Tutto il mondo…
di Nancy Spector
traduzione di Mattia Paganelli
[Ho pensato di tradurre questo articolo apparso su Freeze di Aprile perché parla di argomenti che mi interessano nonostante non li condivida completamente, ma che trovo comunque stimolanti. Mi piace anche metterlo in parallelo all’articolo di Carla Benedetti (‘Concentrazione totalitaria di un’idea di Arte’), apparso su Il Primo Amore, perché credo ne svuoti il senso: la critica da lei mossa sarebbe giusta se non fosse indirizzata a una collezione di artisti che ormai non possiamo più considerare ‘contemporanei’, e che sono dunque assimilati nel sistema commerciale e museale in modo relativamente inoffensivo.
Mi scuso per lo stile brutalista della traduzione. m.p.]
TUTTO IL MONDO…
by Nancy Spector
L’esibizione di Robert Rauschemberg ‘Combines’, recentemente aperta al Metropolitan museum of Art, NY, è un glorioso testamento dell’esplosiva visione protopop dell’artista. Ripercorre la decade 1954-64 quando l’artista sfondò la superficie piana dell’immagine per abbracciare il flusso e la molteplicità della vita quotidiana. Se da un lato l’energia creativa di Rauschemberg e il suo frantumare paradigmi non si possono discutere, mi colpisce molto quanto naïve il lavoro appaia oggi. I ritagli di giornale sbiaditi, i vecchi tessuti decorati, i fili di ferro arrugginiti, le piume rinsecchite degli uccelli impagliati hanno dato ai collages tridimensionali l’aspetto di reliquie; emblemi di un momento allora radicale, quando il mondo reale prometteva di penetrare e modificare per sempre il regno estetico. Ma era più l’attitudine che ne derivava che la condizione fisica delle opere che mi ha fatto pensare che in fondo questo tipo di lavoro non è riuscito a cambiare niente oltre l’inventario dei materiali disponibili per creare immagini o oggetti. Gli artisti non dovevano più attenersi a rappresentare il mondo, potevano usarlo come riserva di materiali per il loro lavoro. Il mondo, ad ogni modo, ne è rimasto piuttosto immutato.
Approssimativamente nello stesso periodo in cui Rauschemberg accoppiava copertoni e capre d’angora sbrodolate di vernice a NY, in Europa un gruppo di artisti, cineasti, e teorici a loro volta ricercavano l’intersezione tra arte e vita, ma con fini molto più politici e critici. Debord, Bernstein, Jorn, Constant Vaneigem, membri dell’Internazionale Situazionista, pensavano che l’arte una volta liberata della sua condizione di bene di consumo, potesse permeare e riconfigurare l’esistenza quotidiana. Le loro strategie comprendevano l’appropriazione sovversiva della comunicazione di massa, interventi architettonici, e una tattica eccentrica di navigazione attraverso lo spazio urbano pensata per interferire con il normale flusso del capitale e della classe che normalmente vi si applicava. In uno dei primi manifesti Debord invitava a creare situazioni piuttosto che produrre discretamente oggetti, con l’obiettivo della rivoluzione contro i valori borghesi (…)
Ho ripensato a Rauschemberg e ai Situazionisti recentemente come alle due (per quanto improbabili) facce della stessa medaglia nello sforzo di comprendere i precedenti teorici di quella che sembra essera una tendenza emergente oggi (o per lo meno un interesse condiviso da alcuni artisti) di esplorare la confluenza di arte e vita. Si combinano le incorporazioni di Rauschemberg con il programma situazionista della dissoluzione dell’arte nell’esperienza vissuta, per produrre un lavoro che si infiltri nel mondo e sottilmente alteri la realtà riscrivendone i paradigmi culturali (‘cultural narratives’). Ponendo il loro lavoro decisamente nell’ambito quotidiano, questi artisti creano ‘real fictions’ con l’intenzione di modificare il tessuto stesso del modo di intendere le dinamiche della società. Queste ‘fictions’ sono spesso presentate come eventi, ma non è tanto il loro aspetto di performance, quanto il modo in cui sono ricordate, discusse e disseminate nella coscienza collettiva del pubblico che costituisce il nucleo concettuale di ciascun progetto. In altre parole, gli artisti producono miti contemporanei, con il materiale del mondo reale, convertendo l’ordinario in qualcosa di memorabile se non addirittura eccezionale.
(…) Nel 2002 Francis Alys ha mosso una montagna. Per il suo contributo alla terza biennale Ibero-Americana a Lima, l’artista diresse 500 spalatori volontari allineati lungo la base di una duna di circa 1600 piedi a spostare abbastanza terra tanto da cambiare la posizione della duna, anche se di pochi pollici. Questo progetto “Quando la fede muove le montagne”, era nato in risposta al disastro sociale abbattutosi sul Perù grazie alla decade di presidenza Fujimori. In un momento di tale profonda deprivazione e desolazione (Alys) ha voluto creare un gesto poetico anche se estremo che potesse riverberare oltre i confortevoli confini del pubblico artistico. Di qui, Alys ha dato agli abitanti di Lima una ‘allegoria sociale’ da raccontare ripetutamente fino a diventare materiale leggendario, la storia del giorno in cui la terra si mosse. Anche se esistono fotografie e filmati che documentano questo intervento effimero, la sua artisticità, secondo Alys, può essere realizzata solo attraverso la sua recitazione e circolazione come narrazione. (Alys) intende questo processo come la fabbricazione di un mito che, piuttosto che essere la perpetuazione di valori politici o culturali imposti dall’alto, richiede la partecipazione e interpretazione diretta del pubblico, che deve determinarne il significato in relazione alla propria esperienza.
