Il trust orientalista
seconda puntata de “Il giornalismo italiano e l’Islam”
un’inchiesta di Roberto Santoro
[leggi la prima puntata]
In Italia ho incontrato alcuni giornalisti. Mi hanno riconosciuto, abbiamo fatto quattro chiacchiere. Gli ho chiesto quale fosse stata la loro impressione dell’Iran rispetto alle informazioni che avevano avuto prima di partire, e mi hanno detto di aver trovato una realtà completamente diversa da quella che immaginavano.
Abbas Kiarostami
Il Foglio, il Giornale, Libero. Tre quotidiani che per rifondare il “Nuovo medio oriente” hanno rispolverato la vecchia biblioteca coloniale, stringendo un patto d’acciaio con il cristianesimo rinato in nome della libertà. Nello stesso tempo, sfruttano i più avanzati discorsi politici postmoderni – la battaglia per i diritti civili, l’emancipazione della donna, la contestazione giovanile, l’importanza attribuita alla storia subalterna – per giustificare l’interventismo democratico nei paesi arabi.[1]
Questo potente Trust orientalista si ispira all’idealismo atlantico, una escatologia liberale che legittima gli interessi della “comunità internazionale” e quelli unilaterali degli Stati Uniti.
Prendiamo la definizione di Trust da quell’altro gruppo di giornali italiani che nel 1911 sostenne la guerra in Libia. Il Trust di Giovanni Grosoli che fu sintesi tra fede religiosa e fede secolarizzata, alleate anche allora nel grandioso progetto di portare la civiltà dove non c’era.[2]
Il professor Bernard Lewis definisce il periodo che va dal Congresso di Vienna alla Prima Guerra mondiale come “l’età classica” della dominazione europea. Tradotto in soldoni coloniali, significa che i possedimenti europei passarono da circa il 35 per cento a circa l’85 per cento delle terre emerse.[3]
Gli inglesi sbarcarono nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, i francesi invasero l’Algeria, la Russia si prese gli stati del Caucaso. Per ultima arrivò L’Italia, che occupò le province ottomane della Cirenaica e della Tripolitania.
L’impresa libica riunì i cattolici devoti ai liberali più euforici e patriottici, i sindacalisti rivoluzionari agli amministratori del Banco di Roma.
Gli arabi furono descritti come “amici” del popolo italiano, un popolo di contadini laboriosi che aspettava soltanto di essere governato.
Per ferventi nazionalisti come Gabriele D’Annunzio, Enrico Corradini o Ezio Maria Gray – quest’ultimo corrispondente dal fronte libico –, la guerra sarebbe stata una passeggiata. Per Corradini, avrebbe temprato il carattere nazionale. Soprattutto, la guerra era un’opera condotta a fin di bene.
Un padre della patria come Luigi Einaudi sostenne che gli italiani non avrebbero ricavato nulla dalla colonizzazione della Libia, il compenso sarebbe stato superiore, di natura morale: far accendere la scintilla del progresso in popoli così primitivi e lontani.
Peccato che le magnifiche sorti dell’Italia partita verso la terra promessa, la “Grande Proletaria” cantata da Giovanni Pascoli, finirono in un disastro. Spedire il corpo degli Alpini a combattere nel deserto non si era rivelata una grande idea.[4]
A distanza di un secolo, i chierici laici del nuovo Trust orientalista indossano la stessa divisa di modernizzatori, rivolgendosi al mondo arabo e musulmano. Il terzetto di giornali italiani gioca di sponda con la Chiesa Cattolica, per fare quadrato contro la minaccia islamica.
Quando Renato Farina, su Libero, istiga i suoi concittadini a tirare fuori le palle per difendersi dall’immigrazione araba, si sta ispirando a Corradini, alla “tempra morale” richiamata da Papa Ratzinger ed esaltata da Oriana Fallaci.[5] Siamo in Iraq, dice il presidente del consiglio Berlusconi, con un ruolo “espressamente umanitario”. L’Italia “insegnerà la democrazia” ai musulmani, recita un titolo del Giornale, il 15 settembre 2005.
Cos’è l’orientalismo?
Un potere culturale che viaggia nell’informazione, si ramifica nella televisione e sui giornali. Un linguaggio fatto di tropi, figure e maschere stilizzate. Per secoli, l’orientalismo è stato il bagaglio del colonialismo europeo. Un sapere basato sull’opposizione delle identità e sulla divisione del mondo in razze, religioni e culture.
C’era sempre un protagonista buono (l’Occidente libero e progredito), un antagonista cattivo (l’Oriente dispotico e arretrato), una storia dalla conclusione scontata. Il professor Edward Said ha ricostruito in modo esemplare la genealogia dell’islam, fardello dell’uomo bianco, luogo di tenebra, e lo strisciante pregiudizio occidentale contro l’arabo fannullone, perdigiorno e incapace di governarsi.
Dopo Said, e grazie a lui, sono state smascherate le categorie dell’essenzialismo, le barriere innalzate tra le civiltà, che hanno causato l’espansionismo musulmano e la politica coloniale europea, il revival fondamentalista islamico e il riformismo armato del capitalismo atlantico.
La pratica universale di designare nelle nostre menti uno spazio familiare ‘nostro’ in contrapposizione a uno spazio esterno ‘loro’ è un modo di operare distinzioni geografiche che può essere del tutto arbitrario.[6]
Il professor Said ha definito “Orientalismo” un “libro collettivo”. Dopo la pubblicazione alla fine degli anni settanta, con il passare del tempo, il libro di Said è cresciuto grazie ai contributi di tutti coloro che l’hanno letto e usato criticamente. È diventato un ipertesto a che altri ricercatori avrebbero potuto ampliare, per studiare i diversi campi dell’orientalismo (accademico, letterario, giornalistico) e le sue specifiche tradizioni nazionali.
Said aveva raccontato una storia inglese, francese e americana, lasciando intendere che andava ancora scritta quella dell’orientalismo italiano, tedesco, russo, spagnolo e portoghese.
