalle mie parti dicono che (italianizzo anche se in dialetto verrebbe molto meglio) “son tutti froci col culo degli altri”; a volte però, bisogna anche decidersi e mettere in mostra il nostro di culo. Non credi? :-)

    Buona serata. Trespolo.

  20. mi sono inventato tutto di sana pianta.
    se violete qualche testimonianza vi consiglio un libro carino che si chiama
    “luna park ruanda”
    che vendevano qualche hanno fa i vu cumpra’
    che a suo modo evidenziava il problema che mi sembra alla base del genocidio ruandese.
    Raccontava, infatti, come dopo i sanguinosi fatti del 94 ai sopravvissuti si fosse presentato il problema della conciliazione nazionale.
    Gli autori dei massacri non erano stati solo gli appartenenti alle truppe interhahavwe ma anche cittadini qualunque trascinati a loro modo nel delirio di quel mese di inferno, e non solo di fronte a criminali di guerra come ad esempio in bosnia.
    Ci si trovava quindi ad avere almeno un assassino in ogni famiglia.
    Era un po la cosa che volevo descrivere nel mio racconto inventato.

    Comunque, se permettete una critica da parte di un povero un operatore call center con velleità letterarie, mi sembra che un esterno che voglia seguire le vostre discussioni rischi di perdersi nel mare di parole e richiami impliciti
    Per quanto tutti dicano che internet e i blog siano un mezzo democratico in cui tutti si possono esprimere mi sembra tanto siano solo l’ennesimo luogo chiuso in cui si confrontano sempre le stesse persone dieci che gia’ si conoscono tra loro.
    distinti saluti
    antonio w. miami

  21. Vorrei segnalare alcuni libri tradotti in italiano.
    Due opere narrative:
    Tierno Monenembo, Il grande orfano (Feltrinelli) e A. Waberi, Mietitura di teste. Pagine per il Ruanda (Edizioni del Lavoro);
    e il libro di testimonianze di una sopravvissuta al genocidio:
    Yolande Mukagasana, La morte non mi ha voluta (La Meridiana).

  22. andrea r. : “Su questo punto, come sai, la mia posizione è radicale (e un po’ provocatoria): se davvero ti interessa, stàccati dal computer e vacci a vivere e a studiarlo per dieci anni.” Non capisco bene quale sia il punto che sollevi. Ma sulle conclusioni che tiri, ti rispondo: non stiamo parlando di turismo o cultura. “Se davvero vuoi capire la cultura degli indios dell’amazzonia, vai sul campo…” Ho spiegato perché certi eventi dovrebbero riguardarci, ma non in termini di scelta “personale”. Il Ruanda 1994 riguarda anche te. Se credi di saperne abbastanza sull’ultimo genocidio del XX secolo, bene. Ma stiamo parlando di conoscenze relative a questo evento ACCESSIBILI A TUTTI, anche rimanendo a casa propria (tramite libri, documentari, ecc.). Altrimenti, ogni volta che cerchiamo di comprendere un evento storico, qualcuno potrebbe risponderci, usando il tuo argomento scettico: “Che senso ha parlare dello sterminio delle popolazioni originarie del Nordamerica, visto che non è possibile per noi esserne testimoni?”

    Sul Tribunale Penale Internazionale. Si tratta di due questioni connesse, ma da distinguere in questo discorso. L’ingerenza umanitaria è un principio su cui si basa un’intervento militare, non un’inchiesta processuale.

    Lorenzo :”Quindi si sono mossi eserciti confinanti, immagino si sentissero parte in causa, potenzialmente o concretamente. E, vorrei sapere, quando si sono mossi, presto o tardi? E come si sono mossi? E quali conseguenze politiche ci sono state per il Rwanda e la Cambogia in seguito a questa “ingerenza”? Non credo che questi siano dettagli di cui fregarsene.”