In modo simile anche se autonomo, Pierre Huyghe genera a sua volta una catalisi. Con il progetto ‘Streamside Day Follies’ (2003) inietta nuove narrazioni nel paesaggio culturale, permettendo poi che si sviluppino autonomamente e che condizionino la realtà in modo imprevedibile. (…) (Streamside Knolls: è una ‘gated community’ recentemente costruita nella suburbia ‘rurale’ dello stato di New York. ndt). Interessato a creare una sorta di evento ripetibile, una performance che potesse sopravvivere alla sua intrinseca esistenza effimera venendo ri-recitata più volte, Huyghe ha collaborato con i residenti di Streamside Knolls per instaurare la celebrazione del giorno della fondazione. Ha delineato i parametri per una festa collettiva che includesse: musica, discorsi, maschere, rinfreschi e una parata, ma ha lasciato che i partecipanti fossero in controllo della coreografia. Parte competizione, parte pic-nic, l’evento che dura tutta la giornata costituisce il nucleo del film che Huyghe ne ha tratto, ma questa è solo una iterazione di quello che ora sta diventando una tradizione annuale della comunità, tradizione che senza dubbio muterà con il tempo. Il progetto di Huyghe per Streamside Knolls include anche la costruzione di un centro di aggregazione (community centre) progettato dal suo collaboratore, l’architetto François Roche. Questo edificio servirà per le festività, qualunque forma esse prenderanno. Per Huyghe la ripetizione dell’evento è fondamentalmente più importante dello stesso atto originale. Questo rappresenta uno scivolamento dall’estetico nel reale, per Huyghe questo spostamento ha equivalenti nel clima politico contemporaneo, in cui la realtà è spesso un’invenzione, i commenti su di essa sono predeterminati e la sua immagine strettamente controllata.
Quando Aleksandra Mir ha presentato il suo atterraggio sulla luna, su una spiaggia olandese nel 1999, era profondamente consapevole del ruolo che i media possono giocare nella diffusione e conservazione di un evento altrimenti effimero. L’aspetto performativo di ‘The First Woman on the Moon’ va dunque ben oltre il momento di happening fino a includere una campagna di pubbliche relazioni estremamente aggressiva, sponsor di aziende di altissimo livello, una copertura informativa, e una presenza continua nel tempo grazie all’elaborato e dettagliato sito dell’artista. Nel primo giorni di quest’impresa per esempio, Mir spese tutto il suo budget per una pagina di pubblicità su Artforum (importante mensile di arte contemporanea americana, ndt) per annunciare la notizia del suo progetto. Programmata per coincidere con il trentesimo anniversario del primo atterraggio sulla luna – come un correttivo femminista a uno dei principali successi scientifici del secolo- la performance inclusiva di architettura del paesaggio osò proporsi come qualcosa di reale. Il fatto che Mir sia riuscita ad assicurarsi la sponsorizzazione di Hassenblad, l’azienda svedese che aveva fornito alla NASA le apparecchiature fotografiche in dotazione all’Apollo 11, mostra quanto alcuni partecipanti fossero disposti a credere alla finzione. Per Hassenblad l’associazione con la luna, che l’atterraggio fosse vero o meno, reiterava il loro legame, sempre ben pubbicizzato, con l’esplorazione dello spazio. Per Aleksandra Mir, che portava al collo una 35mm panoramica uguale a quella usata da Neil Armstrong, l’inclusione della macchina fotografica-prodotto Hassenblad ha fornito alla narrazione che andava costruendo una trama di autenticità.
L’evento in sé, che fu documentato da numerose televisioni e giornali olandesi, ebbe luogo nell’arco di una giornata. Una porzione di spiaggia venne trasformata in paesaggio lunare (con l’aiuto di numerose ruspe, ndt); bambini giocavano nei crateri, che alla fine si trasformarono in bacini di marea; percussionisti hanno provveduto alla musica di sottofondo; e al calar del sole Mir ha piantato una bandiera americana sulla duna (artificiale) più alta dichiarandosi la prima donna sulla luna. Dopo la cerimonia il paesaggio è stato livellato, cancellando così ogni prova fisica dell’esperienza, salvo, Mir dichiara ‘per la memoria e la storia da raccontare alle generazioni future’.
La storia dell’atterraggio di Mir sulla luna continua a risuonare in circoli culturali sempre più ampi sette anni dopo aver avuto luogo, da un’apparizione cammeo in un telefim lesbico (sic) ‘The L Word’, all’appropriazione da parte dei teorici del complotto nel continuo dibattito sulla veracità della vera missione dell’Apollo 11. Per Mir queste citazioni sono il luogo in cui l’essenza del suo progetto risiede. Come per Alys e Huyghe, il suo lavoro esiste nel tempo più che nello spazio; come loro mette in moto dei processi, e i risultati devono essere trovati, interpretati e riraccontati dal pubblico per aver un significato artistico. (…)
Huyghe ha descritto questo materiale temporale come ‘time score’ (partitura, o programma in questo caso, ndt), che è uno scenario per una situazione che può avere un effetto locale sulla realtà. Il modello che invoca è intrinsecamente teatrale; la sceneggiatura o partitura delinea una produzione o una performance che promuove, o addirittura si basa su, la ripetizione e la citazione. Ma al contrario del teatro in cui le rappresentazioni possono essere recitate e replicate all’infinito, un’opera che che funzioni come ‘time score’, può anticipare, ma non determinare il suo futuro. Una volta presentato e documentato (in forma di film, video o fotografia) il lavoro è ripresentato attraverso altri media, particolarmente quelli che sono basati sulla trasmissione orale come la narrazione, il pettegolezzo o la mitizzazione. Questo ripetersi della narrazione nel tempo permette alla creatività di deformare le interpretazioni, di esagerare e di frammentare; un genere di incompletezza che permette al pubblico di assumere il controllo dell’arte. La natura mutevole propria delle tradizioni orali si oppone all’impulso di archiviare con ordine proprio della cultura occidentale che raccoglie e organizza le tracce materiali del nostro passato collettivo (…). Quando la storia continua a cambiare diviene impossibile classificarla e inserirla in un ordine cronologico. Così facendo, Alys, Huyghe e Mir creano lavori che sono sovversivi e antiautoritari; tentano di anticipare come la storia verrà raccontata, non lasciando tracce, ma influenzando in cambiamenti nel futuro.
