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L’osteria delle balle

di Valerio Varesi 

Soffiava il vento marino e a Lupazzano andavano le gronde. Tutta la valle era percorsa dal russare dei fossi fin giù verso la Termina di cui s’udiva il rombo incollerito.  Una sera da stare allerta sotto i coppi dove rimbalzavano acquate violente come schiaffi. Se fosse successo qualcosa, se l’acqua avesse fatto la matta, il posto dove cercare aiuto sarebbe stato lì, da Pèpo, nell’osteria alla bocca di strada. Bastava chiamare  e  sarebbe arrivata una squadra: erano ancora in tanti dopotutto.

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Gondo suonava la fisarmonica chiudendo gli occhi come Migliavacca. Lui e le piacentine: non c’era altro. A parte il vino, scuro come il sangue grosso dell’ultima svenata del maiale. Con quel tempo, avevano finito per discorrere di ponti. Ce n’erano due o tre che stavano su per abitudine tra Ceretolo e Sella. Mica quelli del Fascio, si capisce. I ponti erano l’unica cosa che avevano fatto per il diritto. I pericolanti erano quelli vecchi dei tempi di Giolitti, messi su a malta magra con le pietre gessose della cava di Neviano.

“Quello dell’Ariana s’è già aperto che ero bambino”  saltò su Bruchera, il macchinista. “L’acqua gli aveva scavato le pile e lui s’è prillato come un ballerino. I vecchi  dicevano che ci era capitato Flisa col camion e rimorchio proprio mentre la strada sprofondava neanche fosse stata un’assa marcia”.

“Flisa da Magrignano? Quello con la Fiat Lupa?” chiese Gildo Sassi. Lo chiamavano  ‘il sindaco’ perché era sempre ben pettinato e vestito da domenica. Prendeva troppo sul serio sia se stesso che gli altri. E anche questa volta si accorse troppo tardi dei ghigni.

“Lui” insistè Bruchera fissandolo. “La fortuna ha voluto che avesse caricato il rimorchio e non la motrice. Sabbia dell’Enza, col colmo fin sopra le sponde”.

Aveva fatto una pausa per buttare giù una gognata di vino. Quindi aveva schiuso la bocca per tirar dentro anche la schiuma che era rimasta sulle labbra. Gli altri guardavano il ‘sindaco’ con lo stesso occhio con cui osservavano le bertucce degli scimmiari di Monchio l’ultima di Carnevale.

“Flisa andava piano perché si fidava del ponte come del culo di un bambino. Quando è arrivato in mezzo all’arcata con la motrice, la volta s’è spaccata con un ciocco come un osso di vecchio. Allora la ‘Lupa’ è finita nel buco a muso in giù”.

“E addio Flisa” sogghignò Baldi.

“E’ stato fortunato che gli è venuto istintivo frenare. E che aveva appena fatte ripassare le ganasce. Beh, mica vero che la motrice resta impiccata al rimorchio frenato? E Flisa giù a dondolare. Mica mollare, gli sbraitavano dalla spallina del ponte. Tieni giù il piede. Per fortuna che il timone era buono”.

Il ‘sindaco’ alzò le spalle e guardò fuori l’acqua che faceva i chiodi sull’asfalto. Non c’era verso. Adesso gli pareva che lo guardasse sogghignando impercettibilmente anche Gonizzi. Ma fu Baldi a indovinare il punto in cui gli occhi di Sassi erano andati a rifugiarsi. Davvero non c’era verso: non avesse preso sul serio quel discorso…

“Da una parte è meglio così. Fosse stata tutta neve…”

“Come quell’anno – disse proprio Baldi girandosi verso gli altri – che fece un freddo da non far cuocere il pane”.

“A Poldo – disse Gonizzi – gli erano gelate le galline nel pollaio. Al mattino ce n’erano quindici sul bastone, rigide come un cavicchio. Le ha portate in casa e le ha messe sulla stufa per farle sbrinare. Mica vero che, tempo un’ora, si sono messe a cantare?”

“Il freddo stordisce” ridacchiarono in coro osservando ancora il ‘sindaco’.

“E’ stato quell’anno che Mattioli è andato in Svizzera” intervenne Rosati. “Mi ha raccontato che si era fermato a pisciare al ponte delle due Termine e l’orina gli gelava prima di toccare terra”.

“Da allora dicono che piscia il vetro ghiaccio – riprese Baldi – e che ce l’ha duro solo perché è gelato. Quando sua moglie glielo sbrina addio!”

La risata sommerse la fisarmonica di Gondo che rideva anche lui facendola sobbalzare sulla pancia.

“C’è poi arrivato in Svizzera?”

