Lettres de Naples/Aldo Masullo

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da POROS, Idee su Napoli e variazioni sul tema del Mediterraneo, Marco Valerio Editore, 2002.
PRESSO LE COSE ULTIME.
Sospensione e seduzione dell’accedere
di
Aldo Masullo

La filosofia in genere completa una giornata; questa volta completa solo una mezza giornata e naturalmente l’inconveniente dell’uccello di Minerva è che levandosi dopo una giornata, o almeno una mezza giornata, piuttosto faticosa, trovi i propri ascoltatori propensi più al sonno che non all’ascolto. Ma la filosofia è sfacciata per sua natura e quindi non esita ad affrontare questo rischio. Tanto più quando come in questo caso si tratta di parlare di una specie di particolare rapporto: tra la filosofia e Napoli.
Tutti voi avete udito questa mattina, sia dalla bella introduzione di Nora Puntillo sia dalle considerazioni sempre molto ricche di Sergio Piro, che in fondo i napoletani non è che non si muovano, come molti altri popoli: si muovono. Solo che si muovono non con uno spostamento orizzontale ma con uno spostamento verticale: dall’alto verso il basso, poi risalgono, ridiscendono, si fermano a mezza strada e decidono se proseguire o risalire.

Questo fatto non è senza una grande importanza dal punto di vista della comprensione del napoletano. E per dare a voi tutti, per lo meno ai non-napoletani, un’immagine direi pre-filosofica dell’essere napoletano, dell’esistenza napoletana, vorrei evocare una figura che in genere nelle accademie filosofiche non trova posto: la figura di Pulcinella, questa grande maschera napoletana. Quella di Pulcinella è una figura particolarmente interessante.
Anch’io, come Sergio Piro, sono un immigrato napoletano, che ha sofferto molto della sua immigrazione e dello scontro fra due culture opposte.

Di nascita meridionale ma cresciuto a Torino: trapiantato a Napoli, qualche difficoltà vi confesso che l’ho avuta e probabilmente uno psicanalista riuscirebbe a trovare anche le falde profonde, le crepe che questa mia vicenda ancora conserva dentro di me. Ma da napoletano sia pure immigrato, devo dire che la figura di Pulcinella è una figura di estrema ricchezza e per dare subito una prima idea di questa ricchezza, vorrei ricordare il famoso “teatro delle guarrattelle”, cioè il teatrino che nei giardini pubblici o nei vicoli un burattinaio ambulante portava, mettendo se stesso nascosto dietro un pannetto. Il ragazzo, o anche l’adulto, vedeva soltanto una sorta di finestra che era il palcoscenico: si muovevano i pupi, agli occhi dello spettatore, ma il puparo, quello che muoveva, rimaneva nascosto.

Tra i personaggi più frequentemente incontrati da Pulcinella c’è non soltanto il Guappo, poco prima evocato dall’amico Piro, ma c’è anche l’anima del Purgatorio; e non è senza significato il fatto che i quartieri napoletani popolari, quelli autenticamente napoletani – non quelli di immigrati – siano costellati a questo o a quell’angolo, a questo o a quello spigolo di edificio, da alcune edicolette votive nelle quali non si trova tanto la Madonna o qualche santo, quanto le anime del Purgatorio. Sono edicolette molto caratteristiche, molto interessanti dal punto di vista antropologico-culturale, edicolette nelle quali le anime del Purgatorio vengono raffigurate in modo molto rozzo come tante figurine che emergono dalle fiamme e che levano le mani al cielo, guardando verso l’alto.