Pubblicato su Freeze, Aprile 2006, by Nancy Spector, Curator of Contemporary Art e Director of Curatorial Affairs presso il Guggenheim Museum di NY
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In quanto (sedicente) artista, queste descrizioni di “trovate” mi lasciano in uno strano sentimento di ambivalenza. Da una parte mi irrita un poco l’enfasi, la patina di concettualità proiettata sopra ad operazioni che – in fondo – avevano già raggiunto il loro vertice “concettuale” in Duchamp, ed in seguito sono state semplicemente lanciate nell’universo-mondo alla ricerca di pretesti da sfruttare con crescente abilità commerciale. Dall’altra, qualcosa in me vorrebbe davvero credere che basti la trovata giusta, fatta a tempo debito nel posto giusto, a donare senso e magari anche successo ad una impresa artistica. Purtroppo le contraddizioni sono troppo stridenti, la balla troppo palese. “Così facendo, Alys, Huyghe e Mir creano lavori che sono sovversivi e antiautoritari” scrive con la consueta compiacenza un “Curator of Contemporary Art e Director of Curatorial Affairs” presso il Guggenheim Museum di NY, ovvero una persona che siede sopra un’istituzione sommamente autoritaria, che tenta nientemeno che il monopolio mondiale della produzione dei “miti contemporanei”, o almeno di una parte significativa di essi.
PS – riguardo all’articolo citato di Carla Benedetti, penso che abbia semplicemente ragione. Sono cose che si sanno (persino sul Corriere Eventi di sabato ci sono interessanti ammissioni) ma che pochi hanno interesse a sviluppare veramente, in tutte le loro determinazioni.
Sono d’accordo con Wovoka e con le ormai poche persone che frequentano l’arte contemporanea come pubblico. Trovo che questo articolo confermi completamente quanto la Benedetti ha scritto in “Concentrazione totalitaria di un’idea di arte”, e mi suona strano che una voce così chiara si alzi da una critica letteraria mentre chi vorrebbe fare arte cerca di sminuirla.
Mi piacerebbe avere la pazienza di scrivere altre cose oltre a quelle di Wovo su questo fenomeno della “copy-art” cioè di autori che sono ottimi copy pubblicitari, ma non ne ho. Torno a leggere Kafka. Ero alla frase «Il sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto addietro. Questo è il lato tremendo della vita, la commozione dell’arte», pag 1074 dei diari. Qui invece, proprio come nella pubblicità, si producono sogni da poco per confermare la realtà economica.
L’eterno ritorno di Barbieri, che ogni sei mesi annuncia al mondo i propri esodi, e poi invece è sempre in Egitto. Fa la scena madre sbattendo la porta, ma intanto ci infila un piede dentro, manco fosse un rappresentante d’aspirapolveri. Non manca mai di rimarcare che i blog non lo meritano, ma poi s’offre ancora una volta. Elì, elì, lama sabactani! E intanto, zac!, un nuovo erudito commentino.
Caro malevolo anonimo, non sono più un commentatore di nazione indiana nel senso che chi lascia tre post in due mesi direi che non lo è. Sono intervenuto solo per cose che mi stavano molto a cuore: il diritto-dovere del voto, una foto di Marco Pesaresi e questa cosa sull’arte contemporanea che coinvolge anche la Benedetti. Non sono un commentatore anche perché quando leggo qualcosa su NI quello che penso mi viene da tenerlo per me, prima invece era l’opposto, tendevo a condividere pensando che servisse a non so che.
Ciao Andrea, lieto di risentirti. Aggiungerei che la strettissima dipendenza (simbiosi) che si configura in quella cosiddetta “high art”, tra l’artista miracolato ed il suo mecenate (come Hirst con Saatchi etc) sembra stridere irrimediabilmente con un ideale di autonomia e indipendenza di giudizio, ovvero con la dimensione “intellettuale” dell’impresa artistica, contrapposta a quella dello spettacolo. Ed è proprio la dimensione intellettuale che viene lì semplicemente “dichiarata”, senza che ad essa si colleghi mai alcun autentico sviluppo. Mi sembra quasi che questo tipo di artista compensi psicologicamente questo ritorno al ruolo di “primo dei maggiordomi” sfoderando una sospetta aggressività nei confronti del pubblico, spesso preso a colpi di ironia, se non di vero e proprio disprezzo. Trovo inoltre davvero interessanti gli sforzi di “legittimare” questo stato di cose (cioé quello di una ristretta pseudo-avanguardia pienamente “integrata” alla razza padrona) da parte degli addetti ai lavori, per esempio rifacendosi ai rapporti tra un Michelangelo ed un papa. Ma il papa non avrebbe mai potuto screditare artisticamente Michelangelo, né di fatto “crearne” la fama dal nulla, come si può invece fare benissimo oggi. Tuttavia bisogna anche ammettere che se il “sistema” non riesce a giustificare davvero le proprie pretese legittimanti in campo artistico – regredendo di fatto alla vecchia ostentazione di potere economico e simbolico – gli outsider non sembrano ancora essere in grado di sviluppare dei criteri di legittimazione alternativi, e paiono “strutturalmente” costretti nella posa degli invidiosi, dei tenuti fuori dal luccicante festino. Conviene rendersi conto che è proprio così che si appare :-)
@wovoka
er discorzo artisti-arte-media-mercanti-istituzioni artistiche-critica-pubblico è tra i più complicati che oggi si possano fare e perciò non consente scorciatoie, giudizi en passant, eccetera.