“Ci ha messo quattro giorni perché il treno si fermava ogni trenta chilometri” rispose Rosati. “Colpa del freddo. Adesso non succederebbe con le macchine elettriche, ma allora si andava a carbone. Beh, Mattioli dice che sentiva urlare al fuochista di far fiamma: butta su! butta su! Ma non c’era verso. Ogni trenta chilometri il treno rallentava fino a morire. Solo dalle parti di Luino s’è capito cos’era: per l’aria fredda che prendeva nell’andare, gelava l’acqua dentro la caldaia”.

Il ‘sindaco’ sentì una risata corale e sulla schiena una raffica di pacche da togliergli il fiato. Non c’era verso: quella sera toccava a lui.

“Era un freddo che non si dormiva quell’anno” disse Gonizzi.

“Ci volevano due trapunte e il panno”.

“Se mi avessero dato una di vent’anni, sarei stato anche solo col lenzuolo” sparò Pèpo lontano dalla moglie.

“Mah! – ricominciò Gonizzi – se fossi stato su ai Boschi, sul filo di costa… Ricordo che tirava una sferzina da tagliare la faccia. Avevo slegato le vacche perché stessero a mucchio e il cane s’era scavato la cuccia nella paglia profonda. Verso le dieci vado a letto perché avevo freddo anche sotto le ascelle. Tolgo il prete e le braci e m’infilo tra coperte pesanti come la tomba del vescovo. Appena mi faccio la cuccia, allungo il collo e comincio a soffiare sulla fiamma della candela. Soffia e soffia, non si spegne. Neanche fosse di vetro come i lumini del cimitero. Mi avvicino a tre dita dal fuoco e sputo fuori uno sbuffo da farla capovolgere. Niente. Decido allora di smorzarla con le dita. Le passo sulla lingua e le avvicino alla fiamma: dura e fredda come il marmo. Gelata anche lei!”.

L’unico a rimanere serio era stato il ‘sindaco’, mentre sui coppi sembrava che l’acqua avesse preso il suo ritmo. Bruchera sorrideva con gli occhi a fessura da vecchio tacchino. Ai bordi delle unghie la morchia sembrava crescergli come muschio.

“A Mattioli gli è andata meglio quando è tornato indietro” ricominciò. “Forse perché il treno non ha mica fatto la stessa strada. La Svizzera è un posto curioso: in alto fa freddo, vicino ai laghi sembra d’essere in Liguria. Fatto sta che Mattioli mi ha detto che a un certo punto il treno ha imboccato una galleria in una valle che c’era un metro di neve. Una galleria così lunga che ci hanno viaggiato dentro per mezza giornata senza vedere la luce. Beh, mica vero che sono saltati fuori in un posto dove c’erano le ciliegie mature!”

Non c’era verso. Perché davano le pacche solo a lui? Era anche inutile starci a ragionare ormai che il vino di Pèpo aveva fatto effetto: i pensieri prendevano la rotola e nessuno li fermava più.

“Va là che c’è stato bene in Svizzera!” ricominciò Rosati. “Quei montanari lì sono precisi ma ci hanno la testa fredda come gli zucchini. E lui gliela faceva sempre. Come quella volta che aveva portato via le anatre. Neanche il tempo di tirarle fuori dall’acqua che gli arrivano al pelo le guardie. Ma lui tranquillo, nemmeno una piega. Davanti al commissario s’è spiegato: mica volevo rubarle, gli ha detto. Le ho tirate fuori dall’acqua perché avevo paura che si affogassero”.

“E quella volta del pane?” saltò su Baldi. “Passa sotto alla finestra e vede una donna che scuote lo straccio. Lui si ferma e fa finta che gli caschino i pantaloni. Non ci avrebbe un ago e del filo? E lei: ma se glieli butto giù si perdono. Sa cosa deve fare? Infili l’ago in una micca di pane”.

In quel mentre, Gondo accelerò il ritmo della musica come a sottolineare l’epilogo e il ‘sindaco’ si trovò di nuovo fastidiosamente al centro dell’attenzione. Fuori pioveva senza più rabbia e questo non portava bene.

“Vuol dire che dura” sentenziò Bruchera. “Per una settimana addio caccia”.

“Non si prende più niente”.

“E’ che non ci sono più cacciatori buoni. E non parliamo di cani” disse Baldi.

“Da quando è morto Pinino della Lavinia…” scosse la testa Rosati. Ma si vedeva che avrebbe voluto ridere.

“Che cacciatore, quello. E fortunato. Una volta, lì al mulino di Viola, la cagna aveva fatto alzare una beccaccia e lui le aveva sparato. Combinazione, incrociava un fagiano e con una sola cartuccia li ha fatti secchi tutt’e due. E mentre il fagiano è piombato a sassata su un branco di pernici ammazzandone quattro, la beccaccia è finita col becco sulla testa di una lepre accucciata di fianco a un filare. Mica vero che la lepre prende una botta tale che non muore subito e comincia a sbattere le gambe di dietro raspando e raspando fino a scoprire mezzo chilo di tartufo?”

