un sorriso di buddha dormiente
di Margherita Carbonaro
Con forza inspira qualche volta e si mette a sedere su una panchina. Le cicale stridono come impazzite. Non devono saper nulla del proprio chiasso, pensa fra sé e sé la ragazza, e probabilmente è così. Non sanno nulla del furore di cui stanno saturando l’aria. È un suono che cresce accumulandosi e poi si distende e cala. Come il meccanismo di un giocattolo, fai più giri con la chiave fino in fondo e poi la carica si svoltola a poco a poco. Ora lo stridio di milioni di cicale si addensa furibondo, si svoltola, si esaurisce, stordisce.
All’entrata del Giardino si era fermata davanti a una bottega di cianfrusaglie e aveva comprato una collana che si era rigirata quattro volte attorno al polso. Sono piccoli fagioli, rossi e ovali, lucidi tanto da sembrare laccati, con cappucci neri in cima, e si incamminano tutti nella stessa direzione lungo il filo.
Ora la ragazza getta un’occhiata ai piccoli fagioli rossi che le cingono il polso, si alza e con un po’ di fiacchezza nel passo, ma è piacevole, pensa, segue il viale diritto e cementato che porta al tempio. È tutto molto curato qui. I prati hanno un colore brillante, segnavia di legno ai crocicchi indicano le direzioni, e mescolato allo stridore delle cicale si sente il ruminio dei tagliaerba. Tanta cura tutt’a un tratto la irrita, la esaspera un poco mentre mangia un gelato bianco che sa di caramello e lo addenta a grandi morsi per finirlo in fretta, prima che possa squagliarsi lungo il bastoncino. Anche i bambini obesi infilati nelle tutine fintofirmate sono irritanti. Strano, pensa, come in tivù non mi capiti mai di vedere pubblicità di budini e merendine. Tante automobili, e infiniti spot sull’amor patrio e il rispetto per gli anziani. Ma forse non ho fatto abbastanza attenzione.
Nel tempio in fondo al viale di cemento Buddha è disteso su un fianco. Si regge il capo con la mano di bronzo, in atteggiamento di parinirvana: sdraiato sul letto di morte impartisce istruzioni ai suoi dodici discepoli. La ragazza lo osserva, trova che abbia un certo non so che, non sa spiegarsi bene cosa. Forse è il modo in cui appoggia la testa al braccio, un gesto superfluo perché il capo sembra non aver bisogno di alcun sostegno per restare inclinato in quella postura. O forse è il suo sorriso. Poi si rende conto che non può essere così, perché il volto di Buddha è impassibile, non sorride. Ma quello di Buddha non è forse un sorriso? si chiede uscendo dal padiglione.
Lungo il viale di cemento che attraversa il Giardino botanico si sofferma alla bancarella di un venditore di bibite. In una vasca di plastica alcune tartarughine annaspano sulla superficie troppo liscia. Accanto, tre gabbie metalliche tonde con dentro tre scoiattoli. Due sono semiavvoltolati su se stessi, sembrano assopiti, il terzo rosicchia affannosamente le sbarre azzurre, senza fermarsi un istante. La ragazza chiede quanto costa.
«Venti renminbi» risponde l’uomo con un ghigno sfacciato.
«Ma li hanno catturati o sono nati in gabbia?»
L’uomo garantisce che sono “di allevamento”, ma è chiaro che non è così. Va bene, va bene, non importa, dice la ragazza che non ha voglia di discutere. Ma esistono allevamenti di scoiattoli? Paga, porgendo con un certo disprezzo i soldi all’uomo, solleva la gabbia dove lo scoiattolo continua a mordere e a dibattersi e si allontana in direzione di una macchia fitta di alberi, dietro la mezza sfera d’acciaio dell’acquario. Apre a poco a poco il filo metallico che chiude la gabbia, facendo attenzione ai denti dello scoiattolo che non si dà pace. All’improvviso la gabbia le sfugge di mano, cade sull’erba alta e morbida che ammortizza, quasi accoglie il colpo. A contatto dell’erba l’animale smette di muoversi, non morde più il metallo, sembra in attesa. Quando la porticina si apre non esita un momento, sguscia fuori leggerissimo e si tuffa nell’erba. Per qualche istante si vedono ancora il dorso e la coda spumosa, confusi nel verde.
All’uscita del Giardino botanico la ragazza estrae dalla borsa la gabbia metallica azzurra, la pesta con un piede per appiattirla e la butta in un cestino dei rifiuti. Si è appena voltata per andarsene che subito una vecchia con una gran borsa si avvicina, infila la mano nella fessura del cestino ed estrae a colpo sicuro la gabbia. Buon ferro da vendere e riciclare, pensa la ragazza.
Poco dopo sale su un taxi, già in attesa nel parcheggio, e da un giovane e corpulento autista con le unghie dei mignoli singolarmente lunghe e curate, che compiaciute di sé sfiorano il volante, la ragazza si fa portare a un altro tempio. È un bel tratto di strada dalla periferia di Pechino, quasi un’ora, verso le colline. Si attraversano quartieri nuovi, di asfalto e cemento ancora freschi, le carreggiate tracciate con amore di vastità e costeggiate da palme di plastica che la sera si accendono, poi una zona che da sempre è insediamento di famiglie di militari, come spiega l’autista agitando in aria il mignolo. Poi si abbandona finalmente tutto il cemento fresco e si comincia a salire, lungo una strada di campagna. Ai bordi c’è soltanto il verde, e vecchie case basse a un piano di mattoni rossastri.