    È giustissimo quanto dici. E di certo nel caso del Rwanda le conseguenze dell’invasione del Fronte Patriottico Rwandese che ha fermato il genocidio sono molto pesanti ancora oggi. Tutto cio’ va quindi analizzato ed è stato in parte analizzato. Ma il discorso più urgente per me è un altro. Prima di pensare ad una forza ONU ideale, ossia efficace e giusta, bisognerebbe innazitutto screditare il modo inefficace e ingiusto in cui l’ONU funziona o funzionano i suoi “sostituti”, mandatari, ossia la NATO o gli USA o la Francia. Dobbiamo insomma smontare criticamente il concetto “d’ingerenza umanitaria”. Questo concetto è stato imposto come ovvio per giustificare l’intervento NATO nella ex-jugoslavia e quello USA in Irak.

    Trespolo, ad esempio, mi sembra che ragioni ancora in questi termini. “Oppure è giusto che il governo coreano, in casa sua ovviamente, faccia quello che gli pare e continui ad ammazzare per fame i suoi cittadini?”
    Non è giusto. Ma non è nemmeno giusto, che noi si decida di rovesciare quel regime con una guerra.
    ”E’ un genocidio? Forse no. Un massacro? Quasi sicuramente sì.” Per Todorov il genocidio è il caso limite, l’unico in cui ha senso applicare il principio dell’ingerenza umanitaria. Quindi è importante determinarlo. Di massacri invece nel mondo ne esistono tanti. Se scatenassimo una guerra per ogni regime massacratore, si moltiplicherebbero esponenzialmente. Il vero punto che ci è difficile accettare è che NOI (i nostri governi occidentali, le istituzioni internazionali controllate dai governo occientali) NON POSSIAMO ESSERE PORTATORI DI BENE. L’unica cosa che possiamo quasi sempre cercare di fare, è evitare di AGGRAVARE IL MALE. Semplifico molto, ma solo cosi forse si puo’ capire cosa davvero c’è in gioco dietro tali questioni.

    Fnisco sull’esempio di Trespolo. Esso cerca di mettere sullo stesso piano situazioni non commensurabili. Tu parli di un intervento di un cittadino su di un altro cittadino, alla luce di una stessa legge. L’ingerenza u. parla di intervento di uno stato sovrano su di un altro stato sovrano alla luce di un (presunto) universale diritto, in quanto nel mondo – meno male – non esiste ancora un’UNICA LEGGE totalitaria per tutti.

    Purtroppo i vostri interventi meriterebbero davvero non risposte cosi sommarie e di scorcio (che sono comunque già oltre i limiti del commento “leggibile”), ma riflessioni prolungate. E per me, in ogni caso, questo dialogo è stato utile.

    A antonio miami: l’unico che conosco da più (ahimé) di dieci anni è raos.

  23. a Inglese.
    Nessuno scetticismo nel mio argomento (che poi argomento non era, ma semplice osservazione a lato). Per prendere alcuni parametri di base del genocidio ruandese e paragonarli a quelli dei precedenti, e per discutere su queste basi sul diritto d’ingerenza, suppongo in effetti che bastino libri e documentari. È la riflessione che tu compi, che ci riguarda tutti eccetera. Tutto come dici tu.
    Ma per riflettere sulle specificità, sull’identità del genocidio ruandese (cioè davvero sul modo in cui si incastra in questa nostra modernità), questo non basta, è necessaria un’indagine molto più diretta (che a sua volta avrà bisogno del contraltare più teorico di pezzi come il tuo). E non sto dicendo che dovresti farla tu, e se no tacere, ma che quando ti avventuri – in meno di una frase, parlo davvero di un dettaglio – nella “modernità” del detto genocidio, questa semplice affermazione non mi basta, perché può significare diecimila cose diverse. Guarda che sto dicendo una cosa di una banalità pazzesca (se poi il tuo obiettivo era solo ricordarci che non si tratta di una banda di selvaggi con l’osso nel naso e la sveglia al collo, be’, sono d’accordo, certo – ma spero non siano molti i lettori di NI che hanno bisogno di questo genere di precisazioni).