è per esempio non corretto dire che hirts è stato creato da saatchi, o miracolato da lui.
hirst è artista autentico, nel senso che il suo lavoro nasce da un percorso e da una visione originali, eccetera.
certamente l’ncontro con saatchi è stato determinante per la resa mediatica del suo lavoro, ma la qualità e la rilevanza c’erano anche prima.
saatchi sta a hirst come, metti peggy guggenheim sta a ernst, a pollock, eccetera.
michelangelo ha ricevuto molto, in termini mediatici e di rilevanza delle commesse, da giulio secondo, per dire, anche se giulio secondo l’ha scelto per stima e a sua volta ha ottenuto da lui molto.
e poi l’arte oggi ha uno statuto completamente diverso, da allora.
anch’io come vedi semplifico, arronzo.
carla benedetti semplifica anche lei, ma in più moraleggia.
il mondo, anche (soprattutto) quello dell’arte, è “grande e terribile”.
Credo che la sintesi sia lecita se, quando richiesto, si è comunque in grado di ritornare all’analisi che l’ha prodotta. Tutto è complicato, soprattutto per un certo tipo di sguardo: “le macchie della pelle sono una mappa delle costellazioni incoruttibili” …
Per me Hirst è stato realmente miracolato da Saatchi. In tutta la sua produzione, rispettabile ma alla pari con migliaia di altri artisti dello stesso genere, non ho riscontrato alcuna “coordinazione” superiore che mi potesse suggerire la presenza di livelli di integrazione, o disintegrazione, psico-fisica particolarmente interessanti. Una produzione standard, che “concettualmente” non aggiunge una virgola a Duchamp, ma semplicemente la varia raccogliendo qualche suggerimento ambientale. Se fosse opera di un artista “ordinario” la troverei interessante, nella cornice entro la quale mi si presenta la trovo ridicola – ma non in senso bonario, affatto.
Queste mie valutazioni, dettate da studio, confronto, storia personale, non inficiano minimamente le tue. Vedo che sei sensibile ai “cambi di statuto”, dunque ad una certa narrativa che è stata intessuta intorno all’arte. Non posso valutare quanto tu sia andato effettivamente a fondo in questi problemi, ti dico solo che secondo me per un testo del tipo “la linea analitica nell’arte moderna” di Menna oggi, sufficentemente distanziati da certe ebbrezze intellettualistiche, ci sarebbero a disposizione tutti gli strumenti necessari ad un debunking impietoso, che metta in evidenza la vera e propria parodia della scienza che si è storicamente tentata sull’arte, con quanta buona fede non saprei.
Non credo tanto nell’andare “a fondo”, non credo dunque nella “profondità”.
Credo piuttosto nell’inferire drizzagni fluidificanti, sintetici, nei meandri di queste considerazioni, sempre difficili.
Mi voglio limitare solo ad Hirts.
Non lo conoscevo granché, finché l’anno scorso non ho visto la sua grande mostra personale et retrospettiva di Napoli.
Mi ha molto colpito per l’efficacia e la solidità della sua ricerca/meditazione – spietata – sulla malattia, la morte, corruzione, la forma biologica in genere.
So che a molti non ha fatto né caldo né freddo, ma io ne sono rimasto quasi folgorato.
Le opere di Hirst – che non nega affatto di essere un artista fortunato – sono anche molto costose, tecnicamente complicate, difficili da realizzare, dunque costose e per l’artista costituiscono ogni volta una specie di livida immersione totale nel disgusto della corporalità, animale e non.
Qualcuno ha scritto che si usciva da quella mostra contenti di essere ancora vivi.
Concordo.
costoso & costoso.
chiedo scusa per le ridondanze confuse.
volevo dire che l’arte di hirst, come quella di kapoor, di serra, di tanti altri, richiede investimenti di denaro, dunque soggetti economici, quasi imprenditoriali, interessati ad investire.
il binomio arte e soldi, sempre.
Mattia ha un (cronico) problema di computer, per cui non riesce a commentare su NI. Mi ha mandato queste righe, che sono una risposta ai primi CINQUE commenti qui sopra. Risponderà più avanti alle osservazioni successive. Grazie, AR.
“Questi commenti mi confortano. Ho fatto bene a tradurre questo articolo.
Prima di tutto per la sua natura informativa, ma non solo.
Che l’arte sia profondamente legata al danaro e al potere é palese, da sempre. Illudersi sulla nobilta’ dei mecenati aristocratici del passato vuol solo dire non essere informati. Chiunque si misuri con la creativita’ seriamente lo ha sperimentato. Anzi probabilmente una delle ragioni che ha spinto la ricerca di questi e altri artisti, me incluso, a diffondersi nel discorso quotidiano e ad utilizzarne il vocabolario é il bisogno di sottrarsi almeno in parte alla mercificazione, al ciclo produttivo studio-galleria-salotto (tra l’altro ormai alquanto stantio); non vedo come questi interventi pero’ siano piu’ commerciali degli atteggiamenti produttivi tradizionali.
Personalmente preferisco Alys e Alexandra Mir. Huyghe mi pare un ottimista superficiale, senza ironia né doppiofondo, forse quello che piu’ si avvicina al trucco della ‘copy-art’; o perlomeno a un gioco che ha bisogno davvero di tanta fiducia per funzionare. Ma non si tratta comunque solo di ‘trovata giusta’, Spector descrive la possibilita’ di giocare con i paradigmi stessi di una cultura, di promuovere l’azione contro la produzione, e non da ultima, la possibilita’ di diffondere la creativita’ oltre il perimetro dell’aura dell’artista (ricordate Beuys? ‘La rivolzione siamo noi’? ‘O tutti gli uomini sono artisti o non lo é nessuno’?).