Per qualche motivo il tempio del Grande Risveglio non venne saccheggiato dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione Culturale. Forse era scomodo da raggiungere, isolato fra le colline, e a Pechino e nei suoi dintorni più vicini c’era già tanto da distruggere che era inutile darsi la pena di arrivare fin qui. O forse il motivo è un altro, governato da una casualità ignota. Solo una parte dei padiglioni è stata restaurata. Il resto ha l’aria di non essere stato toccato da almeno cinquant’anni. Attraversato, certo, da persone e intenzioni diverse, ma è come se qualcosa che non si può definire non ne fosse stato ancora scacciato. La ragazza sbircia attraverso la finestra di un piccolo edificio chiuso. Sopra un largo supporto siedono tre figure, incompiute. Statue in costruzione. Lo scheletro di tre statue, per così dire, scheletri molli fatti a quanto sembra di terra e paglia. I corpi hanno forme tonde e smussate, le gambe grosse e pesanti, le braccia goffe posate sulle cosce, e più che posate sembrano stancamente abbandonate, oppresse dall’afa di una giornata estiva che ha sospinto questi tre viandanti obesi a sostare un poco sul sedile di marmo, in attesa che la calura passi e le membra di argilla riprendano vigore. Le teste sono sottili e allungate, sembrano microcefali dall’indole bonaria, ma in potenza hanno in sé chissà quali trasformazioni e trasmigrazioni e colori. Che avranno assunto quando il loro sostare pigro sarà diventato un troneggiare, sotto la futura corazza, dietro le lucide colonne rosse e sormontati dalle decorazioni brillanti che già si intravedono sulla cornice in alto.
Dentro al padiglione centrale è quasi buio. I colori che un tempo coprivano la struttura di legno e le statue è sbiadito e in molti punti scomparso del tutto. La custode siede a un tavolo, in un angolo, e mormorando recita le scritture aperte davanti a sé, sul ripiano grezzo. La ragazza osserva a lungo le colonne senza più colore né lacca, il legno scuro, levigato, inciso da profonde scheggiature. All’improvviso si volta verso il lato destro della sala. Rischiarato un poco dalla luce che proprio in quel punto filtra dalla porta, uno scoiattolo guizza da dietro una gigantesca statua. Fa qualche balzo evanescente, trovando facilmente appiglio nelle sporgenze e nei rilievi delle membra dell’enorme e quasi grottesco guardiano; questo infatti le sembra, un guardiano favoloso che forse nasconde in sé un viandante di paglia e argilla. Lo scoiattolo salta su e giù con la sua coda vaporosa, si slancia verso l’altro guardiano che sta accanto al primo, gli scivola attorno, scompare, riappare, poi svanisce del tutto. Se le statue sono guardiani, lo scoiattolo è un messaggero.
La ragazza rimane a lungo nel cono sbiadito di luce, vicino alle statue dai colori ormai lungamente scialbi. Alle spalle dei guardiani, addossata alla parete, c’è un’altra fila di statue. Sono discepoli, o creature illuminate, bodhisattva o arhat? Testimoni, forse. Non lo sa, non se ne intende. Si confondono con la parete, il dileguare dei colori ha privato di un facile appiglio lo sguardo. C’è una strana densità nello spazio, pensa la ragazza. Non sono tanto le statue certamente antiche, anche se un’immobilità preservata per secoli è diversa da una fissità conquistata solo di recente. Forse è l’aria stessa, che una volta scacciata da un luogo non si lascia più sostituire. Resta ancora qualche minuto in attesa di veder ricomparire lo scoiattolo. Ma non ritorna. Poi getta un ultimo sguardo ed esce.
Pechino, 9 agosto 2006
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mi piace anche l’idea che a pechino sia già domani
Ciao Margherita, che piacere ritrovarti qui.
Complimenti a Helena e a te,
A.
p.s. questo testo mi sembra davvero molto bello.
Una prosa… qual è il contrario ‘bello’ di “aggressiva”?
Se Margherita Carbonaro si ricorda ancora di me, vorrei mandarle un saluto!
E uno anche ad Helena, va’…;-)
Ciao Andrea, ben ritrovato! (in occasione, in qualche modo, cinese…)
p.s. grazie.
E ciao Stefano, naturalmente mi ricordo e ricambio il saluto!
Aggressività… be’, forse è quel che inevitabilmente si sviluppa – bella o brutta che sia – stando per un po’ in questo paese.
M.
Veramente, Margherita, intendevo il contrario: a me questa tua prosa sembra tutt’altro che aggressiva, in senso positivo… Pacata, forse? Saranno le virgole, la paratassi, la regolarità del flusso sintattico, non so… Comunque mi piace.
(In effetti, potevo accorgermene prima, questa ‘calma’ è gia tutte nel titolo…)
Una pacatezza Buddhica in questo narrare che lentanente ti porta ad esplorare, con calma sì, ma inarrestabile. Quasi un mantra.