Leccare la lingua altrui come quando ci si bacia
Gli autori italiani aprono il laboratorio.
Florilegio a cura di Alessandro Canzian *
Questo montaggio di frasi da interviste e recensioni trae spunto dalla recente discussione sulla lingua degli scrittori italiani contemporanei, avviata da Massimo Rizzante e Giacomo Sartori e proseguita, sul web e su carta, a capannelli sempre più larghi. Da più parti è rimbalzato, implicito o detto a chiare lettere, l’invito agli scrittori a esprimersi in prima persona su questi aspetti del loro lavoro: padronanza e pratica della lingua, suo utilizzo consapevole, ricerca della parola, rapporto tra lingua e storie e tra lingua e tecniche narrative. In parole povere, un’esortazione ad aprire l’officina e mostrare i ferri del mestiere, a dire qual era l’intenzione espressiva dietro l’uso di questa o quella parola, di quel registro, di quel fraseggio. Ci è venuto in mente che… sta già accadendo. Negli ultimi anni abbiamo visitato diversi autori nelle loro officina, li abbiamo ascoltati con vivo interesse. A volte si trattava di autori lontani dal campo di interessi (e pregiudizi) della critica più accademica. Autori verso cui non corre il pensiero, quando si riflette sulla “prosa d’arte” del giorno d’oggi. Scrittori che compiono scelte azzardate, ma in una dimensione “pop” e fortemente narrativa. Interrogando i motori di ricerca dei siti e dei blog letterari, abbiamo riportato alla luce spiegazioni e dichiarazioni. Le abbiamo raccolte, tagliate, accostate e incollate. Abbiamo cercato di individuare le costanti, le intersezioni tra i progetti. Sono emersi due grandi nuclei di problemi, di cui scriviamo nell’appendice. Qual era il nostro intento? Quello di stimolare un’ulteriore produzione di domande, da sottoporre a un insieme più vasto di scrittori. Da queste prime battute potrebbe prendere forma un questionario approntato collettivamente, e dalla sua circolazione un’inchiesta sulla lingua italiana nella letteratura odierna, con particolare (ma non esclusivo) riferimento alla narrativa, oggi la scrittura più praticata. Come ha detto da qualche parte Tiziano Scarpa, oggi “il romanzo è re”, che questo piaccia o no.
Avvertenze: per “autori” o “scrittori” qui intendiamo i prosatori: nei poeti la consapevolezza della lingua e del suo uso è data per scontata (a torto o a ragione); per autori “contemporanei” intendiamo – scelta del tutto arbitraria – autori che abbiano esordito non prima degli anni Novanta; di fronte al vastissimo insieme dei prosatori italiani contemporanei, quello che segue è un quadro parzialissimo: ci siamo limitati a seguire l’eco rimasta nelle orecchie. Là fuori esiste molto altro: segnalate, linkate, estrapolate. Le sottolineature sono nostre. La maggior parte di questi stralci proviene da: Blackmailmag, I Miserabili, Carmilla, Nazione Indiana, Eymerich.com, Giugenna.com, Lipperatura, Wumingfoundation.com. La parola agli scrittori, dunque.
1. “Apro il mio laboratorio”
GIROLAMO DE MICHELE
Per la lingua dei miei romanzi ho lavorato, soprattutto con Scirocco, per raggiungere gli effetti di cui parli. Ad esempio, ho eliminato quasi totalmente l’imperfetto – il che per un cultore di Flaubert quale io sono è un’impresa – per evitare quell’effetto di eterno presente che la concatenazione imperfetto-passato remoto crea nel simulare un presente proiettato all’indietro. Lo stesso vale per l’uso della voce narrante, quasi sempre assente: non c’è narratore onnisciente, tantomeno attraverso il protagonista senza nome, c’è un “narratore insipiente”. In Scirocco ho lavorato molto sul discorso indiretto libero, più precisamente sul momento in cui una lingua sta passando da A a B e non è più lingua dell’uno senza essere ancora lingua dell’altro: un linguaggio X, non individualizzato. Ho cercato a volte di rendere l’effetto della carrellata con cui Truffaut, nei Quattrocento colpi, passava dalla ripresa del bambino in fuga al paesaggio marino: chi guarda quel paesaggio, il bambino, lo spettatore, il regista? E chi dice: “che bello il suo sorriso!” a proposito di Lara? Io credo (come Pasolini, come Deleuze e Guattari) che il discorso indiretto libero sia il magma originario del linguaggio, prima ancora che il linguaggio si strutturi in forme retoriche, costrutti sintattico-grammaticali, ecc. È per questo che non c’è alcuna ricerca della bella metafora, anzi, alcuna ricerca della metafora: una metafora può esserci o meno, ma non è il cuore del discorso. Questo per dire che io cerco di forzare la possibilità linguistica del genere verso usi e direzioni che non sono inglobabili dal genere stesso (il modello è ovviamente il Pasticciaccio di Gadda, ma anche il suo strepitoso Eros e Priapo).
TOMMASO PINCIO
A poco a poco e tardivamente. Nei primissimi anni Novanta mi trasferii a New York con pochissimi soldi e la speranza di ritrovare me stesso e la voglia di dipingere che avevo perduto dopo essere uscito dall’Accademia. Trovai casa ad Alphabeth City, nel Lower East Side, che all’epoca non era un quartiere molto raccomandabile. Lavoravo per un pittore, Jonathan Lasker, ma stranamente invece di riprendere in mano i pennelli mi sono appassionato alla scrittura. Credo che il fatto di vivere in un paese dove parlavano una lingua straniera mi abbia spinto a prestare più attenzione alle parole. Lo ricordo come un periodo felice, il solo che rimpianga davvero, malgrado campassi a forza di hot dog e dormissi spesso con il cappotto perché l’impianto di riscaldamento si rompeva in continuazione. Quanto all’apprendistato, leggevo quello che passava il convento di laggiù osservando quel che capitava nelle strade, i barboni nelle loro case di cartone, gli spacciatori neri sono casa, i malati di AIDS che giravano con il volto bendato come mummie. Era una New York distante ere geologiche quella attuale, una città in piena recessione economica e sotto tanti aspetti primitiva e selvatica.
È invece mutato il mio rapporto con la scrittura. La certezza della pubblicazione mi ha indotto ad abbandonare la lingua eccessiva e inutilmente sperimentalista di M., il mio primo romanzo. Sono diventato più consapevole di quanto possano risultare inaccettabili le storie che ho bisogno di raccontare e quindi ho cercato di rendere estremamente leggibile il modo di raccontarle. Con quali risultati non sta a me dirlo.
TIZIANO SCARPA
Groppi d’amore nella scuraglia è un libro che ho scritto in un mese e mezzo, mi è esploso fra le mani. Volevo scrivere questa storia da sette anni. Avevo già raccolto alcune pagine, dei capitoli, degli appunti, poi d’improvviso in poche settimane il testo era finito. Per questo motivo sono legato a questo libro come ad una città ‘sorprendente’. Un evento del genere mi è capitato solo un’altra volta, quando ho scritto di getto in un mese Venezia è un pesce. La lingua, che usa il protagonista Scatorchio, così ricca di parole dialettali meridionali, è però anche il segno che ogni italiano, anche settentrionale come sono io, è intriso di Sud. Infine questa lingua mi ha permesso di affrontare temi semplici, ma intrattabili. Per esempio il volo delle rondini, un tema così poetico e spirituale, in italiano potrebbe diventare stucchevole, culturalista, cerebrale. Grazie a questa lingua sono riuscito ad essere più diretto. Preferisco inoltre fare una distinzione tra immaginazione e fantasia linguistica. Sempre nel mio ultimo libro, molte parole sono sostantivi maschili cambiati al femminile, altre parole nascono da giochi con i suffissi. Se noi proviamo a immaginare un’altra evoluzione della lingua italiana, scopriamo per esempio che il termine “scuraglia” del titolo poteva essere una parola possibile. In italiano esistono tante altre parole simili, come schermaglia o canaglia. La fantasia linguistica nasce dunque da un ascolto attento della “parola”.
Andare alle sorgenti, andare alla scaturigine di quelli che sono i problemi dell’invenzione linguistica, già di per sé è abbastanza arioso, è come una boccata d’aria, ci si trova non a commentare cose già fatte ma a sognare cose da fare. Questa consapevolezza è una cosa già bella in sé, già questo basterebbe a dare una rivitalizzazione. Poi mi aspetto di sbattere la faccia su problemi diversi dai miei, problemi compositivi diversi dai miei, problemi reali quindi: poetiche, modi di sognare di attraversare la scrittura, di incorporarla diversi dai miei, e anche questo è molto.