Se la conclusione di Spector suona senza dubbio un po’ ridicola, o per lo meno non enunciata dal pulpito piu’ adatto, a chi denuncia il sistema come negativo per principio chiedo come penserebbe di diffondere il proprio lavoro? con chi vorrebbe comunicare? in quale arena? E’ un idealismo improduttivo immaginare di slegare la creativita’ (anche nel suo aspetto piu’ ludico) dalle costrizioni della realta’. Io non difendo le grandi, ricche collezioni nelle citta’ museo, piuttosto penso che da una parte siano divenute in un certo senso irrilevanti, dall’altra (prendendo a prestito la polemica su Aldo Nove di ieri) che non sia sbagliato andare in TV, anzi dovremmo andarci tutti.
Mattia Paganelli”
@tashtego
Considero intangibile la tua personale esperienza con l’opera di Hirst e la considerazione per l’artista che da essa tu derivi. Si tratta di un’alchimia a due: le tue irriproducibili disposizioni da una parte, le strutturazioni di Hirst dall’altra. Quando andiamo descrivendoci a vicenda simili esperienze cerchiamo implicitamente di dipanarle sulla griglia di fattori più oggettivi, o inter-soggettivi, con il rischio di ucciderle, o perlomeno di comprometterne l’attraente organicità. A me la tua descrizione parla, soltanto mi viene spontaneo aggiungerci alcune correzioni. Per esempio riguardo alle difficoltà tecniche: spesso questo tipo di arte è caratterizzata da gigantismo gratuito: sembra quasi che laddove la differenziazione del gesto propriamente umano non sembra più in grado di operare una credibile differenza, vi debba subentrare qualsiasi altro criterio faccia allo scopo, ovvero condurre ad opere che, per costosità o qualsiasi altro vincolo uno possa escogitare (che so, la prossimità a qualche “star”) l’artista comune non possa perseguire. Quante idee alla Christo, alla Cattelan e compagnia bella possiamo più o meno freddamente escogitare? Vi sarà davvero una differenza di essenza tra queste trovate che rimangono nel possibile della nostra testa e le trovate rese concreto al miracolato, spesso con un’ostentazione di spreco che sembra tentare di raccattare dagli arcaici meccanismi del potlatch un minimo di effetto simbolico? Hirst ha a disposizione molti mezzi, e mostra la fantasia e creatività ordinaria di un discreto artista. Sarebbe sciocco dire che ogni sua cosa è insignificante, ma sarebbe altrettanto sciocco considerare arte tutto ciò che fa, anche quando scimmiotta semplicemente Duchamp. Non è Hirst che mi turba, ma il fatto che venga efficacemente fatto passare come il più grande artista contemporaneo.
Mi piacerebbe avere tempo per risponderre in modo esteso, cerchero’ di essere breve.
Il motivo per cui ho appaiato questi due articoli è che ritenevo uno informativo e l’altro disinformato (e anche un po’ superficiale) e i commenti qui sopra confermano la validita’ dell’informazione contenuta nell’articolo di N. Spector. Saatchi, Hirst e compagni sono fatti di quindici anni fa, e non voglio entrare nel merito della validita’ del lavoro in sé.
Se non altro i tre episodi descritti da Spector non sono beni di consumo, hanno un’esistenza effimera e sfuggente; richiedono una partecipazione tale che porta il ‘pubbllico’ molto oltre la semplice meraviglia per le cose strane o grandi menzionate sopra, richiede di pensare.
Invito anche a non cadere nella ‘cultura del pignisteo’. Se la creativita’ decide di espandersi nelle regole della comunicazione è solo perché è viva e continua ad evolversi. Jeremy Deller, rispondendo a un giornalista che provocatoriamente chiedeva come mai non ci fossero matite o colori nel suo studio, disse che se si sono evolute la medicina, la tecnologia, l’informatica perché non doveva farlo l’arte. È un vivo invito a pensare oltre i termini del diciannovesimo secolo, entro cui ricade appieno l’episodio di Hirst (chi vi assimila Richard Serra fa due errori: primo non sa da dove viene, secondo non considera che Serra appartiene a parecchie generazioni fa ed è naturalmente assimilato dalle istituzioni).
Semmai il discorso che non si affronta spesso è la riduzione dell’arte a intrattenimento, quello per i ricchi sofisticati che di sola televisione si stufano. E peggio ancora, la cancellazione di fatto l’aspetto creativo ludico della ricerca artistica.
I rapporti con il potere e il danaro sono da sempre stati parte dell’arte, non vanno rifiutati, vanno usati (al meglio). La critica al sistema si puo’ fare solo con il suo stesso linguaggio. E naturalmente con estrema consapevolaezza e onesta’.
Sebbene intelligenti, le considerazioni di Mattia dimostrano l’autoritarismo connaturato a questo “sistema”, che egli utilmente si presta (in questa nostra finzione dialettica) a difendere: se riferisci i tuoi esempi a fatti di 15 anni fa, ovvero se non hai seguito meticolosamente tutti i meandri di vicende peraltro intessute di caso ed arbitrarietà, allora sei “out”, fuori da un discorso al quale per altro sei chiamato a partecipare soltanto in forme ben precise, caratterizzate dalla passività, denudandoti o facendo qualche altra stramberia sotto il comando del creativo di turno (ma così potrai dire un giorno “io c’ero!”).