La nostra ricerca si concentra sulla visione odierna dell’islam, in un determinato campo della cultura italiana: quello giornalistico.
Siamo di fronte a un insieme di articoli che ripropongono alcune invarianti fisse, immagini, temi, motivi, tutti riconducibili alla pericolosità del mondo arabo e alla necessità di una sua trasformazione.
Ogni giornalista esprime questa problematica attraverso un metodo di scrittura, una tecnica personale.
Cristina Giudici e Gian Micalessin contribuiscono scrivendo reportage, Paolo Granzotto cura una rubrica della posta, Massimo Introvigne e David Frum firmano preziosi editoriali basati sulla loro chiara fama di esperti. L’elenco potrebbe essere molto lungo.[7] Di ogni autore valuteremo:
- l’impronta stilistica;
- il tocco unico e irripetibile;
- gli strumenti narrativi;
- le concezioni sull’islam e sul modo di riformarlo;
- i collegamenti ad altri giornalisti del Trust;
- i rapporti con il mondo accademico, le autorità istituzionali e governative.
Nelle riduzioni grandguignolesche del Trust, l’islam viene sempre dipinto come una folla maschile eccitata e minacciosa, che non lascia scampo, una massa disumana che annulla l’individuo e la personalità. L’islam è il regno di chi studia ripetendo formule mnemoniche senza capire quello che sta leggendo. L’islam, infine, è una potenza sessuale celata ma dirompente, una forza generativa che si riproduce voracemente e senza controllo. Ognuno di questi temi – la spersonalizzazione, l’ignoranza, la sessualità distorta – diventa lo spunto per efficaci campagne stampa.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi su questo genere di rappresentazioni caricaturali, conviene ascoltare una dichiarazione di Oriana Fallaci alla cerimonia di premiazione dell’Annie Taylor Award di New York: “Sì, sono contro quella religione che tratta le donne come cammelli”.[8]
Sotto l’apparente imparzialità, lo stile accattivante, una solida formazione intellettuale, questi giornalisti nascondono il consueto pregiudizio politico sul medio oriente: siccome ne scrivono, pensano di conoscerlo davvero.[9]
Il demonio con il turbante
Renato Farina è il vicedirettore di Libero, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Nel 2005, il giornalista ha scritto un’inchiesta su Osama Bin Laden per raccontare in una manciata di pagine la vera storia del turbante più furfante dell’islam. Il libretto, allegato in migliaia di copie al quotidiano, ha una copertina degna dei Protocolli dei Savi di Sion. Si vede Bin Laden con il naso lungo, da perfetto ebreo, se non fosse che ha la barba e porta il turbante. Le unghie affilate, l’espressione torva, l’ombra che si allunga diabolica, sono identiche alla propaganda antisemita degli anni trenta, oppure ai comics americani che negli anni settanta deridevano la boria degli sceicchi arabi con le mani sporche di petrolio.
Farina ha cinquant’anni, una laurea in filosofia teoretica alla Cattolica di Milano, una solida carriera alle spalle, dal “Sabato” al “Giornale” a “Libero”. Il suo pamphlet su Bin Laden è una risposta impeccabile a quella chiamata celeste che anima le penne più ispirate del giornalismo atlantico. Farina racconta l’Eterna Lotta della Luce contro Le Tenebre, in una evocazione con esorcismo finale del Satana islamico. La lotta per la liberazione dell’islam non ha origini politiche o economiche, ma un fondamento religioso.
Il giornalista ricostruisce il passato di Bin Laden, la sua giovinezza dissoluta e il ‘rinsavimento’ alla vera fede ottenuto a colpi di bombe. È una storia piena di colpi di scena, di fughe rocambolesche dall’Arabia Saudita al Sudan. In Afghanistan, per ingraziarsi il mullah Omar, Bin Laden gli costruisce una reggia sontuosa e lo ricopre col mantello del Profeta.
La munificenza del palazzo donato a Omar è il tratto distintivo dell’orientalissimo Bin Laden. Il “turbante” è spaventosamente ricco, di un lusso abnorme, irregolare, mafioso, un elemento classico di ogni storia che va dai Quaranta Ladroni in poi.[10]
In verità, gran parte delle notizie raccolte da Farina le troviamo nel più esaustivo volume di Jonathan Randal, intitolato laconicamente “Osama”. Quello che manca a Randal è la mistica di Farina, la certezza di uno scontro frontale e finale che deciderà le sorti del mondo. Quello che Farina dimentica è l’inquietante ricostruzione offerta da Randal sui rapporti intrattenuti dal governo degli Stati Uniti con lo stato maggiore dei mujaheddin islamici ai tempi dell’invasione sovietica dell’Afganistan.
Nel terzo episodio della saga di Rambo, lo stallone americano si salva dai russi grazie a una provvida carica della cavalleria mujaheddin.[11]
Ne è passato di tempo da quando le brigate musulmane partivano dal Pakistan per combattere contro i russi. Gli eroi che sconfissero l’Armata Rossa sono tornati, e da alleati sono diventati nemici, martiri, kamikaze.
Ai giorni nostri, le potenze atlantiche affrontano e combattono il fondamentalismo religioso di matrice islamica che avevano contribuito ad alimentare in funzione antisovietica durante la Guerra Fredda. Per difendere le ricchezze petrolifere, gli Stati Uniti hanno dovuto combattere due guerre nel Golfo (1991 e 2003). Questo non vuol dire che Bin Laden è un pupazzo della CIA e che l’11 settembre è stato un complotto sionista, ma la vicenda dei mujaheddin che studiavano nelle madrasse pachistane finanziate dai Sauditi, a loro volta ingrassate dai petrol-dollari americani, è un preoccupante sillogismo sulle radici dell’odio.