“L’ha goduta quella cartuccia lì” disse Baldi dando di gomito al ‘sindaco’

Non c’era verso. Non c’era verso davvero.

“Quella lepre l’ha poi venduta a Veraldo che gliel’aveva cercata” ricordò Bruchera. “E per farla pesare di più s’era messo a cavallo di un mucchio di ghiaia tonda infilandogliela, un grano per volta, nel buco del culo con un bastone di sanguinella. Veraldo, che era di buona fede, aveva fatto spanciare il brigadiere dei carabinieri perché era andato a denunciare una razza di lepri che avrebbero mangiato  tutta la strada”.

Veraldo era parente del ‘sindaco’ e a quest’ultimo appariva certo che Bruchera l’avesse tirato fuori apposta. Nel frattempo Baldi, coi suoi occhi grigi, vivi come riverberi tra un  reticolo di grinze, lo scrutava con un’aria talmente seria da non crederci un minuto:

“A Veraldo gliele hanno sempre contate grosse” disse. “Gli andavano a mungere una vacca di nascosto e non s’è mai capito chi fosse. Ci stava attento notte e giorno ma non gli era riuscito di scovare nessuno. Finché, una volta, aveva scoperto chi era: un biscione che entrava dal finestrino e andava a tettare la vacca più comoda. Era talmente lungo che la coda rimaneva nell’argine e la testa nella stalla. Dicono che tettasse fino a che non si gonfiava come la camera d’aria della Guzzi di Massimino da Mediano”.

Un’altra risata si riversò addosso al ‘sindaco’ come la pioggia sui tetti. E lui si ripeteva che non c’era verso. Non capiva solo perché toccasse sempre a lui.

“Veraldo aveva raccontato del biscione a Sisèn da Urzano, quello che girava col furgone a raccattare su il ferro” proseguì Baldi. “Ma Sisèn non ci aveva mica creduto. Lui che girava il mondo la sapeva lunga. E allora, per risposta, gliene aveva raccontato un’altra. Una sera, aveva attaccato, venivo su da Traversetolo col furgone e pioveva che sembrava non avesse mai piovuto. Quando arrivo alla voltata della petroliera, sento un ciocco e vedo un fanale che si stacca come avesse preso la lama di una scure. Pioveva tanto forte che ho pensato: domattina  buonora vengo giù e lo vado a cercare nella cunetta. Difatti, il giorno dopo, lo trovo che era rotolato fino sotto il ponte della Rasa. Beh, mica vero che era ancora acceso! Veraldo era di buona fede, ma questa gli era apparsa troppo grossa. E allora aveva cominciato a ridere. Tanto che Sisèn gli aveva proposto un patto: te scorcia il tuo biscione che io spengo il mio fanale”.

Rosati, che aveva quattro denti in tutto,  s’era messo a ridere mostrandoli, gialli e scheggiati come i paracarri della provinciale.

“Sisèn ha fatto male a non credere al biscione” disse. “Se te tagli una biscia e non l’ammazzi, ci salta fuori un biscione. E poi il mondo è pieno di bestie fuori dal normale. Una volta Pinino della Lavinia, su al Torrione, ha sparato credendo di prendere una beccaccia, ma quando il cane gliel’ha portato, ha visto che era un rondone di sette chili”.

L’enorme mano callosa di Baldi stava scotendo il ‘sindaco’, mentre Bruchera continuava a dire “va’ là, va’ là” con una cantilena che non gli piaceva.

“Lì al Torrione ne sono sempre successe delle belle” riprese Gonizzi. “Pare che sia sempre così nelle pinete. Ci si vede e ci si sente: più d’uno mi ha detto che di notte è apparso un uomo tutto vestito di bianco. Bianca anche la faccia, color della luna. Oppure si sono viste delle luci comparire tra la frasca”.

Tutti si fecero seri, ma il ‘sindaco’ ebbe l’impressione che stessero per scoppiare a ridere. Difatti, a Bruchera venne in mente di Stèco e della sua bicicletta.

“Quello che dicono non l’ho mai visto né sentito, ma state sicuri che lì c’è qualcosa di strano. Stèco veniva giù da Lupazzano a pedale morto. Mica vero che quando imbocca il Torrione, al primo tornante, gli crepa una gomma? Uno sbrago lungo un braccio che la camera d’aria salta fuori come l’acqua da un tubo. Vai mai a pensare che gancia per il collo Stèco e ad ogni giro di ruota gli sbatte la fronte sul manubrio!”