Così Mattia può accusare Carla, se ho capito bene, di superficialità e disinformazione, e questo dimostra a mio parere tutto l’assurdo della situazione. Perché la Benedetti dispone evidentemente, oltre alle pure “descrizioni” in input, anche degli strumenti concettuali necessari a demistificare certe narrative preconfezionate per la massa, anche se magari alla fine ricadrà lei stessa vittima di narrative più sottili e sofisticate, probabilmente ingannarci a differenti livelli di sofisticazione è semplicemente il nostro destino. Quanto al piagnisteo, beh farà parte anch’esso del gioco no? Io stesso finché si tratta di soldi privati ho ben poco da obiettare.
A questo punto non posso esimermi dal domandare in quale ruolo ci si misuri con il mondo dell’arte?
Non si tratta di essere all’ultima moda, un linguaggio che costantemente cresce su se stesso richiede continua informazione. Il lavoro è molto spesso risposta e riflessione su quello che si è visto. Quando sulla scena arriva una cosa nuova, la si puo’ criticare o apprezzare, ignorarla equivale a escludersi. Sempre partendo dall’idea di voler partecipare alla societa’ in cui si vive.
Ad esempio scegliere, di fronte a tutte le opzioni disponibili, di dipingere (non di continuare a dipingere) puo’ essere molto opportunista (mercato) o molto coraggioso (è quello che ti piace fare).
Quindi ripeto: in che ruolo ci si misura con l’arte? Passante o partecipante? Ci giochi o ti ci giochi la vita? La differenza sta tutta li secondo me.
Inoltre ho l’impressione che la critica che mossa alle ‘novita” esposte sopra sia piu’ ideologica che motivata. Mi pongo un’altra domanda a questo punto: non è per caso che la nostra mentalita’ con radici a sinistra, non mi sento piu’ di chiamarlo pensiero, si sia scollata dalla produzione e dall’innovazione culturale? Non è magari che in quanto famiglia perdente screditiamo comunque quello che non siamo noi a inventare?
È vero che certi artisti hanno fatto all’arte quello che altri personaggi hanno fatto alla democrazia, ma non è lamentandosene che li si contrasta, ma con la qualita’ del lavoro che si produce. Io insisto, gli esempi proposti nell’articolo di Spector sono estremamente validi. Senza dubbio le istituzioni offrono la possibilita’ di realizzare progetti molto piu’ consistenti che un singolo, ma serve comunque un’idea da cui partire. E la figura dell’artista che è mutata tante, volte e spero continui, negli ultimi tempi per alcuni ha assunto il carattere di generare disordine. Io spero vada molto avanti in quest’intenzione.
E per concludere: non si puo’ imporre ad un artista di lavorare in modo politicamente corretto. Ciascuno fa quello che piu’ lo diverte (sottolineo l’aspetto del piacere del lavoro). Se alcuni entusiasmano interferendo con la comunicazione di massa, ne hanno tanto diritto quanto chi adora l’acquarello (tecnica nobilissima!). Bisogna pero’ saper riconoscere cosa ci piace fare, è questa quella che piu’ sopra chiamavo onesta’ (con se stessi).
Grazie per l’opportunita’ di discuterne
Assimilavo Hirst a Richard Serra a Kapoor, solo per il costo delle installazioni.
Non per altro.
L’arte non è intrattenimento, o non solo intrattenimento, ma quella contemporanea è costretta a competere con l’intrattenimento.
È anche costretta a competere con i media, a combattere per la visibilità in un mondo talmente invaso da immagini che oggi si può davvero affermare che esista una ICONOSFERA.
Dunque è l’arte parzialmente tornata al canone barocco della “maraviglia”, del “docere et delectare”, eccetera: stupire le masse, innanzi tutto.
Per Wovoka aggiungo che quando guardo un’opera “d’arte” non mi pongo il problema che sia arte oppure no.
Dò per scontato che lo sia, altrimenti legherei il concetto di arte a quello di qualità e sarebbe un errore idealistico e croceggiante.
Arte è tutto ciò che è costruito INTENZIONALMENTE allo scopo di suscitare il giudizio estetico.
Ma non tutto ciò che suscita giudizio estetico è perciò stesso arte.
Per esempio le Dolomiti sono belle, ma non sono arte.
Ne discende che ARTISTA è chi produce cose a scopo artistico, non solo chi è bravo a farlo.
Per me un’opera di Monet è pari, concettualmente, a quella di qualsiasi scalzacane che vende quadretti in serie a piazza Navona.
Occorre prendere atto che tutto il canone artistico modernista e contemporaneo è stato costruito e mantenuto dalle grandi istituzioni d’arte, dai grandi collezionisti, dai grandi musei.
Nella sostanza è stata imposta una lettura univoca dei valori in campo, un mainstream non contestabile, una sequenza immutabile e determinata di opere cardine che va dall’Impressionismo all’oggi.
Questa sì che è una lettura totalitaria.
Metti in fila la Fondazione Guggenheim, i Francesi del Centre Pompidou, la fondazione Ludwig in Germania, la Tate Modern, forse qualche altra istituzione, e capirai che l’arte che tutti vediamo LA SCELGONO LORO e nel passato hanno fatto lo stesso.
Capirai che i grandi collezionisti e mercanti alla Gagosian, alla Saatchi eccetera sono figure quasi “eroiche” e ancora deboli rispetto al Grande Gioco planetario dei valori artistici.
Altro che Palazzo Grassi.
La concezione dell’arte del Novecento come di un’evoluzione per equilibri punteggiati, segnata essenzialmente dal succedersi delle avanguardie sotto l’egida spietata del NUOVO e del SUPERAMENTO, la stessa che si ritrova nei manuali scolastici, è costruita sulle scelte delle grandi collezioni e dei grandi musei, sostenute dalla critica internazionale.
Tutto quello che resta fuori, spesso roba bellissima, non conta – da noi, per esempio, il Novecentismo Italiano, la Scuola Romana i Valori Plastici, eccetera, ma anche l’Arte Povera degli anni sessanta, gente come Pascali, per dire, conta poco sullo scacchiere mondiale.