WU MING
(WM1) Fenoglio (uno dei miei scrittori prediletti, en passant, a cui torno periodicamente rileggendolo tutto) scrisse in inglese – o meglio, in un particolare idioletto che alcuni hanno chiamato “fenglese” – le prime stesure di alcuni suoi libri. Queste prime stesure le usava come substrato sintattico e lessicale, base di “biocemento”, piano poroso su cui far crescere l’italiano, lingua sottilmente “mutante” che teneva conto tanto del substrato consegnato alla carta (il “fenglese”, appunto) quanto del substrato echeggiante nell’orecchio (il gioco di riverberi tra il dialetto di Alba e quello langarolo). L’inglese serviva a forzare le capacità dell’italiano, farlo risuonare in modo differente. Venendo a noi: anch’io ho tenuto conto di diversi substrati, echi che mi riempivano l’orecchio. Quasi ogni frase di New Thing è stata pensata in inglese, anzi, in afroamericano […] Nel renderlo in italiano, andando “a orecchio”, ho fatto intervenire la mia lingua di tutti i giorni, un italiano pan-emiliano orientale (ferrarese parlante il dialetto, da sedici anni vivo a Bologna), ma molti altri elementi sono entrati in gioco: Bologna è piena di meridionali, gran parte dei miei amici e conoscenti sono meridionali, la lingua degli ex-studenti fuori-sede a Bologna è uno slang neo-petroniano con tantissimi prestiti dai dialetti meridionali. Quando voglio rendere una lingua “orale”, giocoforza vado in quella direzione. Una grande palestra, in questo senso, è il mio lavoro di traduzione dei romanzi di Elmore Leonard, il più grande “dialoghista” vivente, un iperrealista dell’effetto orale. Finora ho tradotto Tishomingo Blues, Mr. Paradise e Cat Chaser (che sta per uscire). Tradurre Leonard mi ha ulteriormente “disinibito” nei confronti della lingua. Però in New Thing non c’è solo la “traduzione”/”tradimento” del parlato afroamericano: c’è tutto il lavoro ritmico e addirittura metrico. Non volevo scrivere un libro che parlasse di jazz, di poliritmie, di cadenze sincopate: volevo scrivere un libro che parlasse jazz, parlasse poliritmie, parlasse cadenze sincopate. Paradossalmente, per “rendere” nella lingua una musica principalmente basata su improvvisazione e composizione spontanea, non potevo improvvisare, fare scrittura spontanea alla Kerouac etc. Quella sarebbe stata la mia improvvisazione, come avviene in questo momento. Ma New Thing, al suo primo livello di fruizione, si svolge quarant’anni fa, quando non ero ancora nato, in un Paese in cui non vivo, in seno a una comunità a cui non appartengo né potrò mai appartenere. Il mio doveva essere un omaggio alle pratiche improvvisative nate e cresciute in quella cultura, e per far questo ho dovuto curare la lingua fino all’ossessione, riscrivere radicalmente, scolpire, piallare, cesellare, labor limae, leccare i versi come l’orsa lecca i suoi cuccioli (questo è Virgilio), leccare la lingua altrui come quando ci si bacia, leccare ogni parola come il fricchettone lecca il rospo dal sudore allucinogeno. Hai capito come mai ci ho messo quasi quattro anni per scrivere duecento pagine?
(WM1) Non so, se sono riuscito a rendere Coltrane. Quello non è Coltrane, è una voce che ho inventato io, attraverso momenti di costruzione e successiva demolizione. Ho dovuto inventare da zero una personalità, con fatica, ammucchiando testimonianze, riferimenti, episodi della vita di Trane, e dopo che ho costruito questa personalità, ho dovuto distruggerla! Si trattava di descrivere questa persona nel momento di massima incertezza e deriva, sostenuto soltanto dalla Fede, che nel suo caso era una sorta di panteismo universale, ormai al di sopra degli stessi sincretismi, né cristiano né buddhista né induista né un po’ di tutto questo. Soprattutto il lavoro sul linguaggio è stato periglioso, ho rischiato di sfracellarmi su molti scogli. I capitoli intitolati “L’uomo dei fantasmi” sono scritti con una lingua estremamente lavorata, almeno una quarantina di riscritture radicali per ciascun capoverso, perché la lingua doveva “suonare”, alla fine ho scritto una sorta di prosa poetica, ci sono molti versi della tradizione classica, endecasillabi, alessandrini etc. Quanto alla cultura popolare nera, l’ho ricostruita cercando di coniugare il rigore filologico con un’appropriazione da parte mia, tenendo un occhio sulla cultura popolare che conosco io e conosciamo noi. Voglio dire, cosa sono le “dirty dozens”? Sono invettive in rima improvvisate! Bene, allora esistono pure in Toscana e in altre parti d’Italia, so come calarmici dentro e parlarne. E qual è il ruolo della chiesa in un quartiere nero? Suppergiù quello che aveva la casa del popolo nel paesino dove sono cresciuto.
(WM1) Siccome vogliamo raccontare storie diverse in modo diverso, siamo interessati a ogni tipo di dinamica narrativa, finora non abbiamo scritto un solo libro che somigliasse a quello precedente per tema, ambientazione, costruzione, linguaggio e stile. Certo, in New Thing e in Asce di guerra la radicalità di certe scelte è più evidente, quasi vistosa, ma che dire di Havana Glam? Anche quelli che sembrano romanzi più “normali”, come Q o Guerra agli Umani, tra le righe nascondono molta sperimentazione, basti pensare al linguaggio che abbiamo usato in Q, e che diversi ci hanno rimproverato. Il libro nel quale ci siamo davvero sbizzarriti, pur entro i confini della forma-romanzo, è 54: centinaia di personaggi, ambientazione in tutto il pianeta,capitoli al passato remoto, al presente storico, al futuro, con la terza persona, l’io narrante, il “tu narrato”, capitoli senza distinzione tra dialogo diretto e indiretto, capitoli a flashback concatenati, lingua ricostruita sulla sintassi e l’idiomatica del bolognese o del napoletano, capitoli solo di titoli di giornale, punti di vista di oggetti inanimati, di animali, di luoghi…
(WM) Da che altro prendere spunto se non dal conflitto? La realtà è conflitto, non è mai pacificata, questa intervista è conflitto, unità e lotta dei contrari, dialettiche che funzionano e dialettiche che si inceppano. E’ così l’amore, è così l’odio. Le guerre sono vicissitudini umane come le carestie e le malatie, gli esodi e i nuovi insediamenti, i naufragi e le fondazioni di nuove comunità, le invenzioni e le amnesie. Un cantastorie deve cantare tutto questo o una significativa parte di esso, altrimenti la comunità ha mille modi per revocargli il “mandato”. [Un nostro libro] è una raccolta di ballate, o una cassetta degli attrezzi. Ogni raccolta di ballate è, nell’atto, una cassetta degli attrezzi. Ogni cassetta degli attrezzi è, in potenza, una raccolta di ballate: ciascun utensile (cacciavite, martello, lima, sega, pialla…) può raccontare una o più storie, i graffi e i segni e le sdentellature sono come incisioni in cuneiforme su tavolette di argilla. Bisogna imparare a leggere tutto.
(WM5) Noi utilizziamo la letteratura come un macellaio utilizza la carne bovina, la frase ha un sapore volutamente provocatorio. La vacca è un organismo riconfigurato in modo da renderlo un prodotto assimilabile. Stessa cosa per la letteratura: è sì qualcosa di veramente organico ma in ogni momento necessita che vengano scelti i quarti giusti per riconfigurarli e renderli digeribili. Noi vogliamo scrivere letteratura popolare, non per tutti in assoluto ma per il maggior numero possibile di persone.
GIUSEPPE GENNA
La lingua del Prequel [dell’Anno luce] – una scena che mette in rappresentazione una convention aziendale – è piuttosto elaborata dal punto di vista retorico e metrico. Sono invece presumibilmente kitsch le microsituazioni in platea, dove si mangiano molti wuberoni, e sul palco, dove domina la scena la gigantesca figura dell’amministratore delegato, detto il Profeta, alle cui spalle sono proiettate, su un colossale videofonino, icone tv come il Capitano Kirk e GeiAr.
Il sistema retorico con cui L’Anno Luce viene realizzato fa perno sull’epica della decadenza, soprattutto quella dei nòstoi post-omerici, e la sua figura centrale è la digressione. La digressione sembra aprire la materia della narrazione a tematiche altre, ad altre discipline, ma la verità è che essa viene utilizzata in funzione di antitrama, di opposizione interna alla dittatura del plot, questa palta cristallizzata che viene irradiata da tutte le fiction sugli schermi tv italiani. Che appaiano gigantesche digressioni su Gigi Rizzi che conquista la Bardot, su Laika e la razza canina da cui faceva parte, sulla missione Cassini-Huygens su Saturno o sul film Wall Street – tutto ciò non ha a che vedere con una poetica dei generi o tantomeno della contaminazione tra generi. E’ l’immaginario che cerca di narrarsi indefinitamente.
