Natalità, ovvero innaturalità
di Elio Paoloni
Sull’ultimo numero di Nuovi Argomenti Guido Mazzoni racconta un episodio che non esiterei a definire banale: a metà di una cena i padroni di casa poggiano sulla tavola la culla del loro neonato. Ma nel cerchio degli amici, “fra i trenta e i quarant’anni, tutti molto fragili”, questa esibizione apre un campo psicologico “pieno di sottintesi e di tensione”. Si fissa in volto il piccolo “senza paura o pudore, come si fa con gli animali: il suo sguardo non oppone alcuna resistenza al nostro”. Nel breve pezzo ci sono considerazioni interessanti sullo stato “di fusione profonda e di profonda ambivalenza” dei genitori, “che hanno sacrificato molto, che esigono una sorta di compensazione, che hanno paura”. Oggi del resto l’avvenimento è così raro, così ritardato, così pianificato, che i procreatori si sentono eroi prometeici, esploratori monomaniaci tornati raggianti e spaventati dai confini dell’universo con appresso un alieno. L’entusiasmo inevitabilmente eccessivo di una madre assume tinte più cariche, connotazioni forzate.
Mazzoni dà prova di finezza psicologica nel delineare il conflitto interno dei genitori e il loro scaricarlo all’esterno perché si risolva con il riconoscimento del bambino da parte degli altri. Però la terminologia usata è inquietante, più appropriata allo spostamento merci di un magazzino o a manipolazioni ospedaliere: “I genitori lo hanno estratto dalla camera dove giaceva sedato per ostentarlo”. La madre “capisce di avere imposto agli altri un mondo solo suo”. E siamo al noir con “ormai è troppo tardi per tornare indietro”. L’ospite “sa” che dovrebbe adattarsi e invece fa “come se lei non avesse parlato, spezzando di nuovo una conversazione già spezzata e ignorando il bambino”. Certi vocaboli sono da inviato al fronte: “atomi di aggressività”, “avversari”, “cerca di distruggerci”.
Può darsi che le scelte lessicali siano volutamente spiazzanti, che siano funzionali alla descrizione della nevrosi dei genitori, ma cambia poco: il brano trasmette gelo. Una estraneità conclamata, forse coltivata. Il tono generale del pezzo è risentito: Mazzoni si sente tanto offeso dall’esibizione da opporre egli stesso atteggiamenti infantili. Le emozioni – sia pure amplificate, esasperate, com’è giusto per uno scrittore – sembrano realistiche. Ma non è tanto l’atteggiamento del diarista a sgomentare: se anche le sue reazioni alla presenza dell’alieno fossero state meno forti, a colpire basterebbe la necessità avvertita dall’autore di soffermarsi a ponzare su qualcosa che fino a poco tempo fa (o forse in altri ambienti?) sarebbe stata considerata banale, non degna di nota. Non posso non chiedermi come sia possibile che una circostanza così naturale – no, il termine non è bene accolto di recente, diciamo consueta – abbia potuto provocare una reazione così forte, rigida, quasi ideologica.
L’andamento diaristico e il tono di interrogazione privata indurrebbero a non accreditare universalità al resoconto. Tuttavia nel pezzo si usa il plurale, si dà per scontato che l’intera cerchia di amici non prolifici si senta urtata: tutto lascia pensare che pochi di loro troveranno il coraggio – o la beata incoscienza – necessari a imitare i padroni di casa. E ho motivo di credere che le tensioni descritte siano condivise da molti. Nulla rende la misura della nostra abdicazione meglio di questo brevissimo brano meditabondo pubblicato sulla più importante rivista letteraria italiana proprio “sotto Natale”, non le statistiche, non le inchieste, non le discussioni infinite su embrioni e 194. Quella pagina disegna perfettamente l’esito di un processo di pochi decenni, un’inversione vertiginosa per la nostra civiltà: l’apparizione di un neonato, la sua presentazione al tempio (del consumo: la tavola imbandita), scatena interrogativi sulla opportunità – sulla mostruosità – del generare. Com’è divenuto innaturale procreare e com’è indelicato mostrarne gli esiti!