La pioggia continuava a cadere leggera e costante. Sul tetto, nelle pause dei discorsi, si udiva uno sgocciolare insistente di acquaio. In un angolo, solo, Tògno aveva preso la ciocca scolandosi in silenzio una bottiglia di vino come la terra assorbiva l’acqua. E dovevano essere le tre perché l’Idolina lo era venuto a prendere con la carretta. Entrava nell’osteria, lo caricava, e se lo portava a casa sulla ruota.

“Quando arriva, lo scarica come sabbia vicino al camino e lei va a letto” informò Baldi.

“Dopo la storia della talpa, non lo prende più sul serio nemmeno sua moglie” continuò.

“Dicono che lo tenga solo per uno scopo” ghignò Rosati. “E poi dicono che alle donne non interessa…”

“Certo che la storia della talpa…” insisté Baldi.

Al ‘sindaco’ forse scappò un’espressione di curiosità. Forse, ma appena. Forse gli altri continuavano col loro fare sfacciato. Non c’era verso. Proprio no.

“Quella talpa era come la tempesta secca” proseguì Baldi. “Tempo un’estate e s’era mangiata tutti gli orti di Paderna. Poi, una volta fatte fuori le radici, aveva cominciato a mangiare i pali della luce col catrame e tutto. Al primo vento se n’erano coricati una dozzina e la linea era saltata. Mica vero che un giorno il figlio di Stèco la becca sotto un filare e la carica sul badile per farla vedere a tutti. Che morte le fai fare? Gli chiedono. Ci pensa mio papà, dice lui. Il giorno dopo gli ripetono la domanda e lui risponde: la morte più brutta che c’è. L’avete bruciata? Tagliata a pezzi? L’avete data al cane? No, dice, l’abbiamo seppellita viva”.

“E quella volta che gli avevano scaricato la terra contro il portone?” saltò su Rosati. “A maggio si  scherza e si porta via la roba. A Stèco gliene avevano portata in più. Un mucchio di terra creta, grigia come la fumana. Stèco, sei l’unico che non gli manca niente e che ci ha qualcosa in più, gli dicevano. Ma adesso dove la metto? rispondeva lui. Mica vero che passa Ottorino e gli dice serio: cosa stai lì tanto a ragionare, fai un buco e buttacela dentro, no?”

E a ragionare di buchi, a Bruchera venne in mente di quando Monica aveva fatto maturare le prugne per la signora Regolina, la padrona.

“Arrivava a giugno, coi primi caldi e iniziava a dare ordini. Come tutti quelli di città, non sapeva una forca di cos’è la campagna e pretendeva di mangiare le prugne per il Corpus Domini. Diceva che gliele rubavano di nascosto per non fargliele godere. Allora, una volta, Monica gliel’ha fatta grossa. Ha preso un cesto di prugne moscatelle appena bionde e ancora dure. Ad una ad una le ha infilate nel culo della vacca più vecchia ed ha aspettato il momento buono che la facesse. Beh, non vi dico com’erano maturate: uscite bell’e cotte come al sole di luglio”.

Gonizzi posò una mano sulla spalla del ‘sindaco’, ma questa volta stancamente. A tutti era rimasto sulla bocca un sorriso stento. La mano continuava a premergli leggermente la spalla, quasi con timidezza. Era grato a Gonizzi per quello. Sembrava volesse consolarlo. Solo non capiva perché a volte… Ma non c’era verso, capitava sempre a lui. La pioggia aveva deciso di morire lenta finendo in nebbia. L’avrebbero scampata anche stavolta. E l’autunno stava per chiudersi. Il ‘sindaco’ si alzò di scatto cogliendoli di sorpresa. Al punto che, per alcuni istanti, lo presero sul serio.

“Non si decide a far giorno” disse uscendo. Tanto, non c’era verso.

57 COMMENTS

  1. “SOFFIAVA il vento marino e a Lupazzano ANDAVANO le gronde. Tutta la valle era percorsa dal RUSSARE dei fossi fin giù verso la Termina di cui s’udiva il rombo INCOLLERITO.”
    Esempio di antropomorfizzazione nella percezione fenomenica del reale.
    Più o meno quello che Walt Disney fa con gli animali quando li fa parlare.
    I fossi russano, si incolleriscono.
    Mi fermo qui, anche nella lettura.
    Solo due domande: dove “andavano” le gronde? Quand’è che una gronda “va”?

  2. Tash, in letteratura le gronde vanno che è un piacere. E in letteratura la percezione fenomenica del reale si antropomorfizza che è un piacere altrettanto.