2. “Apro i laboratori degli altri”
TIZIANO SCARPA
Su Mauro Covacich
Mi soffermo sulla scrittura: mai o quasi mai sopra le righe; il suo intento non è quello di mostrare i muscoli, di esibirsi sciantosa, di arzigogolare stilisticamente. Le definizioni e le descrizioni sono precise: ma proprio perché si tratta di descrivere con precisione fenomeni nuovi, oggetti contemporanei ancora poco frequentati (almeno in letteratura), la loro descrizione risulta giocoforza straniata, interessante, sorprendente (è un complimento, questo che sto facendo). Così lo scrittore non ha bisogno di straniare, perché lo straniamento è già nella oggettività della descrizione stessa che, mobilitando tutta la sapienza retorica della precisione, ottiene risultati artistici dissimulando qualsiasi artisticità deliberata. Questo, tra l’altro (mi permetto una digressione che riguarda le mie ipotesi di ricezione della scrittura, e non dell’argomento – degli argomenti; sono molti – di questo libro, che coglie tutti i temi caldi della contemporaneità e perciò si presterà a essere dibattuto dai media), farà sì che presso i lettori medi ci sarà probabilmente una certa difficoltà nella lettura: nonostante non ci sia nessuna prosa d’arte, se ne ricava una prosa d’arte di secondo grado (quindi vera, poetica, letterariamente autentica, splendida – è ancora un complimento, questo), che tuttavia richiede una specie di doppio salto mortale per riportare la lettura alla posizione normale: una naturalezza riconquistata per doppio artificio. Si procede camminando “naturalmente” come una persona che sia consapevole di tutti i movimenti dei propri tendini, muscoli, articolazioni e ossa, come qualcuno che possa contemporaneamente sentirsi da dentro e vedersi da fuori: stupendo dal punto di vista conoscitivo per un lettore esigente; difficoltoso per un lettore che vuole sapere come va a finire e basta. “ Le bacche dei lecci tra i quali mio padre stendeva l’amaca scoppiettano come imbottitura da impacco sotto i pneumatici dell’Audi”. Esaminiamo questa similitudine. Il percorso è dall’ignoto al noto: una porzione di natura (le bacche dei lecci) è diventata ignota per noi lettori, e per figurarcela ci viene proposta la similitudine con qualcosa che conosciamo bene (la plastica a bolle da imballaggio). Il fenomeno che si tratta di descrivere è il rumore che fanno le bacche dei lecci sotto i pneumatici di un’automobile (un elemento naturale si rende percepibile in una situazione innaturale): anche questa è una percezione sonora curiosa, strana. La descrizione è perfetta, elegante, fila via liscia, è ottenuta con sobrietà assoluta di mezzi e precisione lessicale senza fronzoli: ma presuppone questo doppio salto mortale cognitivo: percezione uditiva curiosa rappresentabile attraverso un passaggio dall’ignoto al noto, mediante il quale passaggio scopriamo con stupore che ci è più noto un elemento artificiale (le bolle di plastica) di un elemento naturale (le bacche) – benché questo elemento naturale sia per la verità sottoposto a un trattamento innaturale (la pressione sotto i pneumatici).
VALERIO EVANGELISTI
Su Jean-Patrick Manchette
Ovunque ci sia un nesso, un raccordo logico [Manchette] lo taglia, affidandolo interamente al lettore. E ciò non avviene solo sulla misura del romanzo, bensì anche a livello di costrutto delle singole frasi. Ancora Posizione di tiro: “Un attimo dopo lei non aveva neanche la forza per tenere gli occhi aperti, e la mandibola le si afflosciò. Sarebbe morta in pochi istanti se Terrier non avesse allentato la pressione, ma la allentò” (“Un instant plus tard Cécile n’avait même plus la force de garder les yeux ouverts, et sa mâchoire inférieure pendit. Elle serait bientôt morte si Terrier ne relâchait pas sa pression, mais il la relâcha.”). Si noti la variabilità dei soggetti : da Cécile alla mandibola di lei, divenuta autonoma dalla donna; ancora, da Cécile a un altro elemento incontrollabile, Terrier, che regge due forme verbali, di cui l’una ipotetica e l’altra no. In sole due righe, un duplice cedimento della volontà di Cécile: nei riguardi del proprio corpo e di fronte a Terrier. Logica e consecutio temporum avrebbero voluto che tutto ciò avvenisse in quattro tempi, o almeno in tre. Ma a Manchette tutto interessa salvo che lo spreco di congiunzioni, e condensa il tutto in due sole righe, a prezzo di un fraseggio in apparenza sconnesso. L’esito è di impressionante efficacia. Quando il procedimento è applicato, con cura maniacale, a un intero romanzo, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, il risultato è quello di una rarefazione vagamente straniante: precisamente l’effetto che l’autore si propone.
Su Wu Ming 1
Si indovina che ogni riga, ogni parola, devono avere richiesto uno sforzo consistente, non tanto per essere espresse, quanto per celare il virtuosismo che le sottende. Non so quanti lo comprenderanno. Dalle nostre parti capita che sia esaltata la maestria di chi sbatte in faccia al lettore il tormento stilistico da cui è stato rapito, mentre accumulava frasi su frasi indirizzate a épater le bourgeois.
Su Giuseppe Genna
Riottoso alla prosa scarna e scabra, se vogliamo apparentemente banale, dei grandi autori di romanzi a suspense, Genna privilegia il virtuosismo stilistico, coltiva l’iperbole, tenta esperimenti inusitati all’interno di un contenitore che normalmente li tollera poco. Si capisce presto che il suo intento è proprio sfondare il contenitore, non per distruggerlo, ma per annullarne la separatezza dal resto della letteratura. Per arrivare a simile risultato, Genna ha proceduto per fasi, scandite dai suoi ultimi tre romanzi. In Nel nome di Ishmael le pagine che sorprendevano per le acrobazie di stile (memorabili quelle su Kissinger) erano isolate, e attendevano il lettore all’angolo di un percorso fatto di scrittura elegante ma tutto sommato convenzionale. In Non toccate la pelle del drago (a mio parere meno riuscito), le dosi di sperimentazione e di aderenza alle convenzioni in pratica si equivalevano, senza dare vita a una cifra definita. In questo Grande Morte Rossa, finalmente, la vertiginosità dello stile fa tutt’uno con la trama, vi si integra, le appartiene. Se vogliamo restare nell’ambito del thriller è un po’ come se Dario Argento, capace di inserire inquadrature da capogiro in film deboli e farraginosi, avesse trovato infine una sceneggiatura capace di valorizzare a ogni passo la sua maestria.
GIROLAMO DE MICHELE
Su Valerio Evangelisti
E l’autore? Dov’è Evangelisti, in tutto questo [ne Il collare di fuoco, N.d.R.]? […] Evangelisti si spezzetta nei singoli personaggi, è qua e là, dappertutto e in nessun luogo. Si sottrae. Ci priva della consolante frase ad effetto, della massima romanzesca che tutto comprende e tutto risolve nello stile. Si scioglie nella narrazione, e frammenta la narrazione in sequenze slegate, continui sbalzi temporali in avanti. Il segreto di una scrittura fintamente medio-bassa è forse qui: nelle continue sottrazioni di eventi, nell’incompiutezza della pagina narrante rispetto alla vita del personaggio, nell’assenza di soluzioni di continuità tra il prima e il poi. Il lettore è forzato, costretto a riempire quei buchi storici e romanzeschi. Fin dove può arrivare quest’arte della sottrazione? Dipende. Gli Area sottrassero note su note a un Concerto Brandemburghese, sino a lasciarne un’unica nota. Evangelisti non arriva a tanto, la sua musica è ancora riconoscibile – ma solo nella sua architettura di base, nel suo scheletro. Come un macabro decadente, ci mette tra le braccia un corpo femminile solo per farcene sentire il teschio e le ossa che affiorano dalla carne morta.
Su Wu Ming 5
E poiché la lingua non può essere casuale rispetto al contenuto, la scrittura di WM5 si fa ellittica, spezzata, monca. Il lavoro sull’essenzialità della forma, quel livello paratattico nel quale si esprimono Ellroy ed Easton Ellis, quel continuo “cavare” (per dirla con Sciascia) serve all’autore per forzare il legame tra immagine e parola. Bisogna riconoscere che, all’interno della scrittura collettiva dei Wu Ming, gli accordi solisti rappresentano nuove variazioni, nella consapevolezza che la pienezza di una scrittura si raggiunge quando si sono espresse, per differenze e giustapposizioni, tutte le possibilità del lingua: cioè mai. Ed è bene che i vuoti non siano saturati, che le discontinuità abbondino: non è nella frase che si ricompongono i significati, così come non è nella narrazione degli eventi che si riappacificano le storie. Come le danzatrici di Renoir, queste storie sono osservate da un occhio che ne determina il taglio prospettico dall’esterno del dipinto: l’occhio del karma, appunto, rispetto al quale l’umanità è pulviscolo cosmico. Il che non impedisce ad alcuni personaggi di raggiungere questa consapevolezza: di uscire, cioè dalla paranoia umanocentrica.
WU MING 1
Su Elmore Leonard
Uno stile ellittico che rende i dialoghi perfettamente naturali, come quelli che si sentono nei bar o per strada: “I go home, she’s gonna want to know where it’s at” (proposizione temporale priva di congiunzione”when”); “how you know he died, he tell you?” (frasi interrogative prive di “do” e “did”); “His picture in here?” (frase interrogativa priva di copula “is”); “you want to check it out, go ahead” (periodo ipotetico privo di congiunzione “if”). A volte l’uso dell’ellissi è virtuosistico, tutti i nessi sintattici saltano in aria eppure la frase resta comprensibile: – Friends don’t break in, Harry, they ring the bell. [“Gli amici non scassano la porta, Harry. Suonano il campanello”] – Yeah? What about stoned they might. [più o meno: “Ah, sì? E se sono fumati non può capitare?”] “What about stoned they might” sfida l’analisi logica. E’ al tempo stesso una frase farfugliata, una domanda che a metà strada diventa un’affermazione e – verosimilmente – ciò che rimane di: “What if they’re stoned? If they’re stoned, they might“. Un ultimo esempio, stavolta da Tishomingo Blues: “We out there talking I feel you hanging back” [Mentre parlavamo, là fuori, sentivo che stavi molto sulle tue]. A colpi di ellissi, anacoluti e presente storico/narrativo, Leonard spazza via la sintassi di questa frase, lasciandone solo l’ossatura: “Là fuori che parliamo, sento che stai molto sulle tue.” Nelle [vecchie] traduzioni italiane dei romanzi di Leonard non vi è la minima traccia di ellissi, anacoluti, storpiature ed espedienti “fotografici” (benché l’italiano parlato sia strapieno di tutte queste cose). I dialoghi suonano pesanti, poco credibili, anche perché i traduttori non fanno niente per avvicinarsi all’italiano parlato: rispettano fiscalmente tempi e modi, non rinunciano mai al congiuntivo, evitano gran parte di ciò che nutre la conversazione quotidiana. La tendenza a prendere troppo sul serio l’italiano scritto (dopotutto, siamo nel paese della “bella pagina”) limita la capacità di scrivere dialoghi convincenti, e questo vale sia per gli autori indigeni (certo, con significative eccezioni) sia per chi traduce autori foresti.