L’accettazione dell’altro è ormai una giaculatoria. Ma come possiamo intimare agli altri di accogliere astratte moltitudini quando troviamo così difficoltoso accogliere il marmocchio di un’amica, quando ci si sente profondamente offesi dall’eccitazione di una madre? Si potrà dire che l’irruzione di un nascituro ha sempre provocato sconcerto (con conseguente corollario di riti) ma anni fa una sana reazione, specie maschile, sarebbe stata: cchè ddu palle co ‘sta cratura. Punto. La gelida estraneità non sarebbe stata concepibile, troppo familiare sarebbe apparsa la circostanza.
Amiamo tanto la vita, pare, ma abbiamo perso contatto con la vita vera. Non si tratta di personaggi di Houellebecq, siamo noi. Ci stiamo suicidando. Senza però la consapevolezza dei protagonisti di Houellebecq: sotto l’apprezzabile appellativo di “mescolanza” l’estinzione assume contorni rosei. Invece di limitarsi al compito di tata, le immigrate si prenderanno pure il disturbo di generare per noi, tutto qui. In effetti il risultato numerico non cambia, anche se di questo passo la mescolanza sarà di tipo omeopatico: rintracciare i nostri geni da mozzarelloni nella popolazione del pianeta sarà un atto di fede, come quello di rintracciare il farmaco dopo le infinite diluizioni prescritte dalla dottrina. E non ce ne può importare di meno: chi può tenere alla conservazione della razza meno affascinante del pianeta? I bebè con gli occhi a mandorla sono infinitamente più accattivanti.
Il punto è che chi non vuol trasmettere i propri geni non ha gran voglia di tramandare la propria civiltà. Di ri-crearla. Moravia sosteneva che gli artisti non sentono la necessità di procreare: a tramandare il loro nome saranno le opere. E non stupisce che gli intellettuali ritengano più consono al loro status partorire idee invece di pargoli. Però – a parte il dato nuovo che anche quelli che non partoriscono idee sembrano poco interessati a partorire alcunché – le idee non hanno alcuna forza nel vuoto. Le idee vanno “incarnate”. Marx e Freud figliavano (8 a 6).
“E’ stato un tempo il mondo / giovane e forte / odorante di sangue fertile / famiglie, donne incinte, sfregamenti / e cavità di donna che / crea il mondo, veglia sul tempo, lo protegge” cantava Giovanni Lindo Ferretti in quella che resterà la colonna sonora dell’inaridimento dell’occidente. Ma è datato anche il compianto per le sorti di una singola civiltà (Sartori mi correggerebbe: la civiltà è una, a essere plurime sono le culture), siamo ormai alla fase ulteriore: fino al penultimo libro Houellebecq si era occupato del deperimento vitale dell’uomo occidentale cioè dello spegnersi delle passioni, dell’amore, dell’autostima, insomma dell’afflato vitale, in una piccolissima parte dell’umanità. Ne La possibilità di un’isola, cogliendo i segnali di denatalità (per ora soprattutto femminile) che giungono dall’India e dalla Cina, lo specialista dell’aridità emotiva fa scomparire l’umanità intera, delegando ai cloni un’effimera continuazione.
(Pubblicato sul numero 2 di Stilos. Foto: fonte Wikipedia)
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potrebbe essere una soluzione la genitorialità sociale in luogo della genitorialità biologica?
funzionerebbe? uhm…..la genitorialità effettiva segna un varco esperienziale notevole, o meglio, dovrebbe essere l’occasione per tornare a se’ e in se’.
bella scelta quest’articolo. ho apprezzato, al solito, lo stile di elio e il contenuto.
Non so cosa intendi, Mag, con genitorialità sociale ma Vonnegut era fissato, negli ultimi tempi, con la famiglia allargata. Secondo lui, vedi Cronosisma, questa versione postmoderna della famiglia patriarcale potrebbe essere un toccasana per tutti i guai. Pensava soprattutto a una sorta di controllo nei confronti del singolo, smarrito, sprovveduto genitore.
la genitorialità sociale è un atto che implica la presa di responsabilità di tutta l’umanità in embrione, e della relativa implicazione pedagogica.