Dunque abitano Napoli le anime del Purgatorio: non i diavoli dell’Inferno o gli Angeli del Cielo, ma le Anime del Purgatorio. Sono abitatori di una popolazione intermedia, la quale non ha altro destino che quello di tentare di salvarsi da maggiori profondità e di elevarsi verso una definitiva salvezza. E per le Anime del Purgatorio i napoletani pregano – nella devozione napoletana è fortissima la preghiera per le anime del Purgatorio -, le anime del Purgatorio sono appunto dei soggetti, diciamo anche delle inesistenze esistenti, o delle esistenze inesistenti, le quali non hanno altro movimento nel proprio destino se non quello verticale, del salire e dello scendere. Avete mai visto un’anima del Purgatorio per la strada? No, non l’avete mai incontrata da nessuna parte. Qualche volta forse negli uffici pubblici: ma allora sono normali cittadini. Le anime del Purgatorio autentiche sono appunto queste, che hanno un proprio movimento che nessun altro normale abitatore del mondo civile ha: quello della verticalità.

Ora, che cosa significa questo? Significa che ciò che incarna nella forma più espressiva la condizione di esistenza del napoletano è la sua totale, completa assenza dalla Storia: il napoletano è un popolo che a un certo punto della sua vita è stato espulso da una Storia che cominciava e a cui non ha avuto accesso. Ed è strano, è paradossale perché in fondo si dice che la storia sia nata a Napoli; l’idea della Storia: Vico, l’idea della Storia come idea di una forma del processo, di un sistema di regole del processo, di una forza provvidenziale la quale ha gettato sì l’uomo nel processo del tempo ma ha dato all’uomo alcune forme mentali in forza delle quali l’uomo non si disperde in questo processo; si può semmai corrompere allo stremo ma, proprio quando è giunto al fondo della sua corruzione, risale.

E già qui, nello storicismo vichiano, come vedete, è molto forte l’idea del movimento verticale: bisogna giungere fino al punto più basso per poter sperare di ricominciare a salire. Ancora, Napoli ha nei suoi processi culturali, nelle sue trasformazioni culturali, dei momenti di altissima modernità; dopo Vico abbiamo nel ‘700 napoletano la presenza non dell’Illuminismo napoletano – quasi che Napoli ne ripetesse i moduli – ma abbiamo la circolazione di un autonomo illuminismo napoletano insieme all’Illuminismo europeo, con quello francese in modo particolare. Abbiamo a Napoli il Genovesi, che è il primo filosofo dell’economia, colui che istituisce la prima cattedra di economia politica e abbiamo a Napoli i grandi giureconsulti tra i quali il sommo Mario Pagano, che fu l’anima della rivoluzione del ’99. I testi di Pagano sono testi di una concezione giuridica estremamente avanzata, tra le più avanzate dell’illuminismo europeo.

Dunque, a Napoli non è che non ci siano state presenze dell’idea della Storia, presenze di una elaborazione razionale della condizione dell’uomo che non è soltanto tempo ma costruzione del suo stesso modo di essere – e quindi è cultura, storia -; questo a Napoli lo si è sempre ben saputo, forse molto prima che presso altre culture. Tuttavia, mentre nel 1789 qui a Parigi la Bastiglia è presa dal popolo, e anche se il popolo è sempre per lo più uno strumento, comunque strumento riconosciuto, a Napoli questo non è avvenuto. La rivoluzione del ’99 è finita nel sangue, e non nel sangue del re decapitato ma nel sangue di coloro che, nobili o borghesi illuminati, avevano tentato il grande processo di trasformazione; e sangue anche di alcuni napoletani – Michele o’ Pazzo per esempio – con il proprio ignaro entusiasmo. Ma ignaro non significa incosciente, perché Michele o’ Pazzo non conosceva la Storia, la Storia che si legge sui libri, non conosceva i libri dei giuristi illuminati, ma diceva ai suoi compagni popolani, ai suoi lazzaroni: “Perché dobbiamo dipendere dagli altri, perché o’ signore dev’essere signore, comandarmi, ed io non ho nessun diritto?” Vi era questa, direi, naturale comprensione della drammaticità del conflitto sociale in una situazione in cui anche il conflitto era ancora sostanzialmente soppresso.