Su Gianni Biondillo
Per capire dove stia andando a parare Gianni Biondillo, è utile leggere in rete le reazioni di certi lettori ancorati al “genere-genere”. In buona sostanza, lo rimproverano di scrivere bene, di avere attenzione per la lingua, di fare sfoggio di perizia e cultura, di premere troppo sul pedale del lirismo. A detta di costoro, ciò interferirebbe con la trama. Alcuni commenti da internetbookshop: “l’autore ha mascherato il libro da thriller disattendendo così le promesse dei lettori”; “scrittori che usano le parole come fine e non come mezzo, che non sanno costruire una storia”; “tanti piccoli quadretti tutti forma e niente sostanza”; “un libro, in quanto tale, ha lo scopo di raccontare e non deve essere esercizio di stile letterario fine a se stesso. L’autore (che non conoscevo) ha dei numeri, ma si lascia a lunghi tratti prendere la penna da un narcisistico senso della calligrafia, rompendo il ritmo della trama”; “Se non la tirasse tanto per le lunghe in alcune compiaciute pagine che danno ben poco alla trama, sarebbe anche meglio”. Altrove, fanno da contraltare i partigiani del “genere-Letteratura”, secondo cui Biondillo scrive “paraletteratura”, comunissimi gialli “con qualche spunto ma nulla più”, “letture per passare il tempo” etc. In generale, se ti senti un narratore prima che un “letterato”, ci si aspetta che tu scriva male o tuttalpiù mediocremente, senza eccessivo rispetto per la lingua dei padri, l’importante è accompagnare l’eroe fino alla fine, inseguire ‘o malamente sulle montagne russe, tra freddure, mazzate ‘e cecate e botte di culo. Per i libri come i tuoi c’è una vasca da piscicoltura, lì dentro fai quel che vuoi ma guai a te se la scrittura tracima. Non azzardarti a cercare di scrivere bene. Chi sguazza insieme a te nella vasca dirà che te la tiri, chi ti credi di essere, pensa a scrivere la storia senza infiorettature e non cercare di fare l’artista, ché sei un mestierante come tutti noi. Chi sta fuori dirà che puoi fare a meno di tirartela, chi ti credi di essere, sei un mestierante, cerca di non avere pretese, lascia l’arte e la poesia a noialtri che ne capiamo e non scriviamo solo per titillare il pubblico. Nel decennio 1994-2004 i narratori italiani (e le narratrici, of course) hanno messo in crisi questi atteggiamenti, sfidando le polarizzazioni, scombinando tutto, sperimentando dentro e attraverso i “generi” letterari, usando i “generi” per costruire altro, conquistando il terreno dei “generi” per avanzare e andare oltre. Il bello di tutto ciò è che i narratori lo hanno fatto insieme (“Cordone, compagni!”), l’impressione (sbagliata, ma solo in parte) è quella di una strategia concordata. In realtà è una strategia intuita da tutti e trasmessa per telepatia.
Su Marco Philopat
Il libro è un oggetto ibrido una raccolta – di testimonianze vere e immaginate – Philopat si supera e rovescia sulla pagina un linguaggio materico – pieno di mota e di detriti – e regala pezzi di bravura – Milanese DOC – scrive interi capitoli in romanaccio sguaiato – “Qua ce sta ‘na paccata de froci” – o in avvocatese della Trinacria – “Si deve ammettere che il provvedimento urgente adottato nei suoi confronti – nella fattispecie l’assunzione all’Ente Nazionale Previsione Infortuni” – Caratterizza le diverse voci con interiezioni – la madre di Gerbino attacca sempre con “Eeehhhh” – Philopat cos’è? Un ventriloquo o un medium? – Il lettore si domanda – epperforza se lo domanda! – come ha costruito il libro – come ha lavorato e quanto tempo ci ha messo – Ci stavano bene i “titoli di coda” cazzo –
Su Giuseppe Genna
Più che capito (ché mica tutto si capisce, anzi), questo testo andrebbe forse ascoltato. Che l’intento di Genna sia musicale si capisce da com’è lavorata la lingua: dev’essere il frutto di numerose riscritture e di un forsennato “lavoro di lima”, dato che nessun fonema sembra lì per caso, c’è una logica precisa. Si prenda ad esempio questa frase: “Mettiamo il Klaus Kinski di Sergio Leone, che ha il negativo nell’eroe, mettiamo il Klaus Kinski di Herzog.” Rileggetela a voce alta. C’è una precisa costruzione metrica e fonetica, il nome “Klaus Kinski” è ripetuto perché “eufonico”, suona bene […] Tra l’altro, questo testo è quasi privo di aggettivi, caratteristica inconsueta per quell’autore. Come se Genna, nello scrivere, si fosse posto un limite, uno o più impedimenti da aggirare, costrizioni che spingessero il testo in nuove direzioni. Gli scrittori lo sanno: un testo è maggiormente libero quante più costrizioni gli si impongono.
3. Appendice. Due nuclei di problemi.
A. Il rapporto (o l’impasto, lo scontro, la sovrapposizione) tra italiano e altre lingue.
Almeno per quel che riguarda la fascia istruita della popolazione, non viviamo più in una realtà nazionale monolinguistica o al massimo bi-dialettale (cioè dove si parla l’italiano e il proprio dialetto locale). E’ vero, ci sono sempre stati autori italiani poliglotti, e autori italiani che parlavano altre lingue e traducevano autori stranieri ricavandone influenze. Svevo non avrebbe scritto in quel modo senza l’esposizione al tedesco e allo sloveno. Fenoglio non avrebbe scritto in quel modo senza l’amore per l’inglese. Ma oggi, con la globalizzazione sempre più spinta, l’inglese (o “una specie” di inglese mondializzato) entra di prepotenza nella vita di tutti i giorni; c’è maggiore possibilità di viaggiare (mentre Fenoglio amò l’inglese da lontano e non andò mai in Inghilterra, oggi vai a Londra con nove euro!); si accede facilmente a mass media in inglese (internet e tv satellitare entrano in sempre più case) ed è semplice reperire libri in inglese (Amazon ecc.). In una situazione del genere, come cambia l’approccio dell’autore italiano alla propria lingua madre? Come resiste e si reinventa la lingua letteraria italiana nell’epoca dell’inglese come lingua franca planetaria? Wu Ming 1 usa l’espressione “leccare la lingua altrui come quando ci si bacia”. Un amoroso meticciato. Altri autori invece, di fronte allo stesso problema, propongono soluzioni che sembrano diametralmente opposte, appartentemente neo-autarchiche (ricordo l’intervento di Tiziano Scarpa nel libro “Scrivere sul fronte occidentale”), però partendo dallo stesso presupposto.
B. La sperimentazione “non visibile” (o “lingua d’arte di secondo grado”, per usare una definizione di Tiziano Scarpa a proposito di Fiona di Covacich).
Quasi tutti gli autori in esame parlano di un lavoro sulla lingua che procede per piccoli straniamenti, a volte accorgimenti minimi e quasi impercettibili che però si accumulano, finché non ci si trova di fronte a una lingua che è mutata sotto gli occhi pagina dopo pagina, quasi senza che il lettore se ne rendesse conto. La descrizione più efficace è quella di Scarpa, ma gli altri scrittori vanno nella medesima direzione o trovano quel lavoro nei testi degli altri. In alcuni casi si parla di ottenere la prosa da versi progressivamente “deturpati” (espressione mia) aggiungendovi o togliendovi qualcosa. Una metrica nascosta.
Ricapitolando: – come risuona l’italiano durante e dopo l’esposizione ad altre lingue, inglese in primis; – che tipo di lavoro cosciente sull’italiano letterario fa l’autore esposto a quell’influenza; – c’è una sperimentazione linguistica anche nella letteratura più “narrativa” e raccontocentrica, solo che è meno visibile; – questa minore visibilità è una scelta dell’autore, che calcola l’effetto non in base alla singola frase ma in base al testo nel suo complesso.
* [con l’assistenza di Gianni Biondillo e l’incoraggiamento di Giacomo Sartori]
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Beh, che dire: onorato dell’attenzione e della compagnia. Ma soprattutto, felice di aver letto un lavoro del genere, che testimonia l’autoconsapevolezza di questa generazione di scrittori.
Sei stato generoso, Canzian, e quanto a me ti ringrazio, l’ho salvato e magari lo leggerò, perché sono curiosa.
