L’ aereo
di Valerio Varesi
L’ultraleggero assomigliava a un triste uccellaccio notturno dal volo corto e pigro. Di quelli che cantano ai lumini dagli alberi dei cimiteri.
“Non trova che abbia un aspetto sinistro?” domandò il maresciallo toccandosi furtivamente attraverso la tasca dei pantaloni.
Il giovane sostituto procuratore annuì. Davanti a lui il piccolo velivolo maldestramente colorato di nero, si reggeva su quattro ceppi. L’elica giaceva in terra smontata. Era vero: ricordava certi corvi solitari che nella stagione delle nebbie finivano stecchiti e strinati, pancia all’aria e le ali aperte, sotto i tralicci dell’alta tensione. E una sventura l’aveva proprio portata: era stato ammazzato il suo costruttore: Furio Dall’Argine.
“Pensi, dottore, nemmeno poteva sapere se volava davvero o no” disse il maresciallo con la sua cantilena napoletana.
“I sogni sono sogni, maresciallo. E qualche volta si avverano” rispose il magistrato.
Il militare toccò il piccolo velivolo col telaio di tubi di alluminio saldati l’un l’altro da cicatrici lucenti.
“Per me ce l’avrebbe fatta” affermò. “Lo sa che era quasi ingegnere?”
“Appunto. Aveva buone probabilità che il suo sogno si avverasse” sibilò il sostituto procuratore coi pensieri che vagavano oltre la scogliera, verso il mare mosso, bianco come la schiuma di birra.
“Piuttosto – domandò – dove avrebbe potuto decollare?”
“L’unico posto è la piana dei capperi: ci sono trecento metri di strada bianca”.
Il magistrato annuì ancora movendo appena il viso e continuando a osservare il mare.
“E’ un posto selvatico, questo” sussurrò.
“Non ce n’è uno che lo sia di più” confermò il maresciallo.
Tutt’e due parevano affascinati da quella natura aspra e forte che aveva la voce del mare.
“Dice che non sopportava che lo lasciasse qui?”
“Dall’Argine s’era stufato. Aveva una donna sulla terraferma e forse anche quella… Gli scriveva un mucchio di lettere. E’ stata lei a mandargli i progetti. Il resto l’ha trovato qui nel vecchio deposito militare abbandonato. Come vede, per terminarlo, gli mancavano solo alcuni pezzi”.
“Cos’è che volevano fondare? Un’azienda agrituristica?” chiese il magistrato.
“Pare di sì” confermò il maresciallo. “Sono arrivati sull’isola vent’anni fa dopo aver girato molto vivendo alla giornata. Il mondo normale non faceva per loro. Figli dei fiori si definivano. Mi ha capito?” informò il maresciallo strizzando l’occhio come avesse scoperto una setta segreta.
Il sostituto procuratore gli lanciò un’occhiata ironica.
“Quest’isola primitiva è stata una patria accogliente: ci abitano solo una ventina di pescatori d’estate e il traghetto viene una volta alla settimana quando il mare lo consente. Hanno ristrutturato le case sotto il faro e le affittavano. Ma poi… Dottore, sarà anche vero che i sogni si avverano, però possono puree sfiorire. O diventare incubi”.
“Deve avere preparato giorno dopo giorno la fuga” ipotizzò il magistrato avvolgendo con lo sguardo l’ultraleggero di fronte a loro. “Si vede che l’incubo lo perseguitava da tempo”.
“Qualcosa non andava più, non s’intendevano. I pescatori li sentivano litigare e Dall’Argine passava interi pomeriggi al molo seduto su una roccia a guardare i mercantili che incrociavano al largo. Doveva essere dura abitare in così poca terra per uno abituato a viaggiare. Forse anche per quello…”
“Avevano trovato l’isola che non c’è… no?”
“Tutto ti stanca se sei inquieto d’animo. E poi quella donna… Qui ne passavano tante ogni estate, ma quella gli era rimasta appiccicata”.
“Chi era?”
“Una della sua terra. Una di su, dell’Emilia”.