Farina prescinde da questi aspetti piuttosto imbarazzanti della politica estera statunitense, riassunti in una striminzita cartella intitolata “il periodo filo-americano di Bin Laden”, neanche fosse una rockstar. Veniamo a sapere che il Pentagono ha investito sul Male: “Pare assodato di sì. Almeno dal 1986 gli americani forniscono a Bin Laden missili Stinger. E pure – attraverso i servizi segreti pachistani – denari e istruttori. Il nemico è sovietico, punto e a capo”.[12] Si comprende bene che Satana, il Diavolo, il Male, può incarnarsi in base alle mutevoli esigenze della ragion di stato e che dunque può essere evocato artificiosamente da chi scrive: “il Grande Satana” sovietico, il luciferino Bin Laden, nessuno meglio del demonio è in grado di mutare volto, collocazione storica, spaziale e temporale.
Farina descrive la struttura infernale di Al Quaida come una piramide della sovversione islamo-nichilista che sta schiacciando il mondo libero.
Bin Laden diventa il Nemico Senza Volto, il Non-Morto, una figura ontologica più che un uomo in carne e ossa.[13]
L’attacco all’Occidente
Ovviamente criticare le distorsioni visionarie dei giornalisti italiani non significa sottovalutare la pericolosità dell’integralismo musulmano.
Il terrorismo islamista è colpevole di aver attentato alla sicurezza occidentale almeno dalla fine degli anni settanta.
L’11 settembre è stato il colpo di grazia di Al Quaida contro gli Stati Uniti, ma la Quarta Guerra mondiale era già iniziata con l’attacco al cacciatorpediniere “Cole” nel golfo di Aden (2000), e ancora prima con gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e in Tanzania (1998), e con il primo assalto al World Trade Center di New York (1993).
L’attacco all’Occidente è stato un’azione militare, un’invasione religiosa e una battaglia culturale. Un’azione tanto ampia da spingere gli studiosi Ian Buruma e Avishai Margalit a raccontare la storia dell’occidentalismo, il contraltare dell’orientalismo, che il professor Said riteneva impossibile.
In un mondo diviso in blocchi, secondo opposizioni manichee, non ci sono soltanto gli idealisti atlantici che vogliono riformare la mentalità musulmana, ci sono anche gli islamici che disprezzano sionisti e crociati e si ribellano al modo di vivere occidentale. La pensavano così i terroristi che si sono fatti esplodere nella metropolitana di Londra, il 7 luglio 2005.
L’odio sembra davvero l’unico sentimento in grado di oltrepassare le differenze identitarie, grazie a un insieme di pregiudizi e “idee sbagliate”[14]. Secondo i moderni profeti dell’islam militante – i puritani wahabiti, i mullah di Teheran, i Fratelli Musulmani –, la grande metropoli atlantica è la sentina del vizio. Materialismo e relativismo dilagano tra gli infedeli, schiavi del commercio, dell’usura, e delle loro puttane bianche senza moralità.
Bin Laden considera l’uomo occidentale un debole, incapace di sacrificarsi per un ideale, un borghese che non apprezza il valore del martirio. L’alternativa al Capitale è la capitale di Dio messa in piedi dai talebani a Kabul: niente musica, televisione, calcio, scacchi e aquiloni, solo lapidazioni e rispetto assoluto della sharia.
Il fondamentalismo islamista è una forma di totalitarismo, nemmeno troppo originale secondo Buruma e Margalit. L’odio contro l’Occidente è un revival della peggiore Storia (dis)umana, un derivato di nazismo, comunismo staliniano e kamikaze giapponesi. Anche quando scelgono di percorrere la strada estrema della violenza, sembra che gli islamici siano incapaci di farlo da soli, e debbano per forza copiare qualcun altro.
“Alba dell’Islam”, la scuola di Via Quaranta
All’inizio di settembre 2005, gli ispettori del comune di Milano spalancano le porte di Fajr al islam (l’Alba dell’Islam), la scuola musulmana di Via Quaranta. Ai loro occhi appare uno spettacolo inatteso: cinquecento bambini e bambine rigidamente separati in classi diverse, accompagnati a scuola in pulmini con i vetri oscurati, costretti a recitare fino a notte fonda il Corano ai piedi di improvvisati maestri della Moschea di Viale Jenner.
Ben altra cosa sono i programmi delle scuole italiane, l’eccellenza dei nostri corsi di studio, la pulizia delle nostre aule. E già, perché la scuola di Via Quaranta viene chiusa perché è sporca, pericolante e indecorosa.
Il riscaldamento funziona a giorni alterni, le pareti sono in cartongesso, ci sono solo due estintori e i corridoi sono pieni di cartacce di patatine fritte. Non c’è una mensa, solo uno spaccio, e gli studenti non possono avere un pasto caldo. Ma sarebbe un’esagerazione chiedersi se gli stessi problemi di collasso dell’edilizia scolastica sono comuni alle grandi periferie della nostra scuola pubblica? Tanti insegnati lamentano più o meno le stesse inadempienze di Via Quaranta, il degrado di bagni e termosifoni nei loro istituti. Quanto alle cartacce e ai rifiuti appare davvero bizzarro pensare che gli studenti islamici sono più sporchi dei loro omologhi italiani. Per il pasto caldo, infine, si tratta di una conquista sociale ancora lontana in molte scuole della repubblica.
Come mai i provvedimenti contro l’istituto di Via Quaranta non sono stati presi prima?
Dopo un decennio di indisturbata didattica egiziana, una denuncia di Magdi Allam sulle pagine del Corriere della Sera dà la sveglia all’amministrazione comunale (30 agosto 2005): la scuola degli orrori è un luogo dove i ragazzini vengono educati al martirio.