Una responsabilità individuale ma politica, ossia , l’impegno verso l’educazione e la formazione dlela nuova umanità.
Questo puo’ passare nelle singole capacità individuali messe a servizio per lo scopo, quindi lo scrivere, il dipingere, il produrre, lo sponsorizzare, il sensibilizzare, il curare…a seconda se sei letterato, pittore, mecenate, spirituale, medico……tutti possiamo farlo, questo per non nevrotizzare troppo certe genitorialità biologiche troppo attese, troppo negate, troppo sofferte, troppo INNATURALI.
in questa rottura con lo stato di natura, lo stato di cultura puo’ supplire con la diffusione su larga scala di un dato eminentemente individuale…
prendersi Cura dell’infanzia della nostra contemporaneità.
ma tu dici un altra cosa su cui concordo pienamente, la famiglia allargata.
“la necessità avvertita dall’autore di soffermarsi a ponzare su qualcosa che fino a poco tempo fa (o forse in altri ambienti?) sarebbe stata considerata banale, non degna di nota.”
caro elio che io sappia nessun evento, passato al vaglio delle scrittura, puo’ illudersi di rimanere banale o familiare o naturale, se lo scrittore stesso decide di sottrarlo alle nostre forme ordinarie di comprensione e percezione; quindi, da un punto di vista letterario Mazzoni non fa che il suo dovere; ma mi sembra che la tua valutazione non voglia essere letteraria, ma sociologica. Ma a questo punto io abbandonerei le speculazioni su quanto il pezzo rifletta la psicologia di un individuo (l’autore) o l’atteggiamento di un gruppo (gli intellettuali). E raccoglierei un po’ più di fenomeni per lanciarmi in una riflessione sul destino della popolazione italiana o europea o addirittura bianca. Insomma, mi sembra che fai portare sulle spalle del povero Mazzoni e della “più importante rivista italiana” come tu la definisci un peso eccessivo.
Poi dici, con aria un po’ scandalizzata:
“Com’è divenuto innaturale procreare e com’è indelicato mostrarne gli esiti!”
E in questo modo, lasciando emergere un giudizio, liquidi in fretta tutta la faccenda. Con un po’ di sarcasmo finale. Invece da qui bisognerebbe incominciare a interrogarsi. Se davvero si vuole toccare il tema della “innaturalità” del procreare. Che sia solo un nuovo atteggiamento snobistico che dagli aridi “intelletttuali” per oscuri motivi si è trasmesso alle persone “qualunque? Non credo.
Ma c’è una bella frase che scrivi: “Il punto è che chi non vuol trasmettere i propri geni non ha gran voglia di tramandare la propria civiltà. Di ri-crearla.” Sembra un po’ riduttivo. E pero’ io lo trovo un fondato e degnissimo motivo per perpetrare la sterilità. Anche se non credo proprio che sarà la mia scelta. Il bilancio delle nostre culture “liberali”, “tecnologicamente avanzate” e “democratiche” mi sembra complessivamente deludente. Chi, per fortuna, non è ancora uguale a noi, puo’ magari tracciare un più divergente percorso, e forse addirittura migliore. Ma anche i nostri figli avranno una possibilità felice di non assomigliarci.
la biologia fortunatamente segna un legame forte con la nostra natura e l’occasione di appordare “opportunamente” nel porto della continuitòà di specie.
E’ anche vero che l’intellettuale supplisce a questa funzione sublimandola nella “creazione” dell’opera d’arte, ingravidandosi d’idee biologicamente sterili ma socialmente molto feconde.
Anche questa puo’ essere intesa quindi come genitorialità sociale, responsabiltà del futuro.
L’atteggiamento descritto di repulsione e imbarazzo ne attesterebbe la validità, quasi a considerare ancestrale, brutale, rozzo, il procreare biologico, tant’è che anche l’entusiasmo materno è vissuto con estraneità e sufficenza.