    A proposito: hai bevuto oggi una tazzina di caffé? Sì? Errore! la tazzina era di porcellana: hai bevuto il caffé contenuto nella tazzina, no? ;-)

  3. Che palle gli urbanisti della letteratura, questo va e questo non va, ma fate i vigili urbani invece dei chiosatori benedettini poi magari “se solo ti distrai” scrivono pure loro i raccontini perfettini dove le gronde non vanno e chi gli farà le pulci non si firmerà con pseudonimo, ma con nome e cognome. E Lì sono cavoli.

  4. @biondillo
    esprimo solo, da lettore, una mia sommessa idea di scrittura – mi guardo bene dal parlare di “letteratura” – gianni.
    (lasciamo la letteratura ai programmi di liceo e occupiamoci di come si possa scrivere oggi).
    in questa idea c’è che la metafora eletta a sistema di “insaporimento” della scrittura non funziona, perché invece di fungere da esaltatore di sapidità, diventa una specie di inutile pavoneggiamento di parole in passerella, soprattutto quando vira nell’animismo, come nell’esempio qui sopra.
    il fosso “russa” come la teiera che “borbotta”, capisci?
    tu scriveresti che la teiera “borbotta”?
    questo mi è sembrato di vedere nell’incipit citato.
    da lettore sono convinto che sulla pagina la metafora deve costituire un evento raro e solo quando è indispensabile per ottenere una sorta di necessario sovrappiù di comunicazione, di emozione, ecc.
    poi magari se mi spieghi tu, o biondillo, cosa significa che le gronde vanno che è un piascere.

  5. L’acqua nelle gronde andava diventa le gronde andavano per la stessa ragione che fa sì che un caffé in una tazzina diventa una tazzina di caffè. Trattasi di figure retoriche conosciute col nome di “sineddoche” e “metonimia”.

    In questo racconto Varesi mimetizza la sua scrittura col linguaggio da osteria della bassa. Linguaggio molto figurativo e molto padano, me ne rendo conto. Forse a Roma non tocca.

    Ovviamente: ;-)

  6. Il fosso non è la parte di un Tutto (metti l’Universo) che russa perchè il Tutto non russa. E’ una metafora eccessiva, che prende i bambini, ma non i lettori
    alla tashtego

  7. ti pare esprimere una tua “sommessa” idea di scrittura il tuo primo intervento? io non discuto quell’intervento. discuto il secondo, invece. nel primo fai dello spirito sulla scrittura di varesi (non ti parlo dei libri che ha pubblicato, sono “gialli”, romanzi di genere, come dicono quelli che scrivono bene – cioè perlomeno lo pensano), e non esprimi una tua sommessa idea di scrittura, fai solo dello spirito. secondariamente, aggiusti il tiro, perchè il tuo “collega” architetto biondillo fa un giusto “rilievo”. ma che hai da sparare sempre e comunque, dico io? t’è andata di traverso la rivoluzione? o il compromesso storico? o quel blob indifferenziato che era la sinistra italiana – tutta – negli anni 70?

  8. L’eterna Italia della provincia, anzi, delle province, uno pensa che non ci sia più, e invece c’è. Cambia lentamente, anche se cambia, e nella stessa stanza ci può essere un collegamento a internet e la pentola della strega.
    La bassa è meno esotica della sicilia di camilleri o della sardegna di niffoi, ma per i cittadini sempre esotica è.
    La lingua del racconto le corrisponde, non innovativa, non sottoposta a critica, anzi, mimetica, colorita, espressiva, nostalgica, più in sintonia con gli anni cinquanta che con i nostri, il nostro passato che non passa.

  9. Pro tash: il fosso che russa è metafora, lo so pur’io. Ma non è quello l’esempio da me fatto supra.

    E in generale: stiamo cavillando tutti. Io per primo. Moratoriamoci, no?

    Franz, dai: peace & love.

  10. caro gianni, te lo dico col cuore strapieno di buoni sentimenti: peace and love un cazzo.

  11. Il fosso russa; davvero viene in mente disney, non certo il gorgoglio di un fosso, il te borbotta, la caffettiera fischia, siamo nel comune di castelnuovo sotto?

  12. @franz
    molto elegante il tuo commento, soprattutto nel merito.
    Ovviamente non facevo dello spirito, ma ironizzavo (è diverso) al preciso scopo di mettere in luce un aspetto della scrittura del pezzo postato che non mi convince affatto.
    Questo è un blog dove si parla di scrittura oppure no?
    Se sì, allora credo di essere completamente in tema se critico l’incipit del racconto di Varesi ( di cui non sono tenuto, se permetti, a conoscere l’intera produzione libresca per commentare quattro righe di racconto: per me può anche aver composto l’etica nicomachea, che la cosa non mi spost di una virgola).
    Sei tu che vai sgradevolmente (e arrogantemente e, aggiungo, volgarmente) fuori tema quando mi chiedi: “t’è andata di traverso la rivoluzione? o il compromesso storico? o quel blob indifferenziato che era la sinistra italiana – tutta – negli anni 70?”
    Almeno sai qualcosa delle cose, completamente fuori argomento, di cui mi chiedi?
    @biondillo
    siamo sicuri che nelle osterie della bassa si dice dei fossi che “russano incolleriti”?