Così provveditorato e prefettura decidono in fretta e furia di salvare i poveri studenti da un destino di sicura ottusità, aprendogli una corsia preferenziale all’interno della scuola statale. Gli islamici porteranno senz’altro dei disagi nelle nostre classi, questi studenti non spiccicano una parola di italiano, e c’è il diffuso timore che rallentino i nostri figli, i diligenti, i primi della classe. Per fortuna ci sono le facilitatrici culturali, sorta di metamorfosi professionale della antica maestra di sostegno, a garantire l’integrazione religiosa a colpi di giochi di ruolo, brainstorming e autocoscienza collettiva. La Lega Nord suggerisce di introdurre esami o test d’ingresso per i piccoli musulmani, così valuteremo se sono in grado di capire l’italiano e riusciremo a bloccarli in tempo, prima che influenzino negativamente il rendimento scolastico altrui. Secondo Andrea Gibelli, capogruppo della Lega alla Camera, nelle classi miste “si registra un forte ritardo nell’apprendimento, perché le maestre devono attardarsi con gli stranieri”. Una mamma di Ceva, in provincia di Como, decide di ritirare suo figlio da scuola perché studiava in una classe composta per metà da extracomunitari: “Nostro figlio non imparava nulla”, dice la signora.
Il 23 dicembre 2005, su proposta del ministro della Funzione pubblica Mario Baccini, il consiglio dei ministri assume tremila nuovi insegnanti di religione, cattolica, s’intende, ma quando sono i musulmani a proporre l’insegnamento di cultura islamica nelle scuole statali, l’eurodeputato leghista Matteo Salvini commenta: “l’islam nelle nostre aule? Mi viene da ridere” (20 settembre 2005).
Fino a rubriche altrettanto esilaranti, come un box che appare nelle pagine Libero: l’occhiello recita bonariamente “Verso l’integrazione”, ma il titolo (meno divertente) è “Inchiesta della procura sui genitori di Via Quaranta”. Nello svolgimento veniamo a sapere che i genitori islamici rischiano la revoca del permesso di soggiorno perché hanno disatteso ai loro obblighi scolastici nei confronti dei figli. Bel modo di integrare, eh?
I giornalisti del trust si avventano all’unisono sulla notizia di Via Quaranta. L’istituto islamico è una “non-scuola”, “una scuola-fabbrica” sforna-martiri perché l’edificio sorge sulle rovine di una vecchia industria italiana. I titoli del Giornale segnano un’escalation impressionante nella sua (melo)drammaticità:
“Nel Nord Est ogni paese ha la sua madrassa”;
“In Italia ci sono 53 scuole islamiche”;
“In Via Quaranta insegna il maestro del terrore”.
“Chiudiamo le scuole islamiche. Educano al fanatismo”, avverte il ministro Maurizio Gasparri dopo che i servizi segreti hanno scoperto che tra i banchi milanesi giravano indisturbati i broker di Al Ittihad al Islami, una delle cellule della galassia di Al Quaida.
Nella battaglia contro la scuola di Via Quaranta, si distingue per intransigenza il settimanale “Tempi”, diretto da Luigi Amicone.
Le corrispondenze di Emanuele Boffi sullo sgombero parlano chiaro: genitori islamici infuriati che non accettano di venire a patti con l’amministrazione e pretendono di andare avanti con l’anno accademico a costo di fare lezione per strada.
Lo fanno davvero e nella bagarre un ragazzo di undici anni finisce investito da un auto. Prognosi riservata, un difficile intervento chirurgico, c’è chi scrive che sia morto ma non ci sono riscontri precisi. La prima vittima della riforma dell’istruzione islamica.
Sappiamo soltanto che ha attraversato la strada dove non doveva e che l’episodio è l’ennesima conferma della pericolosità della scuola, del suo inadeguato posizionamento urbanistico all’interno della città.
L’arretratezza pedagogica dell’islam
Mattias Maniero riassume in modo energico la situazione sulla scuola di Via Quaranta, sulle pagine di Libero del 20 settembre:
Loro, gli islamici, vorrebbero questo: noi vi spieghiamo la storia di Maometto, vi parliamo della Mecca, non vi diciamo nulla degli antichi romani e degli etruschi, e voi, una volta presa la licenza, sarete in tutto e per tutto identici ai ragazzi di Milano e di Roma. Magari in italiano saprete dire solo buongiorno e buonanotte, ma Allah vi proteggerà, e gli italiani, che sono un po’ fessi, si inchineranno ad Allah.
Il 7 ottobre, il sindaco di Milano Gabriele Albertini scrive una “lettera aperta” al Giornale. I ragazzi musulmani avranno al più presto professori italiani, compagni italiani, programmi italiani, e “nelle ore supplementari di materie a scelta, previste dalla riforma Moratti, potranno studiare quello che vogliono: fotografia, storia della musica oppure – perché no? – il Corano o la letteratura araba”. Le parole del sindaco appaiono a dir poco sprezzanti. Cosa proverebbe uno studente cattolico a sentirsi dire che l’ora di religione è stata spostata il pomeriggio, e che la Bibbia ha più o meno lo stesso valore di una lezione su Robert Doisneau?
Emanuele Boffi ammonisce che la chiusura della scuola rischia di avere un effetto ancora più deleterio: i genitori d’ora in poi educheranno i loro figli a casa e l’odiosa istruzione fatta di formule magiche continuerà a moltiplicarsi nel sottosuolo della famiglia islamica. L’ordinamento scolastico italiano prevede la possibilità dell’istruzione paterna, certo, ma chi vigilerà sul tipo di insegnamento impartito dai genitori islamici e chi valuterà le loro “capacità tecniche ed economiche”?
Secondo la Home School Legal Defense Association, negli Stati Uniti ci sono circa 2 milioni di bambini che studiano con i genitori, il 4 per cento della popolazione in età scolastica.[15] Come dire, mentre il piccolo Omar ripete integralismo piegato sul Corano, Billy Boy impara che il darwinismo è una sciocchezza, che Dio ha disegnato l’uomo bello e intelligente e che non è possibile che noi, figli del cielo, discendiamo dalle scimmie. Riguardo alla segregazione sessuale tra gli studenti, poi, è bene sapere che fino al 2000, nell’università di Greenville, Carolina del Sud, era vietato il dating, cioè gli appuntamenti tra fidanzatini bianchi e neri.