La rivoluzione viene repressa, come si sa, e successivamente il popolo napoletano non ha più partecipato a nulla: è uscito dalla Storia. Egli non fa che ripetere se stesso, i propri schemi, le proprie ubbie, le proprie fantasie…Sì, la “fantasia del napoletano”: ma che cos’è la fantasia se non il luogo in cui ci si rifugia quando la realtà non è più governabile? E la fantasia stessa, naturalmente, non rimane pura fantasia, invenzione, ma si coagula in forme che si ripetono e quindi ecco che la fantasia del napoletano diventa una fantasia controllata, che non è poi tanto fantastica e che non è altro se non la organizzazione liturgica dei suoi mali. Pulcinella è questo, l’anima del Purgatorio è questo: l’anima del Purgatorio non si è perduta del tutto, non è andata all’Inferno; nonostante le grandi cavità che caratterizzano il suolo di Napoli, in fondo il napoletano in un modo o in un altro in queste cavità si è mosso, si è rifugiato, quindi non si è perduto. Ma neanche è andato in Paradiso, d’altra parte nessuno va in Paradiso, ma il napoletano meno che gli altri: rimane anima del Purgatorio, rimane come il ciclista che riesce a stare in equilibrio senza muoversi orizzontalmente.

Il napoletano sta in equilibrio sulla sua immobilità, un equilibrio che comporta ovviamente una straordinaria capacità di governare il movimento attraverso il quale si rimane immobili. Ecco, le anime del Purgatorio. Ora, l’idea della Storia, nata proprio a Napoli, con Vico prima e direi tradotta, uscita fuori da ogni protezione provvidenzialistica con la scelta drammatica della rivoluzione poi soffocata, è un’idea che prorompe nella civiltà occidentale europea del secolo decimonono e prorompe quando la Storia non si fa più con la minuscola ma con la maiuscola – si faceva anche prima, ma adesso con un significato nuovo: la Storia che non è più la storia dei grandi sovrani e dei grandi condottieri ma è la storia delle varie borghesie europee che attraverso istituzioni talvolta repubblicane talvolta monarchiche trasformano il processo di sviluppo dell’industrialismo e del capitalismo tipicamente europei in un grande scenario storico in cui vi sono momenti di straordinaria tragicità come il conflitto franco-prussiano a metà dell’ ‘800: la Storia con la maiuscola, la Storia di cui parlava Hegel, padre appunto dello storicismo.

Certo lo storicismo non è puramente e semplicemente l’afferrarsi all’idea della Storia: lo storicismo va oltre e Napoli, paradossalmente senza Storia, è una delle grandi patrie se non la patria dello storicismo, cioè dell’idea della Storia riformata storicisticamente – si pensi a Benedetto Croce. L’idea della Storia riformata storicisticamente significa che non solo la Storia è lo scontro fra gigantesche forze umane culturalmente organizzate come lo scontro tra l’impero germanico intorno alla Prussia e la Francia della tarda restaurazione; non è solo questo: lo storicismo è l’idea che al di fuori di questo non vi è altro. L’idea della Storia può convivere con l’idea della natura, può permettere al povero disgraziato di rifugiarsi nella sua natura – direbbe Marx “nel mangiare, nel bere e far l’amore”, che sono sempre azioni puramente umane fatte dall’uomo e non animali – comunque è natura in cui l’uomo si rifugia. Ma quando la Storia viene interpretata storicisticamente questo significa che non vi è realtà umana di cui si possa parlare senza ricondurla nei termini delle istituzioni storicamente costruite, che non si possa studiare senza ricondurla nelle grandi categorie del pensiero storico – il che è una bella forzatura sull’idea della Storia.

Ecco, il napoletano è, in fondo, il concittadino di Benedetto Croce e Benedetto Croce prima di sposarsi si era innamorato di una bellissima popolana, che conduceva con sé, perché la sua bellezza faceva perdonare la sua ignoranza e quando questa donna morì Croce ne soffrì atrocemente. Questo fatto a me sembra singolare: di uno storicista il quale non riesce a trovare rifugio al residuo non storicistico del suo stesso pensiero se non attraverso l’appello alla carnalità immediata di una bella donna. Lo storicismo questo non lo contemplerebbe, anche la natura nello storicismo diventa una categoria, la categoria dell’economico soprattutto nell’ultima fase del pensiero crociano, il verde della natura, il verde dello spirito nella sua immediatezza.