Ma quando ho letto queste tue righe:
“Negli ultimi anni abbiamo visitato diversi autori nelle loro officina, li abbiamo ascoltati con vivo interesse. A volte si trattava di autori lontani dal campo di interessi (e pregiudizi) della critica più accademica. Autori verso cui non corre il pensiero, quando si riflette sulla “prosa d’arte” del giorno d’oggi. Scrittori che compiono scelte azzardate, ma in una dimensione “pop” e fortemente narrativa”
mi hanno colpito due cose, ho visto la lista degli autori (ne ho letto solo un paio), mi sono chiesta se i miei interessi di lettrice sono pregiudizi o accademismi (non ho saputo rispondermi), mi sono chiesta se ho mai riflettuto sulla “prosa d’arte” ( e mi sono risposta che la prosa d”arte non mi interessa). Mi sono chiesta se invece quello che io vorrei è proprio l’ uscita dal “pop” perché mi sembra ormai, dopo gli inizi, come una scorpacciata di mashmellows che vorrei dimenticare (qui mi sono trovata abbastanza propensa a non mangiarne più, per salvarmi i denti), e mi sono chiesta se uno scrittore che scrive romanzi deve essere “narrativo” (e qui mi sono detta con molta convinzione, no perbacco, la fiction mi va benissimo, ma non è mica obbligatoria).
Mi chiedo ancora, sono così accademica, così conservatrice, così reazionaria, capisco così poco il mondo da sentirmi strettissima in questo orizzonte?
Non è troppo claustrofilica questa lista, non parte già zoppicante in partenza, non è troppo generazionale? Perché dal ’90 in poi? Quindici anni sono niente in letteratura, io non vado per officine tanto volentieri, se non sono officine di grandi artigiani, questi sono i migliori? Devo proprio leggerli tutti? Non perderò il mio tempo? Posso giocare anch’io, o è un gioco con limiti di età?
Tutto questo non provocatorio, ma pensoso.
Temperanza, che posso risponderti? L’ho detto io per primo che è un quadro parzialissimo, e che il criterio è arbitrario. Sono andato a ripescare le cose che mi ricordavo. Ho anche invitato altri ad aggiungere nomi, link, riferimenti, dichiarazioni. E non c’è l’obbligo di leggere niente, questi non sono “consigli di lettura”, sono spunti per produrre domande da fare ad altri scrittori. Non ho detto che questi sono i “migliori”, ma certo – dopo qualche giorno di ricerca intensiva su google – posso dire che sono tra i più “aperti” a spiegare cosa intendono per sperimentazione e uso della lingua. In rete le interviste a scrittori italiani sono centinaia e centinaia, ma latitano le risposte dettagliate sullo stile e la sua intenzionalità. E’ come se certi autori di “prosa d’arte di primo grado” (per mantenere la distinzione introdotta da Scarpa) temessero di perdere la proprietà esclusiva del loro stile (la “magia” e poesia delle loro belle pagine) se ne rivelassero la gestazione, i “segreti”, le tecniche, l’intelaiatura. Questi invece non hanno preoccupazioni del genere, anzi hanno un approccio divulgativo e “democratico”, partecipativo. Mettono in comune, non stanno sul piedistallo. Sono… ospitali. Per questo ricordavo le loro interviste e non quelle di altri. Un’ultima cosa: l’approccio non è “generazionale” in senso anagrafico: se non sbaglio Valerio Evangelisti ha 53 anni, mentre Giuseppe Genna ne ha 36. C’è una generazione di differenza. Scegliere autori che avessero esordito negli anni novanta significava dare un senso di contemporaneità stringente. Studiare la lingua di La Capria è senz’altro interessante e bello, ma può un autore che si è formato letterariamente negli anni quaranta dirci qualcosa sulle metamorfosi della lingua letteraria di oggi? Oltre al fatto che gli autori che hanno esordito negli anni novanta hanno esordito insieme alla rete e sono esposti alle correnti linguistiche di cui parlavo nella nota A dell’appendice.
Te lo ripeto, Canzian, sei stato generoso, non tutti si sarebbero presi la briga. La critica, se vogliamo chiamarla così, (ma era invece più uno spunto per la riflessione, o al massimo una constatazione problematica) è rivolta ai criteri con cui d’istinto hai cercato: in internet, e scrittori che hanno pubblicato dopo il 1990.
Forse avresti trovato quello che volevi anche sugli scrittori di “primo grado” se avessi cercato su carta. Gli scrittori parlano volentieri della scrittura, anche se non è semplice e spesso non sanno a livello cosciente quello che davvero fanno, a volte si crede onestamente di fare una cosa e se ne fa un’altra, soprattutto nel caso di quelli di “primo grado”, dove le cose vanno molto in profondità.
Ma tu hai pensato d’istinto alla rete, mi ha colpito.
A proposito della Capria, (che personalmente trovo assai poco interessante, anche se mi è piaciuto il suo primo libro) tra il suo esordio e gli anni 90 ci sono stati altri, li conosci? Conosci le loro riflessioni sulla lingua? Ne hanno scritto? O secondo te c’è il deserto?
E ancora, perché pensi che lo spirito divulgativo e democratico in letteratura sia una cosa positiva?
E ancora, tu pensi che gli scrittori siano “sinceri”, quando parlano della loro scrittura, o, anche se lo sono, che siano davvero in grado di farlo? O la situazione è invece un po’ più complessa?
E ancora (come vedi, sempre domande, ma curiose, non ostili) non pensi che l’esame dei testi dall’esterno sia altrettanto se non più lucido?
Il verri, anni fa, fece un questionario rivolto a una cinquantina di poeti italiani; se non ricordo male la prima domanda era “perché scrivi?” Risposero quasi tutti, il risultato non fu memorabile.
Molti indossarono una maschera, senza neppure saperlo, a mio avviso una maschera protettiva, perché – a meno che uno non sia soltanto un bravo artigiano – le radici profonde sono misteriose anche a lui, e delicate, non possono essere esposte all’aria con tanta disinvoltura, e questo non ha a che fare con la democrazia, o l’apertura, a mio avviso. sapere troppo sulle proprie motivazioni e sulla propria arte, non sempre aiuta, aiuta di più essere lucidi su quella degli altri.
Questo è almeno quello che penso io.
Temp. Credo che quella di Canzian sia un’operazione generosa ed aperta. E trovo che le tue obiezioni siano valide ma incomplete. Nel senso: perché non ci dai una mano? Se hai del materiale su cui riflettere (cose di altri scrittori, raccolte dal cartaceo, non so…) mettilo in circolo. Questo, in fondo, è un work in progress, dove tutti possono partecipare attivamente.
;-) Saludos, G.
Temperanza, io ti ringrazio per questi spunti, e credo che leggendo il florilegio troverai alcune risposte. La mia impostazione (difettosissima, lo ripeto) diventa più comprensibile se si vedono i primi risultati, i rimandi reciproci, le tendenze che affiorano. L’importante è capire se questo lavoro sia o meno utile, e se possa produrre un discorso strutturato.
Ho pensato d’istinto alla rete perché è il canale di accesso più immediato (una ricerca su google posso farla gratis, un giro per le emeroteche non me lo posso permettere) e perché è quello che molti scrittori contemporanei hanno scelto per il lavoro culturale e per esprimersi sul loro scrivere, autori diversissimi tra loro ma accomunati dalla presenza attiva in rete, da Scarpa a Genna, dai Wu Ming a Moresco, da Evangelisti a Mozzi, da De Michele a chissà etc. Aggiungo che Internet è il mezzo di comunicazione che si è diffuso a livello mondiale con maggiore velocità nella storia del genere umano, e questo non può non avere avuto un impatto sulla lingua.
La Capria era un nome a caso, potevo nominare chiunque altro, e in mezzo è chiaro che dagli anni quaranta a oggi c’è stato moltissimo, c’è stato un intero mondo di lingua e nessuno lo nasconde: nello stesso florilegio, De Michele nomina Pasolini e Gadda, Wu Ming nomina Fenoglio etc. Il punto però è che ci si stava interrogando sulla lingua degli scrittori di oggi, che scrivono e pubblicano oggi, che hanno un rapporto vivo con la lingua che si parla e si scrive oggi.
Ragazzi ;–)))) ma l’ho detto due volte che quello che ha fatto Canzian è GENEROSO.
Se dico una cosa è perché la penso, o ho una così cattiva fama?
Non ho detto che è aperto, ma ti do ragione Gianni, è aperto, e collaborerei volentieri, se è una cosa che andrà avanti lo farò, ma adesso non ho la possibilità di mettermi a scartabellare, che è più faticoso e prende più tempo che cercare su google, ma solo di zompare qui ogni tanto invece di fumarmi una sigaretta e dare il mio microscopico contributo alla discussione.
Lo ribadisco, quello che ha scritto Canzian (me lo sono salvato) mi ha fatto fare le riflessioni un po’ frettolose ma sentite che ho scritto.
Canzian, come te lo devo dire, ho apprezzato il tuo lavoro. Del Giudice per esempio è stato intervistato sulla scrittura ed è anche in rete, in questo momento vedo libri di interviste alle scrittrici italiane, li vedo ma nella mente, li cercherò, da qualche parte di sicuro li ho, e c’è un tizio che finge di stare su un’astronave e intervista poeti e scrittori, in rete, e c’è un altro sito che riporta anche interviste uscite prima sui giornali, se non sbaglio è romanzieri.com. Non lo frequento da e-anni, ma qualcosa credo che si trovi anche lì.
Sento l’artrosi che mi chiama, lascio il podio ai giovani.
Aggiungo che nel florilegio c’è anche il discorso “dall’esterno”, scrittori che riflettono sulla lingua di altri scrittori, non solo sulla propria. E’ mia convinzione che, nell’analizzare la lingua altrui, involontariamente (?) finiscano per dirci molte cose anche sulla propria. Quando Evangelisti parla della scrittura Manchette, fa anche riferimento al proprio approccio alla lingua. E così via.