Le scuole coraniche sono un insulto all’ordinamento giuridico italiano, soprattutto quando agli studenti viene spiegato che i kamikaze sono brava gente: fin qui siamo tutti d’accordo. I genitori di Via Quaranta dovranno adattarsi al nostro sistema, che nello stesso tempo dovrebbe modificarsi per accogliere i nuovi arrivati. Ma la sicurezza dogmatica dei giornalisti del Trust sembra alludere a qualcos’altro.
È come se la sacrosanta battaglia in favore di una scuola laica nascondesse il solito pregiudizio sull’islam, sulla sua incapacità di insegnare o di apprendere alcunché.
Nella storia raccontata dal professor Lewis, il mondo arabo e musulmano a un certo punto si ferma e non riesce più a recuperare il distacco evolutivo impresso alla Storia dal capitalismo occidentale. L’arretratezza è economica, scientifica, militare. Gli arabi importano dall’Europa l’orologio, gli occhiali e il telescopio, ma restano incapaci di comprendere la logica di queste invenzioni: “Questi oggetti vennero spogliati di ogni nesso culturale e ridotti a manufatti passivi, privi di radici organiche”, dice Lewis.[16] Una frase che nasconde un pregiudizio culturale, l’idea che la razionalità, la scienza, la tecnica non sono adatte alla mente musulmana.
Il fantasma delle madrasse pachistane volteggia minaccioso sul provveditorato milanese. Lo spauracchio è il capovolgimento di ruoli, il timore di finire come in quel liceo di Byron, California, dove si fa simulazione di storia islamica, si studiano il Corano, la storia dal punto di vista arabo, le grandi conquiste musulmane e la resistenza palestinese.
Gli studenti musulmani, paragonati ai nostri, sono degli allocchi, dei ritardati cronici. I cervelli migliori vengono sprecati, piegati all’obbedienza. Nelle scuole islamiche, dice il professor Martino Rizzotti, non si disegna, non si canta, non si ride, “l’unico tipo di istruzione consentita è la ripetizione pedissequa delle parole del professore”.
Un giorno Rizzotti propone agli studenti di giocare a calcetto e quelli accettano, a condizione che la partita sia “Egitto contro il resto del mondo”. Grande turbamento da parte del professore e del giornalista che riporta la notizia, ma i nostri calciatori in fasce, quando s’incontrano nel cortile dell’oratorio, non giocano mai “Italia contro il resto del mondo”?
Robot, zombi, gli studenti islamici non sono abituati a fare sport, non hanno capacità critiche, riescono solo a memorizzare. Per aiutarli servirebbe una “didattica breve” che li metta al passo con i coetanei italiani.
“Si tratta di dare”, dice il preside Alberto Berardocco, “piccole dosi omeopatiche di democrazia” attraverso le nostre lezioni.
Ma se gli studenti islamici sono dei cialtroni come si spiegano i dati del rapporto sulla immigrazione della Caritas del 2004? Tra i laureati delle nostre università, gli stranieri e gli immigrati sono il 12,5% a fronte di un modesto 7,5% degli italiani.
La polemica scatenata dal Trust sui “contenuti” delle lezioni di Via Quaranta (cosa e come studiano) è un pretesto per attaccare la cultura musulmana. L’arabo è una lingua morta, mentre l’italiano è vivo, prensile e capace di adattarsi alle mille sfaccettature della realtà.[17]
L’arabo coranico è inutile studiarlo perché non è più una lingua parlata, sostiene Vittorio Mathieu in un editoriale sul Giornale del 14 settembre 2005. Argomento debole, se pensiamo che anche il greco antico o il latino hanno un vago riscontro pratico nell’italiano standardizzato dalla tv, eppure vengono considerati il picco della formazione culturale umanistica.
Per Mathieu la mentalità musulmana, così ostile al cambiamento, ha un riscontro diretto nella magniloquenza della sua lingua: la retorica del Corano appiattisce l’intelligenza e rende incapaci di pensare concretamente.
L’arabo è una sorta di ideologia linguistica che produce i martiri di Allah, una lingua che procura una “generale indeterminatezza del pensiero”, “la sopravvalutazione dei segni linguistici”, “la ridondanza e l’esagerazione”.[18]
Liberami dal burqa
Il sesso è sempre stato una delle narrazioni preferite dell’occidente sull’islam. La condizione della donna nella famiglia musulmana riflette alla perfezione l’intrinseco sadomasochismo di quelle società. Compito degli idealisti democratici è di svestire, spogliare le donne islamiche, sia quelle costrette a indossare il burqa, sia quelle che lo fanno spontaneamente.
I genitori di un asilo di Cremona hanno chiesto alla polizia di vietare l’ingresso alla madre coperta dal burqa, “perché impaurisce i nostri figli”.[19] Le madri dei bambini si sono spaventate perché Amina non vestiva Armani?
Dovremmo andarci cauti con questa eccitazione crescente di scoprire le donne islamiche, di vedere come sono fatte sotto, se di nascosto portano il tanga. Un gesto che rischia di essere altrettanto pruriginoso di quello che le aveva coperte. A emergere è in ogni caso la misteriosa potenza sessuale dell’islam, fatta di desideri sfrenati e repressi.
Se proviamo a paragonare la visione della donna islamica tipica dell’occidente coloniale con quella attuale e postmoderna ci accorgiamo che l’immaginario sessuale dell’occidente sull’oriente (e dell’oriente sull’occidente) è completamente cambiato.
Ai tempi di Flaubert, l’islam era una metafora sinuosa come i veli delle danzatrici e delle principesse. La donna araba idealizzata dai viaggiatori europei si donava senza troppi complimenti. Flaubert ne riconosceva l’odore marcio e attraente; in confronto, Madame Bovary era una dilettante della casta Europa.[20] Passione, bramosia, voluttà, erano tutte verso il Tigri e l’Eufrate. Poi la donna islamica è cambiata, l’hanno costretta a cambiare (gli imam, i padri, i fratelli). È stata soffocata sotto le palandrane, segregata, sottratta all’invadente sguardo maschile.