Lo spirito…vedete? Ho usato questa parola: nella visione storicistica la storia si risolve nello spirito e il movimento della Storia non è più il movimento reale delle forze che si contrastano, ma il movimento dello spirito che anche quando litiga con se stesso litiga essendo d’accordo con se stesso. Ecco, il povero napoletano si trova ad essere concittadino di Benedetto Croce, Croce che tutto risolve storicisticamente, il napoletano che in fondo non ha mai potuto partecipare a un’azione di trasformazione della sua condizione quindi ad un’azione storicamente rilevante.

Questo è il dramma di Napoli, che non è un dramma biologico, non c’entra il DNA e altre sciocchezze di questo genere, c’entra una condizione storica, la condizione storica di un popolo che è stato messo ai margini della Storia. Il grande sforzo di Napoli oggi è quello di rientrare nel flusso della Storia, di riprendere la sua soggettività come ogni soggetto collettivo riprende la propria soggettività quando diventa soggetto di azione politica, quando diventa soggetto di azione storica. Ecco perché oggi, perfino quando con una amministrazione profondamente trasformata e trasformatrice come quella di Bassolino, quando ci si trova di fronte alla piazza Plebiscito restituita alla sua grandezza – piazza Plebiscito vicino al teatro di San Carlo, con da un lato la grande chiesa fatta erigere da un monarca borbone e dall’altro lato il palazzo reale borbonico – questa grande piazza fa venire il sospetto che ancora una volta la storia di Napoli sia rimasta una Storia regale, non sia ancora diventata una Storia di popolo e come Storia regale ancora una volta il popolo lasciato fuori dalla Storia è Pulcinella o è l’anima del Purgatorio.

Se non ci si rende conto di questo, non si riesce a comprendere la drammaticità e qualche volta la tragicità dell’essere napoletano: perché questo essere napoletano, come era stato ricordato poco prima da Sergio Piro, è anche quella condizione di un popolo che pur essendo fuori dalla Storia nel momento in cui i tedeschi sono sul punto di andar via – nel momento in cui esercitano le maggiori angherie sulla popolazione – insorgono e lo scugnizzo napoletano diventa un eroe. Cos’è questa, Storia o no? Forse non è Storia perché sarebbe Storia se quell’azione provenisse da un processo precedente, da una continuità di eventi, da un’educazione, da una formazione, da un esercizio politico preliminarmente compiuto, sarebbe Storia se dopo di allora il risultato di quell’evento fosse diventato un risultato dinamico, attivo, e non soltanto una memoria. Non è vero che la Storia è fatta di memorie, le memorie costellano i Camposanti: la Storia è fatta di presente, di azione, di volontà; dove questo non c’è , non c’è la Storia.

Questa mi pare essere la condizione del napoletano: oscillante tra la drammaticità del suo essere fuori del dramma della Storia e la tragicità di certe sue esplosioni in cui con una sorta di disperazione profonda tenta di rompere il proprio isolamento, ma soltanto per un giorno. Perciò Napoli è anche un crogiolo: perché vi si tendono forze contrastanti, perché non è una città tranquilla. Mi diceva un amico ieri: “sono venuto a Napoli nel ’95, l’ho trovata trasformata e soprattutto mi ha colpito perché mi è parsa una città tranquilla”.

Oggi la politica ama parlare di tranquillità. Sia da sinistra che da destra: non bisogna fare certe campagne elettorali perché ‘si perde la tranquillità’. Certo, la tranquillità è un valore positivo; ma la tranquillità può anche essere la maschera dell’assopimento. Ecco, Napoli è certamente una città tranquilla perché è una città civile, oggi più che mai, cioè una città nella quale i rapporti tra i cittadini, tra gli individui, i rapporti nei riguardi dei visitatori, degli ospiti sono assai raffinati, gentili. D’altra parte, il popolo napoletano è stato sempre gentile nei riguardi degli ospiti, non tanto nei riguardi dei suoi stessi concittadini; forse, anche qui, perché un popolo come il napoletano che sta fuori dalla Storia – o è stato fuori dalla Storia – è stato vittima di molte vicende storiche, schiacciato da molte dominazioni e, si sa, quando si ha un padrone molto forte non lo si può combattere, bisogna conquistarne la benevolenza.