“Crede che gli fosse venuta voglia di tornare a casa?”
“A cinquant’anni passa l’ultimo tram. Dopo essere stato tanto tempo lontano ti può prendere la smania di riscoprire quel che avevi e che hai rifiutato. Penso sia umano: lei ha trent’anni, può ancora avere figli e gli ha offerto l’occasione. Credo che lui avesse deciso di non resisterle”.
“E l’altra? La sua compagna? Aveva ancora voglia di sognare in questo posto fuori da ogni rotta?”
“Chissà” mormorò il maresciallo. “Quando viene a mancare uno… Forse ne aveva piene le palle anche lei, solo che, a differenza di Dall’Argine, non sapeva cosa andarci a fare sulla terraferma: la Miodini non ha parenti”.
“Non poteva sopportare di restare sola in questo silenzio” suppose il sostituto procuratore. “Già erano sfioriti l’ideale in cui credevano e l’amore…”
“E’ andata così, dottore” constatò il maresciallo.
“Quel che non capisco è quest’aereo. Non poteva prendere il traghetto?” borbottò fra sé il magistrato.
“Mica facile” constatò l’altro appoggiando un piede su un ceppo. “Più dei ricatti della Miodini penso che non sopportasse gli addii programmati, i saluti dal molo, le valige al piede, i ripensamenti dell’ultimo momento. Ci ha provato qualche volta, ma non ce l’ha fatta di fronte ai pianti di lei. Non era abbastanza cinico. Dopotutto, questa è stata la sua vita per vent’anni, il suo sogno, come dice lei.
Il cerotto fa male se si stacca poco per volta, meglio un colpo secco”.
“Capisco – rispose a bassa voce il magistrato – l’aereo parte, si stacca da terra… S’interrompe ogni continuità, è come cambiare mondo”.
“Dall’Argine aveva già preso contatti con gli aeroclub della terraferma e si era informato sulle rotte. Avrebbe volato a vista. Anche se… “ s’interruppe il maresciallo.
“Cosa?”
“Anche se non so se questo affare ce l’avrebbe fatta oppure… Ma ho l’impressione che il rischio dell’impresa rappresentasse agli occhi di Dall’Argine una prova da vincere. Di quelle capaci di darti la forza di ricominciare. Come quando uno scampa miracolosamente alla morte, mi capisce?”
Di nuovo il magistrato annuì. Ascoltare le spiegazioni del militare lo induceva a pensare.
“Una sorta di ordalia” affermò poco dopo tra sé, ma l’altro non capì.
“Penso che di fronte a questa scelta, non gli importasse più granché della vita. Almeno di quella che viveva qui. Ultimamente aveva confessato ai pescatori di sentirsi al confino. Sa che l’idea, all’inizio, era di fare di quest’isola una specie di comunità?” domandò il maresciallo. “Un piccolo stato indipendente con proprie leggi. Chi avrebbe potuto contestarlo? Fino a qualche anno fa arrivavano in tanti di quelli che sognavano la rivoluzione. Gente a tutte le stagioni. Ma anno dopo anno, sempre meno e negli ultimi tempi, Dall’Argine e la Miodini dovevano accontentarsi solo di turisti pieni di telefonini e creme solari. Tutti gli altri si sono convertiti alle comodità del denaro, agli alberghi tutto compreso” concluse sarcastico.
Il magistrato lo fulminò con un’occhiata caustica. Quindi si concentrò su quell’aereo che avrebbe forse permesso a Dall’Argine di spiccare il volo per inseguire un altro sogno o di cancellare i suoi incubi contro le rocce. Sentiva che in quel gesto potevano coabitare un profondo bisogno di speranza e una desolante disperazione. Ci voleva coraggio in entrambi i casi: a lasciare ciò che si era stati e a tentare di rinascere. La sua compagna, la Miodini, non possedeva tutto questo fegato e aveva avuto paura. Forse per questo l’aveva strangolato nel sonno quando si era resa conto che ormai l’aereo era pronto e che un giorno o l’altro Dall’Argine si sarebbe per sempre staccato da quello scoglio. Non sopportava di non aver più al fianco il compagno. Temeva di non poter mai più sognare. O forse di dover rimettere assieme i cocci.