  13. Un giovane

    Alfonso Donati aveva diciassette anni.
    Camminava come se la campagna si allargasse sempre di più, ad ogni suo passo. Siena si rannicchiava, e le sue case doventavano sempre di meno. Le colline, differenti l’una dall’altra, scendevano al borro nascosto giù tra la fila doppia dei pioppi; e ognuna aveva i suoi vigneti. Mazzi di cipressi si stringevano insieme, sulla proda di qualche dirupo; e la serenità dell’aria si vedeva sopra tutte le cose come una rugiada. I pioppi erano chiari.
    Ma Alfonso era in uno di quei momenti quando la giovinezza è attraversata da qualche melanconia che spaventa; quasi dall’odore della morte.

    …..

    Ecco il modello, per altro inarrivabile.

  14. ecco, appunto… perché tu, dario e lui non vi aprite il vostro bloghettino e andate a scribacchiare lì senza rompere qui?

  15. Lapo, dici a me? cioè tu sarei io? visto che non sono dario e sono femmina…

    Ma figurati, certo che posso smettere di venire qui, non me l’ha mica ordinato il dottore, tra l’altro non mi diverto neppure più come prima. basta che un paio di indiani brevettati mi esternino il loro disappunto sono pronta a scomparire.

    Cmq, ero tornata per aggiungere l’autore del frammento qui sopra, che è Tozzi.

  16. lapilla sei un po’ troppo sbrigativa, poi te ne ripenti, sono sicuro che se io e tash e dario aprissimo una merceria tu verresti spesso a comprare i nostri filati, un bacio

  17. Tra una cosa e un’altra ho pensato che le cose non stanno proprio così. Ma si gioca a tirare dadi truccati e le cose sembrano come sono andate. Una tazzina di caffè è unità di misura, si beve una tazzina di caffe per indicare la quantità. Altrimenti si beve un bicchiere di vino, e così si va avanti. Ma se poi si vuole essere più precisi, allora bisogna dire che l’arte di scrivere non esiste. Esiste l’uomo e la sua onesta, i trucchi li lasciamo ai mediocri. Se poi qui qualcuno vuole giocare a fare il colto allora si può fare e gli posso spegare che le cose sono ancora più semplici. Ma spiegare cose semplici è come scrivere direttamente. Ma porole come direttamente e scrivere passano per serbatoi vuoti. Poi succede che invece quello che è un gioco, un racconto che è gioco a fare i ragazzi che non vogliono crescere, e vedono tutto grande con occhialoni, passa per altre cose. E se le altre cose sono le allegorie, queste sono sempre sbagliate, perchè non portano da nessuna parte.

  18. A me piace questo ritmare la prosa tanto da farla suonare,
    che le parole quasi perdono il loro senso per darti un tono,
    musicale dico,
    però qui trovo un eccesso,
    che la ricerca è troppo d’artificio, e si perde
    1. l’armonia
    2. la storia stessa si diluisce
    e il lettore, (io), si sperde.

    Ritrovo una eco pavesiana, però nella mimesi dialettale Pavese sapeva tenersi, trattenersi e rendere secco il discorso.
    Non è brutto il racconto, tutt’altro, ma andrebbe moderato, asciugato per renderlo veramente sentito.
    Qui è prevalsa la maniera tanto da non sembrare sincero, preciso,
    e tanto che la forma sia tutt’uno con l’intimo dello scrittore.
    MarioB.

  19. tash, è comico che tu dia dell’arrogante a me. me lo merito, certo, ma non era più “nel merito” chiamarmi “collega”?
    prima di criticare varesi o pincopallo o cazzochetisifrega sei tenuto eccome a leggerti TUTTO IL PEZZO e non limitarti all’incipit. tra l’altro, dai un cattivissimo esempio. a mio avviso. e non esiste solo la forma, c’è anche il fottutissimo contenuto. o no?
    sugli anni 70 ne so abbastanza. so anche come la pensi. io, per dire, in quegli anni me ne stavio rintanato in casa progettando attentati terroristici contro tutti quei coglioni dell’ultrasinistra che ci sfondavano l’udito e i nervi con i loro slogan. tu sarai stato uno di quelli. scusa lavolgarità molto “de destra”.