Il napoletano è un popolo seduttore, seduttore per necessità. “Sed-ducere”, “portare fuori strada”: il seduttore porta fuori strada il suo dominatore, lo allontana dall’esser troppo pressante su di lui. Dunque un popolo seduttore. Ma un popolo seduttore non è un popolo tranquillo, non è un popolo sicuro. Ricordiamo l’etimologia di “sicuro”: essere “sine curis”, “senza preoccupazioni”; vi pare che il popolo napoletano sia un popolo senza preoccupazioni? Certamente nessun popolo è senza preoccupazioni e, vorrei dire, nessun essere umano è senza preoccupazioni; ma, accanto alle normali preoccupazioni, il popolo napoletano è un popolo che non può essere senza preoccupazioni perché è il suo stesso destino, così sospeso tra la Storia e la non-Storia, tra l’esaltazione di una verticalità che va verso l’alto e la disperazione di una verticalità che va verso il basso.

Quindi Napoli non è una città tranquilla, certamente non è una città addormentata e questo è un fatto positivo: è una città nella quale talvolta si sogna – infatti si parla del napoletano come di un sognatore, però stiamo anche attenti che il sognatore, cioè colui che abitualmente compensa le proprie frustrazioni rifugiandosi nel sogno, a un certo punto si veglia dal sogno, si accorge che il suo sogno era soltanto un sogno e allora decide in qualche modo di passare all’azione.

Finora è passato sempre all’azione individualmente, con i cosiddetti espedienti, poros…
Ecco, il titolo di questa giornata, suggestivo titolo inventato dal mio amico Lucio Saviani. “Poros”: si è parlato infatti di una ‘città porosa’ e stamattina Nora Puntillo vi ha illustrato con dovizia di particolari anche tecnici il carattere di questa porosità – il tufo è pieno di pori. Ma “poros” è una parola la cui radice indoeuropea – “per” – indica l’“attraversamento”; questa è una contraddizione, perché si è detto che Napoli non si muove in senso orizzontale, ma in senso verticale. Quindi quel “per” del poros non c’entra molto e tuttavia potremmo recuperare la pertinenza del termine ‘poros’ ricordandoci che ci sono anche gli attraversamenti chiusi, gli impasse.

Ecco: i poroi di Napoli sono degli impasse, dei luoghi che sembrano fatti per attraversare. Ma, poi, non è che non portino da nessuna parte, come quelli heideggeriani che ci disperdono nella selva; a Napoli non ci disperdono in nessuna selva, ci imprigionano nel chiuso in cui noi siamo.
Allora vedete che interessarsi di Napoli non è soltanto l’espressione di una raffinatezza culturale, come lo sarebbe l’interessarsi di Parigi o di Londra o di una piccola città dell’Olanda, ma significa avvertire che a Napoli si è in un luogo limite; si è, direbbero i greci, “para ta eskata”, “presso le cose ultime”, presso i limiti che separano ciò su cui si può camminare dall’abisso.

Napoli è sempre stata “para ta eskata”, ma mentre una volta c’erano i signori, i conquistatori, oggi fortunatamente non ci sono più; il problema è quello di mantenersi in equilibrio da soli, dimenticando i vizi che ci hanno insegnato i nostri dominatori e conquistando quelle virtù che si possono conquistare soltanto esercitandole nel rischio.
Io credo che oggi Napoli sia una città pronta ad affrontare il grande rischio del suo rientro nella Storia; solo comprendendola da questo punto di vista, noi veramente possiamo sentirci amici dei napoletani, compagni delle loro lotte, soprattutto non tanto consolatori delle loro speranze perché il napoletano, Pulcinella, non è mai stato portatore di speranza, ma di pazienza. La pazienza: “Patior”, “patisco”, patisco perché sto sotto, paziento perché stando sotto aspetto che venga il mio momento. Noi napoletani ci salveremo, e con noi molta parte del mondo civile, se avremo il coraggio di resistere ancora con pazienza, ma al tempo stesso di essere pronti a cogliere il momento per il nostro rientro nella Storia.