“Quand’è che ha cominciato?” domandò il sostituto procuratore accennando all’ultraleggero.
“Un anno fa. Forse qualcosa in più”.
“Quella donna, quella emiliana… E’ quando ha conosciuto lei che ha cominciato?”
Il maresciallo scrollò la testa: “No, prima. Ch’io sappia è da qualche anno che medita la fuga. Ci ha provato anche con alcuni pescatori, quelli che hanno le barche col motore, ma nessuno di loro se l’è sentita di effettuare la traversata affrontando le correnti”.
“Lei, comunque, gli ha spedito i progetti?”
“Sì. E anche qualche pezzo che qui non si poteva fabbricare. L’elica, per esempio”.
“E il motore dove l’ha trovato?”
“Ha adattato quello di una motocicletta. Lo vede? – indicò il maresciallo – è un bicilindrico a due tempi da trenta cavalli. Bastano per far girare quest’elica” affermò con sicurezza alzandola da terra.
Il maresciallo si mosse, sfilò di fronte al magistrato e si avvicinò a un mobile simile a un comò. Tirò il primo cassetto in alto e ne estrasse dei fogli tenuti assieme da una grossa carpetta.
“Ecco i disegni” concluse mostrandoli al sostituto procuratore.
“Ma è il progetto di un modello telecomandato” si stupì quest’ultimo.
“Ipotizzava che bastasse aumentarne le dimensioni e apporvi qualche modifica per farne un ultraleggero capace di ospitarlo. Non era facile. Bastasse costruirlo in scala più ampia! Occorre tenere conto dei pesi differenti. Il motore, per esempio. Poi il pilota. Dall’Argine pesava ottanta chili”.
“Ne era consapevole?”
“Gli mancavano pochi esami per laurearsi in ingegneria. Qualcosa avrà saputo no? Però un conto è la teoria, un conto è la pratica. Adattava materiali di risulta, s’arrangiava. E in queste cose basta un piccolo squilibrio…”
“Dice che si sarebbe schiantato? Pensa che sia stata un’illusione anche solo pensare di andarsene da quest’isola?”
Il maresciallo allargò le braccia: “Di sicuro era un bell’azzardo non le pare? La piana dei capperi è un catino e se uno non si alza per tempo di almeno dieci metri va a sbattere”.
Il magistrato osservò le ali e la coda dell’ultraleggero coperti da lamiere sottili profilate con arte. Si potevano intravedere i colpi del martello che avevano piegato pazientemente il metallo. Il motore e parte del muso erano racchiusi in una carrozzeria tenuta assieme da rivetti. Solo verso la coda si mostrava l’anima in tubi dall’alluminio dell’ultraleggero e il tutto dava un’idea di artigianato primitivo.
“Dove ha preso tutta questa roba?” domandò il sostituto procuratore.
“Gliel’ho detto, dal magazzino militare in disuso” rispose il maresciallo. “Adesso che l’ha colorato di nero appare sinistro, ma i pescatori che l’hanno visto costruire pezzo per pezzo dicono che sembrava un’allegra distesa di coriandoli”.
Il magistrato provò a sollevare la coda: era davvero leggerissimo.
“Mah – borbottò – chissà se avrebbe retto ai venti. Mi dà l’idea che se lo sarebbero portato via”.
“Niente di più facile – aggiunse il maresciallo – il motore era anche usato. Poteva persino grippare in volo”.
“Forse l’ha ammazzato per niente. Dall’Argine si sarebbe ucciso da sé con quest’arnese”.
“Non sarebbe cambiato granché, non trova? E poi lei non poteva saperlo. La Miodini non se ne intende, è una che scrive poesie. E se a lui fosse andata fatta…”
“In tutti i modi sarebbe rimasta sola”.