  20. io non riesco più a leggere un post senza chiedermi con ansia: a che punto interromperà la lettura tashtego? si fermerà all’incipit o andrà avanti ancora un po’? ormai lui è un faro, che dico? un semaforo: verde gli “piasce” (praticamente mai), rosso non gli “piasce” (praticamente sempre). l’annuncio del nobel a pamuk l’ho fatto apposta senza testo per fregarlo, ma lui non ci è cascato sicuramente, si sarà fermato a metà della foto. non gliela si fa, c’è un cazzo da fare. però dovrebbe finirla con la palla dell’ateismo, lo sanno tutti che prima di andare a dormire prega sempre (“dacci oggi il nostro parere quotidiano”).

  21. sciur tashtego, non dia retta a questi signori. io, come ben sa, la seguo da sempre, cioè da quando morì stalin; e fu allora che lei eresse un altare alla memoria di lui. salvo giustamente pentirsene a budapest. o era ankara? comunque, il signor franz e il signor birrasuipantaloni sono chiaramente dei volgari e banali aspiratori (o aspiranti?) tuttologi. (o tuttologhi). come me, si, che brigo a destra ma soprattutto a manca (seguo l’esempio!) per diventare come lei, uno che dà il suo parere su tutto senza capirci un cazzo. ma come fa? come fa a essere così saputo? complimenti. guardi, io il racconto di varesi non l’ho letto. mi sono fermato all’incipit. anzi, l’ho saltato proprio, ho letto soltanto il suo parere negativo. e tanto, carissimo tashtego, mi basta.
    grazie di esistere.

  22. il tash delle 15.37 è un già un cult, così come l’espresso pro tash delle 19.01: due treni che non vanno da nessuna parte, perché non sono mai partiti.

    io sto ancora cercando la “metafora” nel testo di Varesi… peccato che non ce ne sia nemmeno una, a meno di non voler ritenere tali quelle che indicano i due capistazione, dopo aver consultato le dispense settimanali della scuola radioelettra o la ristampa delle farneticazioni di Taine.

    ma forse il problema è molto più semplice: per questi vagoni senza viaggiatori, qualsiasi binario (pardon: funzione) imbocchi il linguaggio, fuori dalla pura e semplice rappresentazione categoriale, in contrapposizione al puro ordine/ordito/ordigno logico, sia sul piano della struttura che dei significati, esso/essa cade fuori dal controllo e dalla gestione e, quindi, in quanto refrattario al dire che enumera e spiega, che ordina e compone, va rigettato/a.

    la parentesi in guisa di chiosa epigrafica, poi, sfiora il comico involontario di pirandelliana memoria, cioè il “sublime de noantri”:

    “(lasciamo la letteratura ai programmi di liceo e occupiamoci di come si possa scrivere oggi)”

    e, di grazia, com’è che si può/deve scrivere oggi?

    prima o poi, vedrete, ce lo spiegherà.

  23. chiedo al capo tribu del brefotrofio:

    per essere una metafora cosa doveva dire, il fosso miagola?

  24. i due treni sono certamente una metafora, stupidotta, ma pur sempre una metafora, le dispense settimanali sono una irritazione della pelle, stavo per dire palle, ma sarebbe stata una improprietà

  25. in difesa di tashtego ci sono io, moreschik, il primo supereroe con la barba! indietro, gente di poca fede! sono una creatura di barbieri, l’uomo che ammolla qualsiasi discorso. state discutendo di thomas mann? e lui parte con paolo nori che non c’entra un beato favonio. un grande. state discutendo di hindemith? e lui ti spara il commento sull’ultimo fumettaro del kaiser conosciuto – nel mondo – da lui, suo cugino, e un francese che poi è l’amico d’infanzia del fumettaro medesimo. insomma, a barbieri non poteva mancare la scoperta di me medesimo, il diabolik delle lettere, il supereroe con la barba, il caotico moreschik. dietro a me, ben la scarpa e la donna biodegradabile.
    e presto supertashtego!

  26. senti, pro tash, cambia il locomotore e poi ne riparliamo.

    e, in ogni caso, leggi prima il testo, se no tu e il tuo eroe ci fate solo la figura dei pirla.

    lasciate stare metafore, sinestesie, iperboli, analogie, allegorie e quant’altro: non è pane per i vostri dentini da latte.

  27. La saccenza e quel senso di ragione assoluta che invade quasi tutti i creatori/senatori di nazione indiana confermano un dato di fatto: oggi non si fa più letteratura, ma mercatini della scrittura dove un racconto o una poesia sono più genuini, più moderni o più incisivi di quelli della concorrenza. Ormai ad ogni post segue una sequela di commenti in cui la discussione sulla forma e/o contenuto degenera in gare a chi scrive il commento più offensivo. Vi invito gentilmente (sperando di non incappare in qualche insulto o ironia) a leggere le discussioni – costruttive – sollevate da signori del calibro di Francesco Marotta, tanto per proporre un esempio. Esistono ancora scrittori che sanno leggere?