Ma….esiste un ma….in realtà la genitorialità effettiva è punto d’incontro di tutto questo, è elemento di mediazione di conflitti interiori esistenziali, come il senso del tempo che vede in questo, continuità tra passato e futuro, epicità in quanto estensione di cio’ che è caduco, verso l’immortalità, è atto mitico eterno immenso.
Un atto di fiducia nei confronti della vita, un senso di sacro che anche l’ateo puo’ compiere, anche l’intellettuale….e sappiamo che compiono anche i preti……-)
E’ tanto importante a livello individuale che spesso la consapevolezza di non poter svolgere tale funzione per cause involontarie, produce frustrazioni fortissime.-….per questo la genitorialità sociale e l’arte possono ovviare a questo momentaneo disagio….
Del resto le infertilità sono in fortissimo aumento e paradossalmente lo è anche l’infanzia abbandonata effettivamente e idelamente.
po vi mando un thread sull’affido congiunto….
Si, davvero un gran bel pezzo questo.
Sulla famiglia allargata ho dei forti dubbi. Non so cosa intende Vonnegut ma quella che sto vivendo io ora (la classica famiglia allargata meridionale) ha pregi e difetti.
Il problema del fare figli è banalissimo.
Tra domenica e lunedi mi nasce il secondo figlio, dopo ilaria che è la prima (tre anni). Mi hanno diagnosticato un broncopolmonite, però a letto non mi ci posso mettere, perchè c’è lavoro e IL lavoro da fare. Quando anche la salute diventa un lusso tu figli non ne fai, perchè sei al limite. Tutto qui.
Ciao
@Mag:Scusa, ma tu figli ne hai?
piccola dedica scritta durante la gravidanza di mia figlia, che non sapevo ancora fosse femmina .-)
Venerdi 10 ottobre 1997
“Caro piccolo mio, quante cose ho da dirti ,in una giornata così significativa e densa di avvenimenti.
Vorrei renderti partecipe di ciò che accade qui nella tua abitazione, che domani sarà allargata nella più grande casa che è la societa’.
Avrò tanto tempo per spiegarti e farti capire, aiutandoti a difenderti, ma ciò a cui tengo di più è darti la capacità di essere libero di cogliere dalla vita ciò che più vale.
Ieri è caduto il governo per il coraggio di un uomo con grandi ideali e lo stesso coraggio sovversivo è stato premiato dal nobel dato a un’emerito giullare anarchico.
E’ la stessa vittoria, lo stesso segnale di integrità e grande dignità che si scontra con l’intrigo,il compromesso.
Vorrei per te un’esistenza priva di tutto ciò e prego con grande forza di riuscire ad insegnarti la comprensione e la percezione della realtà.
Quanti pensieri ad ogni tuo segno, quante speranze ad ogni tuo movimento, ed è in questo stato di grazia che tesso per te la tela della vita fatta di sangue e di carne, calore e amore, attesa e timore.
Vorrei essere per te tutto ciò che di meglio potrai avere, vorrei donarti bellezza, saggezza, luce ed esempio.
Perché tu non ti senta mai solo, quando il dolore della vita ti farà sentire lontano, io sarò vicino a te , se mi vorrai.
Con amore, la mamma”
forse il pezzo di paoloni è squilibrato.
rende scarso conto del pezzo di mazzoni, per dare spazio al suo sorprendente: dove andremo a finire se manco più alle creature vogliamo bbene: ci siamo inariditi tutti quanti.
così strutturato mi viene da parteggiare per mazzoni, che non ho letto: che due palle con l’esibizionismo delle figliolanze.
c’hai un figlio? gli vuoi bene? e allora?
poi su quel mondo “giovane e forte / odorante di sangue fertile” davvero è meglio sorvolare.
Converrai, caro Andrea, che non sono mai casuali i momenti in cui “lo scrittore decide di sottrarre un evento alle nostre forme ordinarie di comprensione e percezione”.