“Ha perso la testa quando l’ha visto mettere in moto questo coso e fare le prove di rullaggio. Un baccano dell’altro mondo con l’elica che sibilava più del libeccio. Deve aver capito che era arrivata l’ora. E non dev’essere stato un bel momento. Non dico rimanere qui, in questo posto perso nel mare, ma constatare il crollo di tutto. E poi pensare che il meglio è già passato e che resta solo un lento scivolare…”
“Dall’Argine come giustificava tutto il tempo perso a costruire questo aggeggio?”
Il maresciallo lo misurò con un’occhiata paziente: “Gli raccontava che era il suo passatempo, che l’avrebbe usato per fare qualche giretto sull’isola a patto che fosse riuscito a costruirlo per bene”.
“Però l’altra ha mangiato la foglia” concluse il sostituto procuratore.
“Dall’Argine continuava a rassicurarla” riprese il maresciallo interrompendosi subito dopo per trovare le parole. “Ma la Miodini sapeva benissimo che tutto poteva accadere in un attimo, il tempo di spiccare il volo. Così viveva l’angoscia di sentire il rombo del bicilindrico ad ogni ora del giorno. Ultimamente, Dall’Argine lo metteva in moto spesso per essere sicuro della sua efficienza e ogni volta lei correva come una pazza giù al molo temendo che partisse. Col traghetto era diverso. Arrivava solo una volta ogni sette giorni e le lasciava il tempo di dissuaderlo. Sapeva su che tasti premere: gli ideali comuni, un pezzo di vita assieme, la paura di diventare vecchi in solitudine. Dall’Argine non sapeva resistere, ma voleva andarsene lo stesso. Credo che sentisse una grande resistenza anche dentro di sé. Al punto che poteva farlo solo con questo” terminò il maresciallo battendo più volte il palmo sulla carlinga dell’aeroplano che suonò come una pentola vuota.
“Già – sussurrò il sostituto procuratore – un colpo d’ala e via”.
“Dottore – riprese il militare irrigidendosi un poco – io credo che la vera vittima di tutto quel che è accaduto sia la Miodini”.
“Cosa fa? Inverte i ruoli? L’ha strangolato no?” affermò il magistrato tentando di celare il dispetto di chi aveva capito perfettamente.
L’altro abbozzò un sorriso: “Non mi fraintenda. Dal punto di vista giudiziario è tutto chiaro, ma se la cosa la si guarda sotto il profilo umano chi sta peggio è chi è sopravvissuto”.
“Lei dice? Questa è viva, l’altro è morto”.
“Viva sì, ma come? Credo che abbia meno speranza di quella che può possedere un morto. Non c’è nulla che abbia retto nella sua esistenza. Deve avere dentro un’enorme frana come una mutilazione. E poi, per quel che conta, la patente di assassina”.
“Di sicuro dei due era la più disperata, la più impaurita. Sennò non avrebbe agito così”.
“Come sempre il più fragile è chi non smette di sognare” disse il maresciallo osservando il susseguirsi delle onde. “Mentre Dall’Argine usava il martello e piegava i tubi d’alluminio, l’altra riempiva taccuini di versi”.
Il magistrato alzò le spalle: “Ognuno ha il suo modo di vincere la sofferenza. Non dimentichi che Dall’Argine stava rischiando la vita. Sa meglio di me che con questo affare aveva tre quarti di possibilità di schiantarsi. O di finire in mare nel corso della traversata”.
“Credo ne fosse consapevole, ma che, come le ho detto, non gliene importasse granché”.
“E nemmeno, forse – replicò il magistrato – s’illudeva sulla prospettiva di mettersi assieme a quella donna, su al nord, e di avere dei figli. Ma gli serviva per tirare avanti. Si passa da un’infatuazione all’altra come dai pioli di una scala”.
“E alla fine si spicca il volo” concluse il maresciallo.
Il sostituto procuratore lo guardò per qualche istante mentre il rombo del mare li sovrastò.
“Beh, procediamo col riconoscimento del cadavere” disse scrollandosi di dosso l’inerzia pensosa sopraggiunta all’improvviso. “Tutto il resto non ci riguarda”.
(Pubblicato su “Il Giallo Mondadori” – 2004. Foto: www.repubblica.it)