Chi si è accorto che Afro Basaldella è il più grande espressionista astratto?
Sono solo esempi.
Oggi le cose sono ancora cambiate.
L’artista non aspetta di “essere scoperto”, ma forza i termini del gioco, coinvolge i media che entrano, direttamente e da subito, nell’opera (che talvolta SONO l’opera).
Le dimensioni diventano, in questo quadro, un fattore decisivo di visibilità dell’arte come “meraviglia”.
L’opera di Hirst rientra in pieno, a mio avviso, nel canone del “docere et delectare”: le due mucche sezionate e rimontate sotto formalina a formare un animale simmetrico con due teste alle estremità, di “diverte”, mi “inquieta”, mi “repelle”, mi “stupisce”, mi “fa riflettere”, eccetera.
Niente di più lontano dall’”interiorità” sommessa e poetica di una natura morta di Morandi, ma pura arte barocca.
Beh, Mattia, tanto passante quanto partecipante. E lungi da me l’idea di imporre correttezze politiche di qualsiasi genere: se c’è qualcosa di realmente buono in questo ambito è l’effettiva tolleranza, almeno sulla faccia principale dello specchio (perché ai livelli sottostanti del fenomeno il controllo – i meccanismi di esclusione – appare ferreo, in forte contrasto con gli svolazzi colorati – da simpatiche canaglie dal cuore d’oro – dell’epifenomeno).
Trovo però troppo facile la conclusione che “ignorare” corrisponda ad “escludersi”: si può campionare secondo criterio ed ignorare ciò che non pare assimilabile. La cosa che trovo assurda è che una certa ristretta cricca si arroghi il monopolio di definire l’Arte, per la quale credo esista una dimensione antropologica non monopolizzabile da alcuno. Di artisti interessanti a mio giudizio se ne trovano a iosa, forse l’unico problema è unificarne i brulicanti e divergenti percorsi entro una narrativa cognitivamente maneggievole, operazione che nelle condizioni attuali si può forse soltanto simulare, con enormi “tagli” sostanzialmente arbitrari.
Concordo comunque con la visione evoluzionista di Tashtego: le “forme” che più “lo meritano” certo sopravviveranno, vuoi nelle nicchie ecologiche più in evidenza, vuoi rintanate in rifugi di sopravvivenza. Ma in fondo le forme, quali entità astratte, non hanno bisogno di patrocinio da parte di alcuna creatura mortale.
Detto questo, penso ci si dovrebbe confrontare sulle narrative artistiche allo stesso modo che su quelle religiose, cioé badando soprattutto alla salvezza della propria, di anima. Quindi nessuna prescrizione e tutti liberi, di apprezzare o criticare, piangere o ballare.
Quanto è brutto aver l’ultima parola, mi resta addosso l’impressione di essere riuscito ad inaridire la piacevole questione. Suvvia diamogli ancora qualche sviluppo, che negli attuali thread di letteratura non ci capisco nulla :-)
veramente io non ho una visione evoluzionista dell’arte, wovo.
dicevo solo che il canone novecentesco è stato stabilito da un ristretto gruppo di persone.
tutti, anche gli artisti più “liberi”, per adesione o per negazione, devono farci i conti.
personalmente non ho nessuna “visione” dell’arte.
tuttavia credo non si tratti di una cosa “pura” e nemmeno di una cosa “libera”.
credo abbia che fare coi soldi, i media e il potere, da sempre.
infine credo che nessuno di noi davvero sceglie cosa vedere.
qualcuno sceglie l’arte per noi e ce la mette sotto gli occhi.
a quel punto noi disciamo “bello”, oppure “brutto”, oppure disciamo “uhm…”.
accettiamo o rifiutiamo il cibo estetico che ci viene proposto, insomma.
http://www.sitart.org/CONTACT/ilCairo.htm
Ok Tash, comunque dicendo “evolutivo” non alludevo certo a qualche ingenua idea di progresso, anzi, credo che nell’arte si veda bene come un “accumulo di storia” possa condurre facilmente a dei veri e propri vicoli ciechi evolutivi, che sfociano nella “sostituzione” completa (di persone – inevitabile – ma anche di valori, abilità eccetera) . Nessuno spazio, in questa visione, neppure per la “purezza”: direi che tanto il progresso quanto la purezza si possono associare soltanto a dei limitati segmenti, o aree, di un processo di ramificazione senza confini: per certe epoche e segmenti di attività che abbiano mantenuto costanti alcuni insiemi di regole e valori, un gradiente di “progresso” può essere ragionevolmente determinato, anche se vi è spesso complessità sufficiente da poter rigirare le gerarchie, guardando alle cose con occhiali differenti. Allo stesso modo, in certi contesti sociali e storici, anche un concetto di “purezza” – per quanto illusorio – ha giocato un certo ruolo, e ritengo che esso sia ancora presente, almeno in certe dimensioni marginali del fenomeno artistico.
Si può dire che i tentativi di “dominare” cognitivamente queste complessità portano spesso a delle analisi molto interessanti, anche se il compito di metterle davvero a confronto per farci emergere qualcosa di “scientifico” mi sembra quasi impossibile. Spesso il dialogo sull’arte si riduce ad un complicato e disorganico confronto di disposizioni e competenze, che sottintende questo semplice messaggio: “l’Arte è fatta per gente come me (come noi) e non per quelli come te (come voi)”. Prendo un frammento da un testo che ho appena scorso, Dino Gavina (“mecenate”) intervistato da TempoFermo (n.005/2006) dice a un certo punto al suo interlocutore: “Evidentemente non è ancora pronto a comprendere l’operazione. Ma io spero di averle messo almeno un dubbio, perché quello che in fin dei conti vale è il risultato. Ora le mostro un’altra foto di Man Ray, che ho all’ingresso: L’enigme d’Isidore Ducasse”. Lei conosce il conte di Lautréamont, vero?”. Risposta: “Lo conosco di nome, ma non ho letto i suoi libri”. Gavina: “Dovrebbe farlo. Come può pretendere di scrivere su queste questioni senza avere letto Lautréamont, o Rimbaud o Joyce?”