E’ vero che il pezzo scivola nella sociologia ma non credo che sia necessario “raccogliere più dati” per riflettere sul destino della popolazione occidentale: siamo sommersi da dati negativi.
Quella mia frase “scandalizzata” più che lasciare emergere un giudizio riporta la reazione emotiva alla lettura del pezzo. Ma è anche, a guardarsi intorno, una considerazione oggettiva. Poco fa ho ricevuto una e-mail in proposito:
“E’ un tema che a me (quasi 28enne) tocca molto e se mi guardo intorno vedo tante persone con cui l’argomento e’ quasi bandito, come fonte di tensioni e
imbarazzi”.
Dici: “Che sia solo un nuovo atteggiamento snobistico che dagli aridi “intellettuali” per oscuri motivi si è trasmesso alle persone “qualunque? Non credo”.
No, non lo credo neanch’io. Non solo perché l’intellettuale oggi ha pochissima presa sulle persone. Anche perché, in generale, l’intellettuale fotografa o anticipa, non determina.
L’ultima parte del tuo commento avvalora ciò che ho scritto e trasuda quell’odio di sé dell’Occidente che additava il Ratzinger non ancora papa nel discorso al Senato sull’Europa. Un odio che continua a contrariarmi, a rattristarmi, a indignarmi. Dico odio di sé, non – come forse vorresti – avversione per questa o quella imperfezione del nostro mondo. Sono tali e tante le imperfezioni del nostro mondo che tu lo seppelliresti per intero, cominciando da te stesso. A volte non riesco a comprendere se certi atteggiamenti denunciano davvero un nichilismo programmatico, irriducibile, o nascono dalla pura spacconeria. Non vedere acrimonia nelle mie parole: sono amareggiato perché sembra non ci sia nessuna possibilità di conciliazione tra le nostre visioni del mondo.
non vedo nessuno acrimonia elio, e per altro il tuo pezzo non mi sembra per niente banale, per la domanda centrale che solleva. Poi tu hai un modo di dire in modo chiaro certe cose che profondamente NON condivido. Laddove molta gente dice in modo confuso cose che profondamente condivido. E questa confusione è spesso più inquietante che il confronto con la parte “avversa”.
Il tema che tiri fuori: l’odio di sé. Li c’è tutto. Il piccolo abisso. Di nichilismo ne respiro a tonnellate, ma non nichilismo di concetto, ma vuoto di senso nelle vite che faccio/facciamo, per non parlare dell’annichilimento vero e proprio (degli affetti, dei legami sociali e dei ruoli sociali). Gente che perde il lavoro, gente che non lo trova, gente che fa un lavoro di merda, gente che consuma merda (che si chiami droga o medicine o alta tecnologia o intrattenimento o altro). E cerco di tirarmene fuori finché posso.
Quello che il papa chiama odio si sé, e molti neocons con lui, è per me critica di sé. Che è strettamente legata con la speranza di un altro da me stesso. Cosi come spero di cambiarmi in continuazione (e molto attraverso gli incontri), spero che la mia società riesca a cambiarsi, a correggerre gli errori, e dove non ci riesca, confido e spero che ci sarà un’altra società, con occhi a mandorla, facce nere, o di qualsivoglia foggia e colore, in grado di farlo. Non vedo nessuna netta discontinuità tra la mia cultura e le altre. Per cui non ho mai paura di perdermi.
In me c’è quindi molta speranza, al contrario di quanto ti è apparso. E forse in questa abbondante speranza c’è davvero della spacconeria.
“le imperfezioni del nostro mondo”, è una bella formulazione, oh paoloni.
la propongo per il Premio eufemismo 2006.
l’odio di sé è l’unico modo decente di vivere l’Occidente.
ma anche la “critica di sé” può andare, in mancanza di meglio.
in genere nel bimbo di oggi vedo lo stronzo di domani e mi domando costantemente su quale sia il momento e quale il motivo di questa quasi inevitabile trasformazione.
volevo scrivere “TASHtego”
odiamo i bambini, odiamo il nostro futuro
Le madri spesso saltano alla metafora:”io ti ho fatto e io ti disfo”
da qui alla lavatrice il passo è breve.