Temperanza, non c’è problema, non ho affatto “preso male” quello che hai scritto! Qualunque opinione che faccia capire qualcosa sul senso di questo lavoro è ben accetta, anche la più crudele. Anzi, specialmente la più crudele. Ma le tue non erano crudeli. Ora basta col meta-discorso, però :)
E poi io, anche se una volta Emma ha cercato di insegnarmelo, non so fare i link, non diventano mai azzurri.
Vanno bene anche neri, al limite li taglieremo e incolleremo nel browser.
“
…
A questo punto sarà meglio che mi fermi e spieghi l’uso che faccio della parola arte. Arte è una parola davanti alla quale la gente batte in ritirata, perché troppo altisonante. Ma io per arte, intendo semplicemente scrivere qualcosa dotata in sé di valore ed efficacia. Base dell’arte è la verità, nella sostanza come nella forma. Chi nella propria opera persegue l’arte, persegue la verità, in senso immaginativo, né più né meno. San Tommaso ha detto che l’artista si occupa della bontà di quel che crea, e questa dovrà essere la base del mio discorsetto in materia di narrativa.
…
ci occuperemo del lettore nel suo fondamentale senso umano, poiché la natura della narrativa è in gran parte determinata dalla natura del nostro apparato percettivo. La conoscenza umana ha inizio attraverso i sensi, e sui sensi non si può agire con delle astrazioni. Ai più riesce molto meglio enunciare un’idea astratta anziché descrivere e quindi ricreare un oggetto che hanno davanti agli occhi. Ma il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia ed è proprio questo che gli scrittori di narrativa principianti sono così restii a creare. … poiché la narrativa è più che mai un’arte incarnatoria.… ”
E per molcire le ferite:
“Quando scrivi un racconto, il racconto da scrivere è uno e uno soltanto, ma ci sarà sempre chi si rifiuterà di leggere quella particolare storia che tu hai scritto.
Il che ovviamente solleva la spinosa questione sul tipo di lettore a cui debba rivolgersi chi scrive narrativa … Per quanto mi riguarda, ho un’altissima opinione dell’arte del narrare, e una bassissima opinione del cosiddetto lettore ‘medio'” ;–)))
(Il ghigno è mio)
Ecco, una domanda che farei volentieri agli scrittori che bazzicano da queste parti, è questa: cosa pensate di queste parole di Flannery O’Connor?
Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere. Theoria, Roma-Napoli, 1994.
Boh, Temperanza, mi sembra poco pertinente con quello di cui stavamo discutendo, o meglio, è pertinente, ma in un senso molto generico. Qui si voleva parlare dell’approccio degli scrittori di oggi alla lingua italiana, alle sue potenzialità, ai suoi registri, ai suoi limiti. Questa di O’Connor è una vaga premessa a una dichiarazione di poetica (cos’è l’arte, chi è il lettore…) che si può commentare o fingere di commentare tirando in ballo il mondo intero e di tutto lo scibile umano. Insomma, mi sembra fuori tema. Proporrei di riportare qui pareri e materiali che si attengano all’oggetto: gli scrittori di oggi e la lingua italiana. Di questo si stava parlando, dagli interventi di Rizzante, Sartori e Biondillo, e questo montaggio di frasi serviva a “concretizzare” una discussione che stava diventando vaga. Cerchiamo di non renderla ancor più vaga, dico io.
E poi, scusa, io contesto anche il metodo: perché non leggere il post e intervenire su quel che si dice lì, prima di proporre altre derive della discussione? Finora, su 14 commenti, nemmeno uno che entrasse minimamente nel merito. E’ abbastanza frustrante.
@ Canzian
D’accordo, ti sembra fuori tema, cercherò di spiegare perché secondo me è in tema e molto meno generico di quanto sembra.
Nel primo paragrafo O’Connor parla di ARTE. Questo è già un discrimine, perché divide, o sembra dividere, gli scrittori in due grandi categorie, gli scrittori professionisti (e potremmo farci rientare gli scrittori di genere veri o presunti ecc.) e gli “artisti” o quelli che non scrivono per il contingente. Già questo determina una differente posizione di fronte alla lingua.
Ma poi definisce cos’è l’arte ai suoi occhi (VALORE ED EFFICACIA + VERITA’) e qui molti scrittori pop potrebbero fare un balzo, perché l’accostamento di valore ed efficacia (accettabili) a verità, è respinto da alcuni programmaticamente. Questo influisce fortemente sulle scelte linguistiche e sullo stile.
Poi O’ Connor parla di MATERIA, materia narrativa, ma anche materia percettiva. Parla anzi di APPARATO PERCETTIVO. Qui mi interesserebbe molto sentire come Moresco, Scarpa, Biondillo, Del Giudice, Vassalli, Krauspenhaar reagiscono di fronte alla parola PERCETTIVO e come, soprattutto, reagisce la loro lingua, che reazione chimica usano per ottenere i loro precipitati, quali che siano.
E ancora, mi interessa sapere se la lingua di questi scrittori e di altri è consapevole della differenza che opera sulla lingua la scelta tra IDEA ASTRATTA e MATERIA.
Infine, vorrei sapere se gli scrittori e dunque la LINGUA degli scrittori interpellati o interpellabili è consapevole o rifiuta l’idea della O’ Connor che la narrativa sia un’ ARTE INCARNATORIA.
E passiamo al lettore.
Le parole di O’ Connor sottindendono che lo scrittore NON DEBBA curarsi del lettore medio.
Gli scrittori di cui sopra SI CURANO o NON SI CURANO del lettore?
E questa cura o non-cura, ha effetti e se sì, consapevoli, sulla loro lingua?
Dunque a mio parere STRETTAMENTE in tema:–)
Sarà “strettamente” in tema (ho ancora i miei dubbi), però l’hai presa un bel po’ alla larga. Non si capiva assolutamente. Potresti fare l’ulteriore sforzo di condensare quest’ultimo commento in una domanda secca, così che sia più agevole capirne il nocciolo e rispondere? In ogni caso, mi pare che almeno gli scrittori inclusi nel florilegio (ma secondo me anche tutti gli altri) abbiano già risposto, implicitamente o esplicitamente, a questo tipo di questioni, cioè se si debba scrivere per gli altri o per se stessi, se si debba tenere in conto il lettore ecc. Sono questioni vecchie e gli scrittori hanno già risposto, semplicemente, mettendosi a scrivere. Una lingua non è altro che la comunità di chi la parla. Stiamo già parlando, nel momento stesso in cui parliamo (chiedo scusa per l’ingrovigliamento), di un movimento verso gli altri e con gli altri. Il linguaggio è quello che ci ac-comuna, con cui comun-ichiamo. I libri vengono pubblic-ati, cioè dati a una dimensione pubblica. Anche il più indigesto e sperimentale degli autori, a suo modo, scrive per i lettori. Magari per un’élite, per una minoranza di eletti in grado di capire quel che fa, ma è comunque un insieme di altre persone. A me interessa di più quel che viene DOPO questo, dopo la decisione di scrivere e pubblicare, cioè mi interessa come lo scrittore usa la lingua, e vorrei interrogarlo con domande anche tecniche, poco filosofeggianti, che non chiamino in causa gli universali. Ma forse non è il tempo né il luogo per un lavoro del genere.
No, Canzian, una domanda secca non c’è, ho già stretto abbastanza. Falla tu se pensi che si possa fare, questo è tutto il contributo che posso darti. Certo che sono questioni vecchie, quello che interessa è se ci sono risposte nuove, o no?
E poi sono sicura che se uno scrittore passa di qui e mi legge capisce al volo quello che gli ho chiesto, SE è uno scrittore queste cose le sa e si è anche già risposto, se poi vuole anche metterle in comune, queste risposte, non lo so.
Ma che uno scrittore si sieda e tiri fuori un manuale di retorica e dica, qui adesso uso una funzione fàtica, qua metalinguistica, qua conativa, e le rimpolpo con un isòcolon e un isomorfismo o magari un hysteron pròteron, ho i miei dubbi.
Ma non si sa mai, il mondo è pieno di sorprese.
Proverò a “stringere” la domanda. Comunque, i contributi che ho messo sopra non sono “manuali di retorica”. La descrizione tecnica ha sempre a che fare con le poetiche e con l’etica dello scrivere, senza soluzioni di continuità. Era questo che volevo approfondire, come scrivevo nella premessa: “il rapporto tra lingua e storie, e tra lingua e tecniche narrative”. Perché si raccontano certe storie e perché lo si fa con una certa lingua. Perché si usa una certa lingua e questa lingua dà forma a certe storie. Ma se non leggi il montaggio che ho fatto, continueremo a equivocarci.
L’ho letto il montaggio, Canzian, ma, non so se te ne sei accorto, sono anche l’unica a star qui a discorrere di queste cose con te, forse non interessano a nessun altro.
Non voglio essere pessimista, io a volte ho un senso labile della realtà, ma aspetta almeno di vedere se oltre a me c’è qualcun altro a cui interessano.
Magari i lettori vogliono leggere e basta.
Forse hai ragione, forse l’apparente vitalità della discussione sulla lingua mi ha tratto in inganno e in realtà, esaurita la fiammata della polemica, l’argomento di per sé non interessa più di tanto. Anzi, non interessa proprio. Pazienza.