Alla fine, ciò che si mette realmente a confronto sono sempre storie personali, cioé strutturazioni così ramificate e modellate dalla contingenza da farmi pensare che persino i limitati accordi che si possono stabilire abbiano natura per lo più illusoria. Ma tuttavia finché questi confronti rimangono piacevoli, penso che vadano continuati, proprio come quel “discorso anormale” di cui parla Rorty nel suo “Specchio della Natura” (il libro peggiore che io abbia comprato lo scorso anno).
Comunque ieri sera ho seguito un requiem di Mozart in duomo (per i 30 anni dal terremoto del Friuli) ed ho intuito su quale vertiginosa pila di talento disciplinato si reggesse la mera “esecuzione” di un oggetto artistico di tal fatta. Indubbiamente le qualità di Duchamp, o di un Man Ray, o di un Keith Haring, o di un Basquiat, stanno da tutt’altra parte (boh, proviamo a chiamarla “preveggenza”, fiuto sociale?). In ogni caso si tratta, in questo secondo, caso di opere che non hanno nulla da temere dagli “errori” in quanto ogni loro caratteristica è affermabile a posteriori in maniera autoritaria. Forse è proprio il concetto di Arte che ormai questo punto non regge più. Ma in fondo Duchamp voleva proprio distruggerlo, ed in questa coerenza risiede una certa grandezza che non posso certo riconoscere ai vari Hirst, Cattelan e via dicendo, indipendentemente da ciò che può accadere da Sotheby’s.
Mi scuso per l’affastellamento un po’ confuso di argomenti, ma in questo momento è tutto ciò che posso dare. Ciao
Di Lautréamont nemmeno io mai lessi un solo rigo.
E però è vero che per provare a dire del contemporaneo occorre avere letto i contemporanei.
Conosco persone assolutamente straordinarie nel campo metti della lettura iconologica dell’arte rinascimentale che rifiutano in blocco e con violenza l’arte contemporanea.
Il motivo di ciò, secondo me, sta nel fatto che chiamiamo con lo stesso nome, “arte”, fenomeni di volta in volta diversi che hanno riguardato il visivo.
Quella artistica è una risposta diversa, perché diverse sono le condizioni ambientali cui è chiamata a rispondere.
In questo senso l’arte è evolutiva, cioè in senso adattativo.
Quindi mi correggo: ho una visione evolutiva dell’arte, ma non progressiva, cioè non nel senso di un susseguirsi di stadi sempre più evoluti.
Meglio parlare di stadi “diversamente evoluti”, quindi non paragonabili direttamente.
Al tempo di Mozart l’arte era TUTTA figurativa, l’architettura era TUTTA di impianto simmetrico e di linguaggio classico, la poesia era TUTTA basata sulla metrica, le comunità erano TUTTE rette da un sistema aristocratico, eccetera: disciplina, certo: di sicuro altre risposte adattative.
> Di Lautréamont nemmeno io mai lessi un solo rigo. E però è vero che per provare a dire del contemporaneo occorre avere letto i contemporanei.
E’ un tema importante. Io credo che bisognerebbe usare la massima trasparenza in affermazioni simili, sulle quali davvero si concentra l’essenza del meccanismo di esclusione. E’ palese che bisogna sapere di che cosa si parla, ma se davvero non aver letto Lautréamont, o altri, può davvero far perdere un tassello essenziale alla partecipazione stessa al discorso, allora sarà bene il caso di analizzare questo “quid” al microscopio, per capire di cosa si tratti. Per lo più, fortunatamente, queste analisi risultano negative. Messo alle strette, riemerge un meccanismo snobistico abbastanza scontato, che identifica i saperi con gli stili di vita, vezzi compresi. Non conta il “concetto”, di cui “chiunque” può appropriarsi per via scolastica, ma conta la storia incarnata nei corpi, che determina le disposizioni estetiche, da cui l’ineffabilità. Ma poiché il materiale da passare ormai sorpassa, di gran lunga, una vita a disposizione, non vi sarebbe speranza alcuna in queste imprese se non vi fosse (come in effetti vi è) una così grande “ridondanza”. Però credo che in quella circostanza Gavina non avesse alcun “concetto” definito (o definibile, con maggiore o minore sforzo) da opporre al suo giovane interlocutore, ma lo volesse semplicemente schiacciare, anche se con una certa grazia, con la propria storia personale caratterizzata dai contatti con Man Ray ed altre icone culturali, che si suppongono in grado di cedere per osmosi parte del loro carisma. Forse l’aristocraticismo che rimane in sottofondo si può tradurre così: se non hai avuto in dono (versione idealistica, predestinazione) o non sei stato in grado di procacciarti (versione darwiniana) una vita di “ozii” (letterari, artistici ecc.) semplicemente non vuoi confrontarti con certi discorsi, o meglio, lo devi per forza fare con una certa postura”. Si tratta di un discorso in fondo abbastanza plausibile, che però non viene mai articolato chiaramente, così da non indispettire il potenziale pubblico, al quale si propone in fin dei conti una sorta di “elevazione” della propria vita di serie B (o C, o D) attraverso l’assimilazione profonda di narrative altrui. Mi chiedo quanta ambivalenza ci possa essere in simili processi, “adattamenti” come giustamente li chiami, la cui “positività” mi sembra essere data sempre troppo per scontata.
H A S S E L B L A D