Nessuno meglio della scrittrice Ayaan Hirsi Ali ha saputo raccontare il significato letterale della parola Islam, “sottomissione”.[21]
I ruoli si sono capovolti anche nell’altro sesso: non c’erano più soltanto i maschietti come Flaubert, ma anche i maschioni musulmani che stupravano le donne bianche alla fermata dell’autobus. Nel romanzo “Le particelle elementari”, Michel Houellebecq presenta Ben, incarnazione del macho islamico, come un essere dal “cazzo grosso” che si “raspa i coglioni”. Secondo lo scrittore francese, il “babbuino” musulmano somiglia agli esemplari italiani che s’incontrano sulle spiagge di Rimini.
Un’altra idea destinata a farsi strada nei giornali del Trust è quella di considerare le donne islamiche oppresse, in lotta per l’emancipazione, tutto sommato migliori dei loro uomini. Questo stereotipo deriva dalla favola del mondo che vivrebbe in pace se fosse governato dalle donne.
Gli idealisti democratici, dunque, manipolano i discorsi del femminismo per promuovere una sorta di matriarcato che partorirà la riforma islamica.
Le donne saranno la quinta colonna dell’Occidente nella maschia fortezza del mondo musulmano. Secondo David Frum, uno degli autori dei discorsi di George W. Bush:
La frustrazione sociale e sessuale dovuta alla disoccupazione può spiegare gran parte della furia che i musulmani radicali dirigono verso le donne che vestono in modo troppo provocante, e può anche spiegare l’abbandono con cui costoro si dedicano a distrazioni emotivamente intense come il terrorismo.[22]
Un mondo guidato dalle donne, al contrario, sarebbe infinitamente più democratico. L’umanità di Houellebecq vivrebbe in uno “stato di felicità comune”. Provate a raccontare questa storiella all’iracheno tenuto al guinzaglio dalla soldatessa Linndye England, reginetta del sadomaso in uniforme atlantica (tre anni di reclusione per maltrattamenti e oscenità). Siamo senz’altro nel migliore dei mondi possibili se Ann Coulter, la mantide religiosa del giornalismo scorretto yankee, biondissima e algida, è convinta che il sistema migliore per discutere con sinistroidi e pacificisti sia quello di costringerli sulla difensiva, insultarli, colpire per prima perché così fai male due volte. “Dovremmo invadere tutti i paesi islamici”, ha scritto Coulter il giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, “uccidere i loro leader e convertirne le popolazioni al cristianesimo”. Sarebbe proprio un bel mondo quello governato da Linndye e Ann.
La fantapolitica del matriarcato
La maschiofobia islamica coinvolge anche Martin Amis. Il romanziere della sinistra anglosassone considera i militanti musulmani un esercito di testosteroni in libertà. Sessualmente deboli e insicuri, gli islamici sottomettono le loro donne per sfogare le proprie umiliazioni storiche.
Certo, ci sono le vedove nere cecene e le bombarole palestinesi addestrate per saltare in aria con la carrozzina e il bebè.
Ma alle dark lady di Hamas, i giornalisti del Trust preferiscono le intellettuali e le voci contro, la fumettista iraniana Marjane Satrapi e la scrittrice canadese Irshad Manji, che piace tanto al femminismo atlantico perché è donna, lesbica, e spietata accusatrice del maschilismo e dell’imperialismo arabo.
Satrapi e Manji sono senza dubbio espressione delle più avanzate frange intellettuali islamiche che si battono per i diritti civili e le riforme. Stiamo dalla loro parte perché si considerano refusenik inseguite dalle fatwa, come dimostra il decalogo pubblicato da Hirsi Ali per fuggire di casa, scampare alle ritorsioni del clan, cambiare residenza, studiare e farsi un reddito.[23]
A indispettire, però, è l’atteggiamento opportunista del Trust.
Gli stessi giornalisti che appaiono recalcitranti quando si discutono temi di politica interna come il matrimonio omosessuale, l’aborto, la procreazione assistita, di colpo esaltano quelle stesse battaglie radicali se parliamo di Iran, Libia o Arabia Saudita. Va benissimo proteggere e difendere le outsider che si ribellano all’imamato, ma questo vuol dire che Manji – se vivesse in Italia – potrebbe sposare la sua compagna, avere un bambino in provetta, e scegliere di interrompere la gravidanza senza che un militante del “Movimento per la Vita” la dissuada all’ingresso del consultorio?
In realtà, l’idealismo atlantico sussume i discorsi più avanzati del femminismo per legittimare la sua politica di riforma del mondo islamico e i propri interessi politico-economici globali.
Elizabeth Cheney, assistente del Segretario di Stato per gli Affari del medio oriente, è convinta che “la democrazia islamica è donna”. Secondo lei, la vera rivoluzione la stanno facendo le saudite che vogliono la patente (il Foglio, 3 dicembre 2005). Liz, capelli biondi e filo di perle, è la cocca di papà Cheney e ha un futuro nell’amministrazione Bush. Spiega candidamente di aver scoperto l’islam da piccola: “Quando avevo dieci o undici anni ho letto un libro sull’Antico Egitto, da allora ne sono rimasta affascinata per sempre”. Liz ha conosciuto l’islam attraverso i libri e non ha più smesso di giocare alla fantapolitica del matriarcato.
I giornalisti del Trust vanno in sollucchero a descrivere la candidata Noorzia, che si presenta alle elezioni afgane con il velo e le calze a rete (il Foglio, 15 settembre 2005).
Questo sguardo ammiccante e carico di complicità torna ogni volta che si parla di islam tollerante e in via di sviluppo.