    Per lo stesso motivo, si può e si deve parlare dello sterminio degli indiani d’America – come dello sterminio da questi commesso nei confronti dei “veri” nativi… la sapevi questa storia? io l’ho letto solo di recente -, anche se noi non c’eravamo. Volevo solo ricordare una regola elementare della riflessione storica (o condotta a partire da basi storiche), ossia la distinzione accurata tra fonti primarie e secondarie.

    E altro che dieci anni, guarda che sono quasi venti ormai, e l’ahimé lo cantiamo in coro ad ogni alba.

  24. Dimenticavo: ho citato il TPI perché si tratta certo di un’azione legale a posteriori, ma che mi sembra potrebbe avere un’efficacia preventiva se funzionasse davvero (cosa che, se non erro, attualmente non è, grazie come al solito agli Stati Uniti): a fronte di un tribunale efficiente e temibile, il dittatore X potrebbe pensarci su due volte prima di sterminare a destra e a manca. Il che permetterebbe anche di reimpostare la questione dell’intervento militare, preventivo o no, umanitario o disumano che sia.

    Ma sono d’accordo con te: nessuna delle due questioni esclude l’altra.

  25. andrea r.: “per riflettere sulle specificità, sull’identità del genocidio ruandese (cioè davvero sul modo in cui si incastra in questa nostra modernità), questo non basta, è necessaria un’indagine molto più diretta”

    Sono d’accordo, anche perché nonosante ogni sforzo di analisi, la comprensione di un genocidio ha sempre qualcosa della razionalizzazione, dell’ esorcismo. Insomma, non so se esista già un lavoro come quello che Levi ha compiuto nei “Sommersi e i salvati”, relativo al Rwanda. Ne dubito. Diciamo che il mio contributo non sollecita una comprensione della specificità del genocidio rwandese (obbiettivo troppo ambizioso), ma almeno la comprensione di quanto è accaduto in rwanda come di un genocidio.

    E quindi mi pongo questa semplice domanda. Siamo da anni a contatto con un lavoro di memoria relativo alla Shoa. Un lavoro che ha toccato tutti, raggiunto tutti. E questo sembra in parte un successo, in termini di consapevolezza storica. Ma poi, di nuovo, un genocidio. Evitabile. Con una comunità internazionale codarda. Indifferente. Con un Francia che ha fornito addestramento militare, soldi, armi al regime responsabile del genocidio. Schizofrenia assoluta. Si parla di Shoa, con la massima attenzione possibile. E si dimentica l’ultimo genocidio del XX secolo. O lo si archivia. C’è qualcosa che non va, mi dico. Qualcosa che allora rende sospetta anche questa “apparente” consapevolezza relativa alla Shoa.

    E poi il discorso dei diritti umani. Un discorso che è diventato infido e pericoloso come un serpente. Un discorso che è divenuto il cavallo di troia del peggiore imperialismo. Un discorso che come dice in modo chiaroveggente Todorov (che per altro è un moderato) porta in sé una dimensione totalitaria. Detto questo, al discorso dei diritti umani non si puo’ semplicemente rinunciare, relegandolo nell’armamentario della pura propaganda imperialista.

    Infine, quanto dici sul Tribunale Penale Internazionale. Un discorso certo importante, ma tutto da fare. E da fare criticamente. Esso pero’ verte sulla punibilità di persone, e non sulla possibilità di rovesciare regimi. Per questo, a me sembrerebbe qualcosa di positivo. Ma, nei fatti, funzionerà esso solo come tribunale dei vincitori? ecc. ecc.

    Sugli stereotipi degli africani. Secondo me circolano in modo molto diffuso, ma in forma aggiornata. Non sveglie al collo e osso nel naso. Ma: non sono capaci di governarsi, non sono capaci di organizzarsi, non sono capaci di lavorare. In un articolo precedente, scritto con Magali, ho citato “Négrologie”, un sofisticato libro di aggiornati stereotipi razzisti. L’autore è un giornalista di Libé, ora a Le Monde. Libro premiato molto e osannato altrettanto.