  28. nickchilometricosenzafantasiachefarideresoloicompagnidimerenda, ascolta:
    io ho studiato geometria analitica e so bene che differenza c’è fra una conica e un’allegoria, quest’ultima non si può digitalizzare, la tua testa invece sì

  29. meglio essere l’allegoria di se stessi che un vuoto a perdere, l’inventore di commenti su un testo senza averlo mai letto.

    fate bene a non metterci il nome, perché state toccando livelli di ridicolaggine indicibili. ci sono tanti bei blog dove si sparano cazzate a getto continuo, provate a frequentare quelli, lì almeno nuotate nel vostro mare.

    addio, espertoni della domenica.

  30. Scusate, intervengo sommessamente in questa discussione che mi ha sbigottito. Non pensavo di creare un pandemonio simile! Per fortuna ho buoni avvocati (grazie Gianni e grazie Franz!) perché la veemenza con cui sono stato attaccato è forse degna di miglior causa. Il racconto è solo un tentativo di aderire sintatticamente e nella coloritura del lessico al dialetto emiliano senza arrivare a una vera e propria opera di ibridazione come quella di Camilleri. Tutto qui. Non mi prefiggevo certo altri scopi né di “fare letteratura” innovativa. Un divertissement: ci siamo intesi? Chi ha letto altro di me sa che non scrivo così, ho solo voluto provare, in un raccontino, a portare sulla pagina un pezzetto di tradizione orale da osteria. Quindi, per favore calmatevi. Avete il diritto di dire tutto e io non sono certo quello che rifiuta i giudizi. Ciò che non tollero sono le offese. Oltretutto sparate da sigle con le quali io faccio fatica a dialogare. Almeno firmatevi! O avete paura di esporvi? Viva la libera espressione ma fra persone con nome e cognome. Diversamente sono lettere anonime. Non ho nessun rancore, ma quel che mi rattrista è constare che il modello televisivo dell’urlo, della lite (magari fasulla), dell’invettiva per bucare lo schermo è passato anche nei siti in cui si discute di letteratura. In cosa possiamo sperare allora? Per dirla schietta, caro Tashtego, sei liberissimo di crocefiggermi per le mie quattro righe, ma dimmi semplicemente che non ti piace com’è scritto quel racconto spiegando le tue ragioni. Perché devi offendere e inveire come un Savonarola della letteratura? Tranquillizzati, te lo dico amichevolmente, fraternamente. Tanto qui non c’è nessun audience da alzare.
    Scusate il disturbo
    Valerio Varesi

  31. Boh,
    io la mia opinion l’ho detta
    senza cacar nessuno,
    senza giudizio drastico veruno,
    però tutto si perse
    in diatribe diverse,
    ciò non fa onor all’anonima gente
    che per dar battaglia a Tashtego,
    finì in un:
    del testo soprastante me ne frego

    MarioB.

  32. Hai ragione MarioB. Scusami se ti ho trascurato nel mio messaggio. La tua è una critica civile e costruttiva. Non ti conosco, ma ti saluto con affetto.
    Valerio Varesi

  33. mah,
    io la mia opinion pure la dico
    con tanto di riguardo per ciascuno
    e se pure al novero mi aggiungo
    dell’anonima gente trolleggiante
    io ti ricordo, mario, valente cartogràfo
    che fu il tuo amico a cominciar la pugna:
    niuno diede mai battaglia al prode tash
    fu lui a erompere con impeto dal guado
    gridando impettito ai quattro venti
    “del testo soprastante me ne frego”

    e grande fu stupore tra gli astanti
    se pensi che giammai il tash di ieri
    sarebbe caduto in tale falla:
    avrebbe detto “peste” come è giusto
    quand’uno non apprezza ciò che è pòrto
    ma solo dopo aver saggiato la pietanza

    p.s.

    non adirarti tu, mio cartogràfo
    il motto con accento dislocato
    non è dileggio né cosa di simìl natura:
    l’è che mi serviva una parola piàna.

    con questo riverisco e ti saluto.

  34. Veramente neppure io volevo offendere. Spero anzi di non averlo fatto e se ho dato questa impressione mi scuso. Io fatto che io abbia cercato il modello (che considero grande, insomma, Tozzi non è certo uno scrittore da poco) era perchè il pezzo mi aveva spinto a una riflessione sui tipi di scrittura esistenti. E di Italie. Non penso che debba essere sempre innovativa. Credo che ogni ciambella abbia il suo specifico buco. C’è chi cerca nuovi modi e chi racconta nuove storie, o anche storie non innovative eppure fa libri godibili.

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