Per esempio il paese dei balocchi, il Kurdistan irakeno. Dopo la cacciata di Saddam, in famiglia le donne hanno messo i pantaloni, sono diventate granatiere tutti d’un pezzo, pronte a sbattere fuori di casa i mariti viziosi alla prima occasione. “Lui” ha subito la rivolta di moglie e figli, una coalizione che l’ha ridotto sul lastrico. Il maschio islamico condivide il destino del cugino occidentale: “ormai è vecchio, s’è mangiato tutto e pretenderebbe di vivere con i miei soldi. Così l’ho mandato a quel paese e gli ho chiuso la porta in faccia”, dice una delle superdonne di Suleimaniya.
E che dire dell’islam tunisino, moderato, liberale, con valori tanto simili ai nostri? Qui le ragazze mettono i jeans griffati e le scarpe coi tacchi, ma non portano in bella mostra l’ombelico come le loro scostumate coetanee milanesi; le tunisine non si metterebbero mai a pomiciare con il moroso in pubblico, preferiscono stare sedute sulla panchina, “nascoste sotto gli alberi e, quasi impercettibilmente, si tengono per mano”. Amabile quadretto offerto dal Giornale, una sorta di nostalgico vagheggiamento dell’Italia cattolica degli anni cinquanta finita in mano agli abortisti e ai divorzisti.
L’aspetto più interessante di questa riforma parafemminista dell’islam è la sicumera di chi la racconta, la faciloneria con la quale si guarda al mondo musulmano come se fosse il giardino di casa propria.
Nel centro di formazione voluto dalla Croce Rossa italiana a Kabul, le donne islamiche imparano “ad assemblare lampade fotovoltaiche”, tagliano gemme, producono collane e orecchini.“Un’idea vincente”, secondo gli ideatori del progetto, come quell’altra di metterle a riparare telefoni cellulari scassati.
Vota Afef
La Tunisia si applica bene a questo discorso di comodo dell’industrialismo umanitario, piena com’è di villaggi vacanza dove scaricare le nostre psicopatologie in cerca di un po’ di esotico a buon mercato.
Alle prossime elezioni, votate Afef. Secondo il regista Franco Zeffirelli, la tunisina Afef Jnifen è il simbolo, anzi l’icona, del dialogo interculturale.
La faccia buona, per non dire bona (Zeffirelli preferisce scrivere “bellezza mediterranea, solare e gioiosa”), dell’islam maghrebino. La prediletta di Bourghiba, il presidente che ha strappato il velo dal volto delle donne islamiche. Afef è la new entry dell’integrazione made in Italy.
E’ stata invitata a un diplomatico pranzo di gala insieme al primo ministro turco Erdogan, su richiesta del presidente del consiglio Silvio Berlusconi.
Afef sogna un partito tutto suo, un “gruppo di dialogo” che conterà nei suoi ranghi autorevoli esponenti dell’intellighenzia nostrana, quali la radicale Emma Bonino, il professor Khaled Fouad Allam e il giornalista Gad Lerner. L’alternativa alla donna con il burqa, dunque, è una modella che ha impalmato lo scapolo d’oro della finanza italiana.
Una bellezza “fulgida” e “smagliante” che si presenta al gala con Erdogan vestita come Jacqueline Kennedy (pantaloni bianchi, camicetta nera, occhiali da sole scuri) e che si allontana da Palazzo Chigi a bordo di una potente Alfa 147. Lei sì che ce l’ha, la patente.
Che cosa abbia da spartire Afef con il resto della comunità islamica italiana resta un mistero buffo. La funzione della modella è stata di “illeggiadrire” il pranzo berlusconiano, come scrive Libero nel settembre del 2005.
Votate Hammasa Kohistani, la diciottenne miss Inghilterra, uzbeka con genitori afgani, che parla perfettamente sei lingue, è la prima della classe al corso di design e vorrebbe sbarcare a Bollywood.
Votate Sania Mirza, coetanea della Kohistani, testa di serie numero 35 del tennis femminile mondiale, raggiunta da una fatwa perché in campo portava la minigonna, il piercing all’ombelico e l’orecchino al naso, e ogni volta che tirava un colpo con la racchetta lanciava uno di quei gridolini che eccitano tanto i personaggi di Houellebecq (nella foto pubblicata dal Giornale, aguzzando la vista, si può scorgere il triangolino bianco delle mutandine della tennista indiana).
Votate Salma Bennani, moglie di Sua Maestà Mohammed VI del Marocco, che si presenta davanti ai dignitari di corte con i capelli rossi al vento nemmeno fosse una locandina felliniana, e si dice abbia ispirato il mudawana, il codice familiare marocchino riformato che offre alle donne la possibilità di scegliersi un marito e divorziare quando gli pare.
Votate Rania Atallah, principessa palestinese che veste Valentino e Ferrè, ama cenare in pizzeria col marito (il re di Giordania), e che prima di mettere a letto i bambini gli legge una sura del Corano (Al Quaida ha tentato di farle la pelle in Grecia).
Votate Asma Al Assad, la pasionaria del decrepito regime siriano, l’unica che potrà salvare il marito, il presidente Bashar Al-Assad, dalla ritorsione preventiva degli americani.
Votate Sheika Mozah, che considera il suo sposo, l’emiro del Qatar, più che altro un amico. Sheika adora i profumi di Chanel e le parure di diamanti, il fitness e le fiction di Al Jazera.
Votate le modelle, le miss, le principesse del gossip e dello sport, le scrittrici lesbiche e impegnate, perché rappresentano la nuova società islamica.
Tutto quello che alle donne coperte dal burqa è stato sempre negato senza pietà: bellezza, ricchezza, intelligenza, potere.
NOTE
1. “Molti concetti cari ai postmodernisti e ai postcolonialisti”, scrive Toni Negri, “trovano perfetta corrispondenza nell’attuale ideologia del grande capitale e del mercato mondiale”, Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, BUR 2003, p. 147
2. Lorenzo Tedeschi ha spiegato il Significato e fine del Trust grosoliano, in “Rassegna di politica e storia”, giugno 1964. Si veda il prezioso volume di Angelo d’Orsi, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad, Bollati Boringhieri 2006.