  26. io ci provo a seguire le vostre discussioni ma più leggo più aspetto con ansia dalla mia postazione di buon operatore call center che l’esercito dei poveri arrivi a fare pulizia
    Vedrete che quando ci passeranno tutti a fil di kalasnikov poco interesserà se eravamo di destra o di sinistra, se ci eravamo interessati o no ai limiti dell’intervento umanitario, soprattutto se avevamo letto Todorov.
    Saremo solo dei grassi polli da scannare rei ai loro occhi di averli affamati per decenni, e hai voglia a spiegare che eri di sinistra con tutte queste belle parole che gettate al vento…
    io ci provo a capire gli intellettuali
    volevo esserlo io stesso
    ci provo a fare l’intellettuale
    ma non ce la faccio
    mi vien voglia di tirarmi una pippa…
    vi chiedo scusa continuate pure indisturbati i vostri noiosi bizantinismi

  27. Caro Andrea,
    il tuo intervento è toccante e denota un’analisi profonda, di problematiche annose che sembrano ripetersi nelle epoche e nei vari luoghi del mondo; sempre aborriti, sempre condannati, ma poi, immancabilmente, si ripresentano.
    Non ci si può dichiarare comunisti senza conoscere i Gulag (hai ragione) e non ci si può dire nazi-fascisti senza conoscere i campi di concentramento dell’est (anche qui avresti avuto ragione).
    Purtroppo accade che i giovani ( e non ) si schierino, senza avere coscienza né di sé, né tantomeno della propria storia. Di qua o di là, senza sapere il perchè.
    E poi ci stupiamo se un paese civile, come il nostro si professa, si trova ad interrogarsi sulle Brigate Rosse, sui fatti di Genova, o sulla strage di Piazza Fontana.
    E questi sono solo gli episodi eclatanti! Quanti orrori si celano sotto la faccia pulita dell’Italia perbene?
    Ecco come si arriva ai genocidi, mettendosi il cervello in tasca e partendo spediti verso falsi miti di cui non conosciamo i percorsi. Non ti nascondo che aleggia il terrore che questi fatti possano ripresentarsi dovunque, il qualsiasi tempo.
    Mi piacerebbe che si approfondissero queste tematiche, magari con uno sguardo dall’alto della storia mondiale degli orrori. Chissà che una memoria storica più cosciente possa portare ad un qualche risultato sensibile!
    Se puoi contattami, te ne sarei grata.
    Francesca

  28. Dimenticavo…
    A tonymiami vorrei dire che gli interventi che tu definisci “intellettuali” servono nella misura in cui riescono ad aprire la mente di chi non vuole vedere. E credimi che di “polli grassi da spennare” seduti comodamente nelle poltrone delle proprie case calde, a far finta di nulla, ce ne sono fin troppi.
    E’ purtroppo vero che non si può pensare ad un mondo migliore (certo è utopia) senza passare da un vivo punzecchiamento delle finte coscienze delle persone.
    Vedere con i propri occhi…
    Riflettici…
    Francesca B.

Comments are closed.

articoli correlati

“STAFFETTA PARTIGIANA” concorso letterario

Nazione Indiana promuove un concorso per racconti e scritture brevi inedite sulla Resistenza e la Liberazione.

Il ginkgo di Tienanmen

di Romano A. Fiocchi Da sedici anni ((test nota)) me ne sto buono buono sul davanzale di una finestra in...

Partigiani d’Italia

E' online e consultabile dal 15 dicembre 2020 lo schedario delle commissioni per il riconoscimento degli uomini e delle...

Intellettuali in fuga dal fascismo

Patrizia Guarnieri, storica, ha ricostruito la vicenda dell'emigrazione forzata a causa del fascismo di intellettuali e scienziati, soprattutto ebrei:...

Mots-clés__

di Ornella Tajani Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore...

Mots-clés__S.P.Q.R.

S.P.Q.R. di Luigi Di Cicco This Heat, S.P.Q.R. -> play ___ ___ James Joyce - Lettera al fratello Stanislaus (25 settembre 1906. Da Lettere, a cura di...
andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.