Il testo che segue fa parte degli atti di un convegno organizzato da me e Matteo Palumbo, Lettres de Naples, nel 2001, all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Lucio Saviani, coorganizzatore dell’incontro ha raccolto gli atti in un libro uscito un anno dopo, con il titolo POROS,Idee su Napoli e variazioni sul tema del Mediterraneo,Marco Valerio Editore, 2002.

11 COMMENTS

  1. Senza voler assolutamente esprimere dissenso sulle parole di Masullo, forse ultima voce degli intellettuali napoletani, vorrei dire che a Napoli la Storia la si è fatta di nascosto. E mi spiego sinteticamente partendo dall’esempio di Pulcinella, originariamente Pulecenella Cetrulo da Acerra. Era questo il nome usato nel teatro delle guarrattelle.
    Un signore napoletano, tal Tiberio Fiorilli, attore e saltimbanco, arrivò con la sua compagnia alle porte di Parigi e riuscì ad esibirsi per il Re di Francia. Luigi XIII lo inserì seduta stante, fra i sui maestri di teatro. Fiorilli rimase molti anni in Francia, pupillo di Luigi XIV, inventò la maschera chiamata Scaramouche e ebbe molti allievi. Fa questi uno studente di legge, un certo Jean Baptiste Poquelin, un ragazzo innamorato della recitazione. Alcuni anni dopo questo giovane studente firmò come Moliere le sue prime commedie.
    Ci sono molti esempi di questo genere che ci dicono che questo strano popolo, questa incredibile città sospesa fra meraviglia e disincanto, abbia segnato la storia dell’Europa senza mai apparire, sempre tra le quinte, a insegnare e ritornare nell’ombra.
    Masullo dice, concludendo il suo intervento, che bisogna avere pazienza e aspettare di ritornare nella storia. Qui dissento senza timore : quanta pazienza e quale storia ?

  2. carissimo Bruno,
    ripensando in questi giorni a Gomorra sono arrivato a questa conclusione: se la camorra è un antistato la sola possibilità di lotta è quella dell’insurrezione. Ci sono delle rivoluzioni che hanno bisogno di pazienza. Il testo è di qualche anno fa. Forse ora è il momento.
    effeffe

  3. @furlen
    E’ amaro ammetterlo, ma l’intervento armato è veramente improrogabile. Le parole sono pietre, è vero, ma hanno lo stesso effetto dei sassi che i ragazzi palestinesi lanciano contro i tank israeliani.
    Comunque sia vorrei ribadire che l’intervento di Masullo è validissimo e che la figura del professore non è assolutamente in discussione.

  4. Dite come a Palermo dopo i grandi assassinii di mafia?
    Bisognerà vedere come vuol mettersi Amato. Pare che una mezza intenzione ce l’abbia, ma è difficile avere fiducia. Il fenomeno camorristico è altra cosa da quella mafia siciliana degli anni novanta e la soluzione dell’esercito potrebbe non rivelarsi la pià adatta. E’ difficile.
    Conosco Napoli ma sono fiorentino…non saprei…

    F.G.