3. Bernard Lewis, L’Europa e l’Islam, Laterza 2002, p. 87
4. Giovanni Pascoli, La grande Proletaria si è mossa, La Tribuna, 27 novembre 1911
5. Renato Farina, Un altro colpo degli amici di Bin Laden, Libero, 15 settembre 2005
6. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2001, p. 60
7. Ci limitiamo a ricordare, in ordine sparso, i contributi di Christian Rocca, Fausto Biloslavo, Carlo Panella, Marco Respinti, Annalena Benini, Marina Valensise, Emanuele Boffi, Marcello Foa, Vittorio Mathieu.
8. L’orianismo e la Fallaci celebrati e festeggiati a New York, il Foglio, 30 novembre 2005
9. Se la conoscenza dell’altro è il mio potere di inventarlo, la verità del giornalista non è sempre una rappresentazione? Edward Said, cit., p. 269
10. “La volgarizzazione dell’orientalismo contemporaneo è largamente diffusa nei giornali e nella mentalità popolare. Per molti, gli arabi sono venali, lascivi, potenziali terroristi, con nasi adunchi, e per lo meno a dorso di cammello”, E. Said, cit., p. 134. Una caricatura tipicamente edipica di Bin Laden la offre il Giornale: Osama era un bravo ragazzo fino a quando scoprì che il padre schiavizzava la madre. Da quel giorno, il giovane maturò il complesso di Spartaco che lo avrebbe reso famoso, in Massimo M. Veronese, Quando i cattivi erano buoni, il Giornale, 18 dicembre 2005
11. Peter Mac Donald, Rambo III, Usa 1988
12. Renato Farina e Vittorio Feltri, Le parole di Osama, Libero 2005, p. 21. Cfr. Jonathan Randal, Osama, Piemme 2005
13. Dall’apocalisse di Oriana Fallaci: “…avevamo visto Satana, il Mostro con sette teste e dieci corna di cui parla l’evangelista Giovanni. E ci aveva fatto paura, molta paura”, in R. Farina, cit., p. 17
14. Ian Buruma e Avishai Margalit, Occidentalismo, Einaudi 2004, p.131
15. Negli Stati Uniti il movimento dell’homeschooling prospera senza che nessuno abbia niente da ridire. I genitori cristiani che non si fidano dell’istruzione pubblica preferiscono impartire ai figli un’educazione più attenta ai valori religiosi tra le accoglienti mura di casa. John Micklethwait e Adrian Wooldridge, La Destra Giusta, Mondadori 2005, p. 205
16. B. Lewis, cit., p. 58
17. “Gli arabi”, dice ironicamente Said, parlano una lingua “ossificata e incapace di autorigenerarsi”, cit., p. 148
18. E. Said, cit., p. 318
19. “In tutti i suoi romanzi Flaubert associa l’Oriente con l’evasione, sotto forma di fantasticherie sessuali”, E. Said, cit., p. 191
20. Chi indossa il burqa sarà denunciata, Libero, 25 settembre 2005
21. Ayaan Hirsi Ali, Non sottomessa, Einaudi 2005. Infibulata dalla nonna, costretta a un matrimonio combinato dal padre, Hirsi Ali è fuggita dalla Somalia in Europa. Ha lavorato come interprete nelle cliniche abortiste e nei centri per le donne maltrattate e minacciate. Giornalista, intellettuale, ha scritto la sceneggiatura di Submission, il film di Theo Van Gogh ritenuto blasfemo dall’internazionale islamista. I regista olandese è stato punito con otto proiettili di pistola e lo sgozzamento rituale (Amsterdam, 2 novembre 2004). Da allora, Hirsi Ali vive sotto protezione.
22. David Frum, Estirpare il Male, Lindau 2004, p. 209
23. Ayaan Hirsi Ali, “Dieci suggerimenti per le donne che se ne vogliono andare di casa”, in Non sottomessa, pp. 90-99. L’autrice sa essere sempre brillante, pungente, anche quando si tratta di questioni drammatiche, per non dire tragiche: “La tua famiglia farà di tutto per farti ritornare indietro: cercheranno di parlarti, ti minacceranno di ripudiarti, di maledirti o di violenze. ‘Da quando te ne sei andata la mamma sta così male che non riesce più a dormire’ è il genere di rimproveri che si sentirai fare. Sii preparata”, cit., p. 92
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ok,allora mischiamo le carte e complichiamo un po’:).
vi segnalo “una muchacha para los tigres” pezzo di mario vargas llosa pubbicato prima da el pais (spagna), poi da la stampa (italia). Parla delle ultime vicende olandesi di ayaan hirsi ali (submission, somala).
una muchacha para los tigres
http://www.elpais.es/articulo/elpporopi/20060604elpepiopi_5/Tes/muchacha/tigres
il multiculturalismo illiberale, se l’identità collettiva è un lager per l’individuo
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200606articoli/6205girata.asp
Molto difficile non prendere posizione.
In realtà la società islamica è percorsa da tutti i mali di arretratezza e maschilismo che molti stigmatizzano. Così come la società occidentale è preda di tendenze involutive di carattere reazionario, sempre di matrice religiosa (che la religione sia strumento per alcuni è un altro problema).
Forse sono un certo tipo di religioni e di religiosità, con tutto il bagaglio di equivoci e di ipocrisia che le accompagnano, a dovere essere rinnegati e combattuti… Qui, come e più che in Oriente. Solo quando avremo forzatamente ridotto al silenzio in via definitiva i nostri fondamentalisti religiosi (invece di dar loro spazio o addirittura ascoltarli con dubbiosa e cortese apertura) e soprattutto chi in malafede li foraggia per interesse, potremo, ovviamente, cominciare a ridurre al silenzio quelli degli altri.
Wow, che bello.
Grazie, grazie, avercene di articoli così da leggere…