Io credo che il lavoro di Canzian sia stato e sia importantissimo. A maggior ragione in un momento (momento che dura da un po’ troppo, invero) in cui si delineano contrapposizioni assolutamente fittizie. Al punto che mi viene voglia di rilanciare: e di immaginare se, proseguendo con il work in progress, tutto ciò non potesse diventare un pamphlet. Anche da scaricare e far circolare in rete (o, chissà, da far approdare anche su carta, se qualche editore volenteroso si fa avanti).
Certo che è pieno di friulani, mandi, Canzian
Sono di quelle parti ma non sono il Canzian poeta pordenonese. E’ un caso di omonimia, e si crea sempre confusione. Io sono il Canzian originario del monfalconese che ogni tanto scrive sul “Mucchio” recensendo libri e intervistando autori (l’ultima intervista l’ho fatta a Tiziano Scarpa, prima ancora avevo intervistato Pacifico, Raimo, Lagioia), e la cui foto Genna aveva il vizio di sbattere sui Miserabili in testa a ogni mio contributo.
Beh, sempre friulano sei. Il mandi ti spetta:–)
per la precisione credo sia Giuliano. O mi sbaglio? ;-)
Hai ragione Biondillo, è giuliano, allora mi riprendo il bellissimo mandi, al quale infatti non ha reagito.
Molti anni fa ero a Sauris e dalle montagne, zaino in spalla e picozza in mano, è sceso un inglese, aveva attraversato a piedi da solo tutto l’arco alpino e parlava un friulano fantastico, pieno di dentali. Me lo ricordo ancora dopo quasi trent’anni.
O forse palatali;–)
concordo pienamente con Loredana Lipperini: già questo primo assemblaggio è molto interessante e importantissimo. E anche secondo me bisogna rilanciare alla grande. Cercando altro materiale riguardande questa “fascia” (visto che non è una generazione) di scrittori, prima di tutto. Ma magari anche andando un po’ indietro nel tempo (prima di arrivare a La Capria un pochino ce ne vuole, no), prendendo cioè in considerazione anche qualche autore che ha cominciato nel decennio precedente (p.e. Piersanti).
Si potrebbe poi chiedere a qualche scrittore di intervenire. Magari proprio partendo da quelli di cui vengono qui riportate le parole. Cosa ne pensano dell’accostamento – per certi versi completamente casuale, per altri molto meno – che ne è venuto fuori? Cosa ne pensano delle primissime linee interpretative evidenziate di Canzian?
Un’altra strada da battere sono secondo me i lavori degli italianisti. Vediamo di trovare e presentare (io nel mio piccolo mi sono già mosso) dei saggi/interventi sulla lingua di una singola opera o di un singolo autore o su un gruppo di autori, che possano far riflettere.
Per quanto riguarda l’eventuale questionario io personalmente non vedo come potrebbe apportare qualcosa di davvero nuovo/interessante. Nel senso che quello che manca, mi sembra, è la riflessione, il confronto e i tentativi di sintesi, lo stimolo reciproco di analisi differenti, più che gli interventi dei singoli autori (che appunto, cercando, saltano fuori). Ma se qualcuno ha voglia di dedicarsi alla cosa, ben venga, e una mano potrei darla.
Ma prendiamocela con molta calma! Pensiamoci su, prepariamo degli interventi, chiediamo di preparare degli interventi. Diamoci una scadenza, se proprio vogliamo una scadenza, molto poco ravvicinata, per esempio giugno.
E non aspettiamoci troppo dall’immediato! Cosa ti aspettavi, Alessandro C., che ne venisse fuori subito un profondissimo e ordinato e conclusivo dibattito? Lo sappiamo come sono i commenti, pronti a partire per la tangente come le conversazioni ben innaffiate alle tre del mattino! Questo però non vuol dire, almeno secondo me, che “per” NI non bazzichino molte persone interessate a questa questione. E pure, anche se magari non si esprimono, non pochi scrittori.
Così è come la vedo io
gs
No, certo, non mi aspettavo che partisse subito un dibattito profondissimo. Però sappiamo bene per quanto tempo rimangono in home page i post prima di scomparire negli archivi: pochi giorni. Il tempo a disposizione è poco, e se la discussione non parte nei primi commenti, spesso non parte più. Possono anche accumularsi molti interventi, ma quasi tutti fuori tema o di gente che litiga, e chi vorrebbe dire qualcosa di pertinente al post non si sente granché incentivato a farlo. Perlomeno, a me capita così. Leggo un post, vorrei scrivere qualcosa, ma commetto l’errore fatale di leggermi prima tutti i commenti già scritti, e quando ho finito non ricordo nemmeno più di cosa parlasse il post esattamente :( Bene, si continui a lavorare, con calma e gesso. Forse il questionario non serve, Giacomo non ha torto. Ma io penso: per ogni autore che si è espresso, quanti non lo hanno ancora fatto e se stimolati potrebbero dare un contributo interessante? Ragioniamo su come stimolarli, invitarli, sfidarli, questo sì.
A proposito di quel che diceva Sartori: Girolamo De Michele ha letto questo post e ha anche lasciato un primo commento. Visto che ci legge, perché non ci dice cosa ne pensa dell’accostamento, delle prime riflessioni etc.?
Un eccentrico signore austriaco sosteneva che compito del filosofo fosse quello di cercare la “parola liberatrice” (das erlösende Wort), vale a dire quella parola capace di farlo smettere di “filosofare” quando vuole. Lo scrittore, riutilizzando la metafora, è in cerca di una parola che liberi non tanto sé stesso dallo scrivere quanto i racconti che quella parola può sprigionare. E poiché i racconti sono intessuti di parole, lo scrittore cerca le parole esatte per dar forma al racconto liberato dalla parola, quelle parole e non altre. Tutti gli scrittori, quindi, sono in fondo degli esploratori che vanno “a caccia” (o a pesca, se volete) delle parole “giuste” per raccontare, per dare sostanza significativa alle immagini, ai simboli scelti, attraverso uno spettro semantico che tenga conto della storia, dell’uso, del suono stesso delle parole. C’è un’archeologia delle parole da parte dello scrittore che lo accomuna, con maggiori e minori gradi di consapevolezza, alla filologia. Ad esempio, in un diario di lavoro di Luigi Pirandello (il cosiddetto “Taccuino di Harvard”) troviamo non solo una serie di nuclei narrativi preparatori, ma anche un ricchissimo repertorio d’espressioni, frasi, parole, immagini, suoni da utilizzare poi all’interno della sua scrittura. Un po’ come se andasse collezionando del materiale da costruzione: troviamo elenchi di parole, definizioni, frasi che appaiono come moduli, definizioni di vocabolario rielaborate e rielaborabili in chiave narrativa, parole utilizzate da altri scrittori, altre salvate da poeti (maggiori e minori). Trascrivo uno di questi spogli linguistici, scegliendolo tra i molti elenchi che compaiono nel taccuino:
– Scannelli (del carretto) – razze
– Macìe
– Allocchito
– Schincio
– Il pizzo della cava si stagliava cupo
– Frappa
– Refoletti lucenti
– L’arco sbiadente della luna
– Ceruleità uniforme
– Rema
– Bossoli
– Guitto
– Occhi scerpellati
– Camiciotto strusciato
Segnalo che il correttore automatico di Word 2000 mi indica come non corrette ben sei parole di questa breve lista, senza contare che mi aveva cambiato d’imperio “scerpellati” in “scervellati”. A discolpa di Word si può dire che Pirandello si appropriava di queste parole, sottolineandole in testi altrui, spesso proprio in virtù della loro natura desueta (e già alla fine dell’Ottocento!) o dell’espressività, oppure del suono. La costruzione di un proprio lessico, indipendentemente dalle fonti utilizzate. Un blogger, tempo fa, si lamentava del fatto di non trovare mai utilizzate, nei blog, parole strane, qualcosa tipo “quagliodromo” o “quintilione”; denunciava, a modo suo, un certo appiattimento lessicale dei blog. Niente di più falso, io credo. Mi pare, al contrario, che proprio tra i blogger sia vivissimo il gusto di far aderire il più possibile il proprio lessico alle esigenze espressive e che, anzi, di quest’espressività individuale molti facciano una vera e propria questione d’identità: la mia identità sono le parole che mi scelgo, quelle che vado a pescare, ogni giorno, per tenere in piedi la mia scrittura. Credo che tra i blogger (meglio, tra chi scrive attraverso i blog, in via esclusiva o meno) sia molto forte questa coscienza della narrazione e dell’espressione capace d’essere generata direttamente (vorrei azzardare “causalmente”) dal proprio lessico. Blogger “lessicomani”, in fondo; non tutti, certo, ma molti. (Qualcosa di simile a questa pesca miracolosa, nel senso di spoglio linguistico, si può ritrovare anche nei repertori di “Sine link- sine cura” di Untitled_io).
Era stato Pirandello stesso a definirsi “cacciatore di parole”, in una lettera inviata alla famiglia da Bonn, nel suo periodo di studi universitari. Leggeva, sottolineava alcune espressioni, le trascriveva a matita nei propri taccuini, tornava tempo dopo a ripassarle con la penna, ne faceva materiale per la propria scrittura. Nei taccuini di Pirandello si trovano spesso rielaborazioni di frasi esemplificative dei vari significati (usi) di una parola, citazioni tratte dai dizionari dell’epoca (in particolare il Tommaseo-Bellini). Credo che nei confronti del dizionario si possono sperimentare, oggi, diversi atteggiamenti psicologici:
1. chi ne avverte per tutta la vita la dimensione ammonitoria e latamente sanzionatoria, per la quale Lui – il Dizionario – sta lì a ricordarci quante poche parole conosciamo ed usiamo, monumento di carta che irride il parlante medio e gli errori del parlante medio, noi tutti in fondo.