@magda
mi pare che rispetto ai bambini oggi il sentimento prevalente sia assolutamente l’opposto dell’odio: si vive la maternità/paternità come una sorta di privilegio mistico e irripetibile (tritando i coglioni di chi ne ha già e sa che le cose non stanno così), si vedono i propri figli come semi-dei, in un delirio genitoriale mono maniaco, dove contano solo le proprie sante creature, le uniche degne d’attenzione e amore, viste improvvisamente come centro dell’universo.
a tutto questo si aggiunge il familismo, la mistica della procreazione e il generalizzato sentire la vita come una cosa sacra, in uno sprizzare di acque e placente, teste di bimbi bagnate di muco che si affacciano da fiche super dilatate inquadrate frontalmente e mandate in onda nei programmi pomeridiani della domenica e tutti a sospirare oh il mistero della vita, oh il dare la vita, eccetera.
salvo poi dopo meno di vent’anni dopo mandare quella stessa creatura santa coperta di muco de mamma sua a combattere in qualche parte del mondo, salvo poi a non garantirgli lavoro e istruzione, una vita decente in un ambiente decente, salvo poi farla diventare precaria a vita.
poi fate un po’ voi.
Diciamo che come tutti i momenti topici umani è attimo che suscita schizofrenie sociali.
Esistono anche intolleranze, violenze, irriverenze verso i bambini.
Inglese, Paoloni, dite la verità: vi siete mancati… ;-)
“le imperfezioni del nostro mondo”, è una bella formulazione, oh paoloni.
la propongo per il Premio eufemismo 2006.
l’odio di sé è l’unico modo decente di vivere l’Occidente.
ma anche la “critica di sé” può andare, in mancanza di meglio.”
Tash, sei in forma! Non so se ti ha inspirato l’argomento, ma anche nella risposta a Madga ritrovo la tua verve migliore.
@Elio
“A volte non riesco a comprendere se certi atteggiamenti denunciano davvero un nichilismo programmatico, irriducibile, o nascono dalla pura spacconeria”
io credo sia non conoscenza e immaturità.oltre misantropia di fondo.
@Andra impara a rispondere direttamente, da uomo, anche perchè prima o poi lo dovrai diventare pure tu.
Caro Andrea, mi ritrovo abbastanza nel “riformismo” del tuo ultimo post. Forse non siamo poi così lontani.
guarda Elio che se viene fuori che siamo d’accordo, vuol dire che uno dei due ha barato (non ci puo’ essere altra spiegazione)
beh, io penso che la nostra civiltà vada ri-creata. tu dici
“spero di cambiarmi in continuazione (e molto attraverso gli incontri), spero che la mia società riesca a cambiarsi, a correggerre gli errori”.
e con “In me c’è quindi molta speranza” smentisci il cupo inno alla sterilità del primo post. volevo dire questo. o preferisci in ogni caso essere in fiero disaccordo? (ampio sorriso).
Qui sarebbe interessate sapere da chi è genitore, padre in particolare, in che cosa l’esperienza di avere un figlio ha cambiato i propri orizzonti di senso, sia dal punto di vista individuale-privato che relazionale-sociale.
Assistere alla metamorfosi di un uomo che”si eternizza”, è qualcosa di toccante, sopratutto per la madre dei suoi figli.
@andrea
denghiu.
@mag
“Assistere alla metamorfosi di un uomo che”si eternizza”, è qualcosa di toccante, sopratutto per la madre dei suoi figli”.
che significa?
ri-creata elio, siamo d’accordo, ma parecchio “a colpi di martello”, e non so se qui siamo ancora d’accordo… ma anche un accordo incidentale, en passant, godiamocelo!
prova tu a dare una speigazione, se poi non “quaglia” la spiego meglio
[…] (Per una critica di Elio Paoloni su questo testo vediqui) […]