  5. io penserei per cominciare ad azioni presso i bambini e i ragazzi. Portarli via da lì una due volte all’anno, in giro per l’Italia o anche all’estero facendo vedere e conoscere altri mondi. Detto così sembra una proposta da azione cattolica, se però si pensa al fenomeno dei baby killer, ti accorgi che il dramma è sotto casa. E le scuole elementari sono forse l’unico posto dov’è possibile trovare tutti e fare qualcosa per chi pare destinato (come se Karma fosse l’abbreviativo di camorra) a morire con il ferro – e intanto pensava all’oro
    effeffe

  6. E visto che la preparazione di un intervento della redazione di Nazione Indiana è laboriosa ( sono certo che però qualcosa di importante verrà fuori ) approffittiamo di tutti gli spazi possibili per ripetere che ROBERTO SAVIANO E’ STATO OGGETTO DI MINACCE DI MORTE DA PARTE DI CLAN CAMORRISTICI, PRESUMIBILMENTE IL CLAN DEI CASALESI, E ATTUALMENTE VIVE SOTTO SCORTA !!!!!!!

  7. furlen, temo non basti. Quello che proponi è sensato ma un po’ ingenuo. La criminalità a Napoli non è solo e necessariamente quella organizzata, è una criminalità diffusa. Esiste anche un diffuso atteggiamento lassista da parte di chi dovrebbe perseguire/controllare/vigilare…,e un diffuso atteggiamento rassegnato in chi vive tutti i giorni situazioni al limite del parossismo. Faccio degli esempi terra terra: perchè in metro o in Cumana basta dire “abbonamento” e nessuno ti chiede di mostrare niente? Perchè in autobus moltissimi salgono senza biglietto e nessuno dice niente? Perchè si riorganizza il mercato del pesce di Pozzuoli per infiltrazioni camorristiche e tanto i vigili continuano a farsi i loro giri e a uscire coi sacchetti pieni? Perchè in una delle più belle spiagge di Procida (quella del cimitero, per capirci) ci sono solo rifiuti, cadaveri di motorini e lavatrici?Perchè così tante persone non riescono a resistere all’impulso irrefrenabile di gettare a terra le cartacce?
    Sono atteggiamenti radicatissimi e diffusi, non basta una gita per rendersi conto che si vive in una dimensione parallela ( Napoli è una dimensione parallela) e che se non ti ci adegui non sei l’ultimo dei fessi.
    Un bambino napoletano in gita a Treviso potrebbe rimanere traumatizzato.
    Io, purtroppo, soluzioni non ne ho. Mi ci arrovello, ma non ne trovo.
    Chiedo scusa se mi sono dilungata e il mio intervento non ha alcun valore letterario, ma ho scritto di pancia.

  8. E’ quello che continuo a ripetere anch’io, Dominique. Tutto questo non basta.
    Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Non è possibile che qui non ci sia alcun rispetto della cosa pubblica, ogni centimetro di erbetta non recintata, viene sistematicamente ingombrato da spazzatura, qui vige la legge: ciò che non è proprietà privata, non è bene di nessuno, dunque non è bene, dunque può andare alla malora.
    Le discariche abusive non sono solo un business della camorra, ma un nostro modus vivendi, siamo in fondo dei grandi zozzoni. Sono rimasta letteralmente di stucco nel vedere un servizio del tg in cui venivano assoldati degli alpinisti nel bergamasco per l’estirpazione di cespuglietti negli interstizi di una perete di pietra, quando da noi nessuno protesta se abbiamo le strade, le piazzete antistanti le scuole dove giocano i bambini letteralmente invase dai TOPI oltre che dall’immondizia accumulata da settimane. Facciamo letteralmente schifo.
    Ed è inutile dire che è colpa dello stato, della regione o della camorra. La colpa viene dall’alto, perché mancano le strutture, ma anche dal basso dove alla gente non entra minimente in testa che cosa sia la raccolta differenziata.
    Siamo sporchi e ignoranti.
    Siamo stati incivili anche qui, dove abbiamo occupato abusivamente tutti gli spazi possibili, senza alcun rispetto per altre vicende non meno drammatiche delle nostre, senza alcun rispetto neanche dei morti- vedi il post della Politkovskaja-

    Ha perfettamente ragione “sedai corda”: siamo degli incivili, degli occupanti abusivi, siamo bravi solo a vomitare rifiuti e incontinenza. E se non ci decidiamo una buona volta a cambiare atteggiamento, rimarremo esattamente quello che ci meritiamo.

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017