2. Chi lo frequenta raramente, fedeli che vanno in chiesa due volte l’anno, Natale e Pasqua, perché sperimenta la rarità del dover trattare con le parole nell’esperienza quotidiana, si rivolge soprattutto alla sua dimensione dirimente: questa parola c’è, questa no, questa si scrive così, questa si scrive cosà. Ma qui siamo, forse, ancora fuori della categoria degli “scrittori” e teniamo i piedi saldamente dentro al cerchio insiemistico dei cultori dei “giochi a quiz” (l’aiuto telefonico de “Il Milionario” ha reinserito finalmente nel circo televisivo il Dizionario: – Voi a casa, che aiutate, avete 30 secondi per trovare il significato di “tarabaralla” -).
3. Chi il Dizionario lo detesta e patisce la sfida dell’impossibilità nel padroneggiarlo in modo totale, alla fine si arrende, perde ogni tecnica di riduzione utilitaristica, parziale, dei suoi territori alle proprie necessità.
4. C’è chi guarda al Dizionario come un romanzo, chi come un serbatoio di possibilità combinatorie, altri come un trampolino elastico, alcuni come una caverna platonica, altri ancora come un problema da traduttologi, come un affare da ermeneuti e filosofi del linguaggio impegnati a decidere cosa significa “bianco” quando dico che “la neve è bianca”, pochi come un contraltare delle enciclopedie nelle teorie del senso e del significato…
Se la Parola è creatrice perché libera il racconto, sembrerebbe non potere seguire il “clic narrativo”, il “fatto”. In altre parole, che rapporto c’è tra la costruzione di un lessico e la stesura di un racconto? In effetti, seppur in un modo sottile e sfumato, inafferrabile, anche una parola, una frase, un’espressione gergale può proporsi come “fatto” narrativo: un racconto che nasce da una parola. (una delle più belle poesie in dialetto di Cesare Zavattini s’intitola “Stringermi in una parola”).
Il raccontare si stringe in una parola?
E’ pur vero che possiamo avere anche un fatto che va in cerca delle parole per essere raccontato, che cerca, attraverso la caccia (o la pésca, e qui il sapore è evangelico dunque) e la consapevolezza dello scrittore, il lessico più adatto per essere rappresentata. Propongo, infine, “Pescatori di parole”, come nuova onorificenza al merito e, soprattutto, descrizione definita dei blogger.
Questo modo di parlare mi ricorda qualcuno, adesso cerco di farlmelo venire in mente, scartabellerò, penso a un critico, non a uno scrittore, ma naturalmente potrei sbagliare.
Grazie Colti@Sbagli.
un eccentrico signore austriaco
quagliodromo
il “Taccuino di Harvard”
mi sembra di aver sentito queste parole da una voce
..temperanza..ora mi piaci..come quando porti i tacchi a spillo..al posto delle solite Valleverde..apprezzo la tua ironia…attenta a maneggiar le quaglie..vi e’ pericolo di infezione..AVI-ARIA al tuo aquilone..!
Ah, ecco! Ho capito.
comunque le valleverde non le ho mai portate, il mio senso estetico è piuttosto alto:–))
Manolo Blahnik, semmai
.ahahah..rido divertito, finalmente..un intervallo..per quanto riguarda il tuo quesito..mi son firmato..pur mantenendo l’anonimato..anagraficamente non ho peso..
Neanch’io, caro, mezzo grammo;–))
…dopo l’intervento dotto..di cui sopra…mi e’ venuto un certo appetito..e mentre gli altri continuano a disquisire DI LINGUA..noi ci andiamo a inguattare in qualche trattoria fuori porta..sono un kultore delle opere di BLAHNIK….
Solo i veramente appassionati amano il cazzeggio, dieu reconnaitra les siens. chapeau, amico mio, vengo a inguattarmi virtualmente con te.
Marò, Pelliti, cheppalle! Pure il copiaeincolla su NI dei post che sul tuo blog non si caca nisciuno…
..Virtualmente?…Nella poesia “La Luna”, Borges narra la vicenda di un uomo che “concepì lo smisurato/progetto di cifrare l’universo/in un libro” e che, giunto alla fine del suo manoscritto, si accorge di essersi “dimenticato” di nominare la Luna. (“Que se avìa olvidado de la luna”). Prima di lanciarsi in una corsa enciclopedica e meta-letteraria per recuperare la memoria del suo personale rapporto con la Luna, in quella poesia Borges ci lascia un monito chiarissimo:
“La storia che ho narrato benché finta
può ben raffigurare il maleficio
di noi che esercitiamo il mestiere
di trasformare in parole la nostra vita.
Si perde sempre l’essenziale. E’ una
legge di ogni parola intorno al nume.
Non saprà eluderla questo riassunto
della mia lunga relazione con la luna”…tutto questo per dirti..perche’ aggiungere..VIRTUALMENTE..e NON SCRIVERE L’ESSENZIALE..esempio eccoti il mio numero di cellulare..PRENOTA !!
…DUETESTICOLI, ho da risparmiare le mie sinapsi,la ruota l’avevo gia’ inventata, posso riproporla essendomi firmato :-) o sei stato messo a lanciar segnali di fumo?…. avendo espresso un’opinione..rimani su quella..altrimenti dimostri semplicemente non aver di meglio tra le dita stai diventando VECCHIO PESANTE & intollerante..Comunque ti perdono per l’intervento insofferente e nel gergale diciamo scontato..In fondo siamo in tempi di continui saldi..:-) ti voglio bene…!.Dimenticavo…possiamo invitare pure Te alla gita fuori porta..la trattoria accetta i Pechinesi, che fanno BAU..BAU !…ho detto pechinesi..NON CANI..!!
Pelliti, sei il solito accattone, come ai tempi.
……ok :-) DUEMARONI…avendo origini Toscoromagnole..accetto la provocazione..ma poi la chiudo qui.! Credevo di averti regalato una Perla..ma haime’ mi confermi,leggendoTi, che regalare perle ai porci, non e’ tanto che si perdano le perle ma che si guastino i porci..! Con questo non voglio paragonar la tua persona al nobile animale…tu sei cosa ben diversa..sei una leccornia ..quella che a SPELLO..chiamano Palle del Somaro..e considerando il nick che ti sei scelto..fanno di te un prodotto D.O.P…..ti voglio bene ..spero averti donato non tanto una perla ma..un sorriso :-) !
Hai donato a te stesso ‘na figura de mmerda.
..MERDE..disse quel Tale..che passo alla storia..Merda mise in scatola L’Artista..perche TU possa gustarla leggendo..pure Barrico!
correzione pedante: “que se había olvidado de la luna”.
discussio terminata, si pensi al resto… ci si volga al cazzeggiar fuori contesto… a prendersi a sassate dritte in faccia… oppure a impiastricciarsi di vinaccia… ne son contento perché mi piace tanto… il rumor delle parole senza guanto
C’è davvero grande soddisfazione nel fare le cose. Si ha proprio la coscienza di operare bene, e la certezza che il tuo lavoro verrà capito.
Canzian, rendimi atto che pur con i miei limiti io ci ho provato, ma evidentemente c’era qualcosa che non ha stimolato l’interesse, forse gli autori scelti, più che l’operazione in sé. Forse quello che dicono della loro scrittura resta in superficie e non incuriosisce il lettore, non fa pensare abbastanza. L’idea in sé non è cattiva, ma se non produce frutti è inutile prendersela con i lettori avari, è più interessante chiedersi perché non ha funzionato.
La mia era un’autocritica.
A me sembrava piuttosto una lamentazione;–)
Ma non c’è bisogno di fare autocritica, non devi mica render conto del tuo operato alla banda-dei-quattro. C’è solo da chiedersi, se le folle vanno a Mantova, cosa è mancato non tanto nel florilegio come iniziativa quanto nei pezzi in sé? Perché nessuno ha raccolto la proposta?
Era un’autocritica, io mi critico quando mi rendo conto di profondere sforzi (maldiretti) per niente, o di parlare da solo (e al vento) come i matti, o di non aver capito una situazione. Derubrico questo mio montaggio nella categoria delle “gaffes”: ho frainteso un contesto. C’è un altro florilegio, che Biondillo dovrebbe mettere qui su NI credo domani, ma a questo punto mi sembra fuori luogo. Mi ritiro in buon ordine.
Volevo solo ringraziarti… iniziativa davvero lodevole!
“non ti curar di loro ma guarda e passa”
Questo sito è ancora attivo?
C’è nessuno?
Mi accorgo solo oggi, per fortuita ricerca su google e dopo mesi, che qualcuno si è divertito a mia insaputa a copincollare alcuni miei post e a far credere di essere me. La cosa non è molto simpatica, a mio modo di vedere, dato che l’espressione “colti sbagli” (sulla quale rivendico un minimo di copyright…) è riconducibile al mio blog ed alla mia persona. Lo so, sono piccole cose spiacevoli che in rete succedono. Vorrei autocertificare, però, che nessuno dei commenti firmati qui “colti@sbagli” è stato scritto dall’autore del blog “Colti sbagli” che sono io. Firmato: Matteo Pelliti. E inviterei chi finge di essere me a piantarla. Grazie.