Impronte sull’acqua #2
di Francesco Marotta
*
ti cammina sul braccio
la tenebrosa
sapienza di
chi regge lumi
al mattino, ti
acceca
il risucchio dell’olio
che sciama in vapore e
incendia il tuo
occhio
che spunta in un prato, dal
le gronde di un foglio
dove transitano stelle e
voragini, il profilo distante
di una voce intra
vista per caso
si perde tra l’inchiostro e
la pelle, in
certa se
dire il distacco o
annegare negli specchi del
cielo, infinito
rantolo azzurro
*
qui è domani, vizio
assurdo di speranza sfamata
con alcol e catrame
sfumata al cospetto dei vetri
occhieggiando il
colore del sangue
il suono che palpita e
alle vene regala desideri
di luce, la
macchia di un simbolo
tutto messi e
papaveri in
fossili d’ambra, tutto cielo
che cresce, fiorito di spine
tra isole e agavi
in assenza di verbo
fiammante di bocche
dove si origina sabbia e
il respiro si sazia a una
fonte mai
nata
*
ci sono versi scritti
con gli occhi, li
riconosci quando
tornano in superficie
spaiati in
sincronie di vuoto
e all’albero
toccano in sorte
che si fermò alla tua soglia
chiedendo ritagli di lacrime
un nome da respirare
crescendo
fino al prossimo cielo, domani
brucerà a una
fiamma di neve, e lo spazio
del suo ultimo grido sarà
l’orizzonte tra
palpebra e
palpebra
che si restringe nel
l’orbita di fiori di
sale
*
disordine di sguardi, artefice
il fuoco che altrove
spinge l’occhio a una
vicenda di transiti, al
l’ombra che avvalla e
rovina nell’erba
umida di scintille, e tu
che crolli per l’aria
nel segreto coltivi vertigini
di perdute tenerezze, la
passione che ci perseguita di
anni dementi, e forse
solo la cenere ormai
continua ad albeggiare
in superficie, mentre
i figli, ignari
giocano un sogno
tra gesti raccolti qui
a terra, la tua bocca
in un angolo, la
veste nuda
che mi somiglia come un
grido, come un
addio
*
di simile ha un
giardino, si
arcua la sua carne
nel punto in cui l’ala
affastella la pelle a
bisbigli di luce
tra le fronde, lo ricordo
nel suo respiro affannato
che inciela invano
le piume tra
passate in rivoli
d’asfalto, la sua
luna di desideri
che slarga
la bocca dove il dolore
si coagula
in vomito, dicevi del
l’angelo come un
ruvido nero
maculato da chiazze di
volo, dicevi
nel cavo degli anni ora
temi la nascita, l’
inganno del
sangue che preme al
l’altezza degli occhi
*
leggere al fondo dell’urna
il sole segreto che cova
l’insania, un
tormento di amanti, antica
croce di eccessi e
stupori che la carne
sfibra di morte
apparente, ma è
una fuga il mio
occhio, la trappola di
parole rarefatte
l’estasi in
quieta
di chi impara la sete
osservando il cielo che
rosseggia intorno a un lume
o una spiga in fiamme
che capovolge il
canto delle messi, ma anche
il vento che passa e
rimesta le voci in calcare
è un tenere
assieme gli accenti e le spine
il giorno e il suo grido
stretti nel
l’ammutolito
lucore di una
pietra, di un astro
*
mancano agli occhi
spigoli, angoli, il
profilo che
assicura la bocca al
le ombre, il volo e
la frana di ali impagliate
la corda, l’ansa
di un sole al
la foce, la vertigine
che turbina nel
sonno del marmo e
alla pietra regala maree, con
cede favole d’acqua
meteore e
sillabe oscure, non un giorno
di più, all’insaputa
dei venti, inchioda le
nevi a voragini e
cime, le mie dita al
l’ora glaciale, al
la lingua
che fruga i deserti e
sogna senza parole
piume alle sabbie, tremori
di carne a
gli specchi
*
la crosta si sazia di ghiaccio
minerale, la zolla che
preme ha la pelle
costellata di fori, accensioni
che affondano il senso e
sfumano alla resistenza
del seme, e dunque
l’arsura è un coagulo
che impregna tutte
le cose, un liquido inverso
muta occhi per uscirsene
al sole in forma di
stelo, di voce, mentre
scivola via da ogni sponda
tra un filo di sale e uno
strappo nella rete
del tempo, ma
qualcosa s’attacca al
la bocca, un pulviscolo, un’
ombra, una creta, un’orma
sul manto del buio, un
profilo di sangue, di linfa
aggrumata
s’apprende al suono dei passi
scioglie i lacci al
sonno dell’angelo
che rovina, al risveglio, nel
vuoto di volti del
la prima dimora
*
ascoltami, con gli occhi
accogli il colpo e immobile
pensa un cenno di saluto
per il fuoco, poi
componi la cenere
nel calice, un sorso di
calore per la tua pupilla
che ha sentito il gelo, il
dono che trascorre e
si allontana come si scioglie
l’alba all’apparire, e credimi
la cera che ti porgo è l’unico
frutto del mio incendio
un pegno maturato in
sorte liquida
simile alla macula di
luce che annuncia la luna
ai poli, è cera o mosto
d’alghe, frumento di deserto
coltivato sui mari
di ponente, osservalo
portalo alla bocca, le linee
aguzze che nuotano
nel grumo sono un sigillo
di notti, e notte che ricorda
vene, umori sparsi, immagini
franate, come chi vive
per lasciare impronte, un
solco per la morte che
ci segue, che ci precede
in forma di stagioni
*
si piega, diventa immagine e
si dispone al pensiero
mentre affiora, la vela
che vibra e calca la marea
col suo carico di acidi, di
spoglie, di rifiuti, passioni
naufragate oltre l’orizzonte, e
aggiunge sbuffi d’edera
o di calce all’albero maestro
alla vite che prepara il vino
dentro il sonno e labbra per
ricucire l’ala nell’affanno, nel
l’inganno dell’aria
che si espande e spegne
il volo in fossili di piume
calcare al sole sulle rotte
del ritorno, da un verso, da
una copia di scintille, ora
si scruta il cielo, il vetro
di un oracolo ventoso, nel
bianco dove opera lo stilo
e ascolta l’inchiostro, i segni
ammutolire a grado
sulla punta, a un battito
di ciglia dall’attesa, dal
nulla che ri
fiorisce tra le onde
*
sapersi in sintonia
con la luce
franata dove sei stata
un attimo o una vita
prima che il
colore dell’assenza
riempisse lo spazio
vuoto dei tuoi
gesti, qui ogni cosa
tiene la conta di quello
che hai lasciato, qui
sento il tempo premermi
sul capo con tutto il
peso che ti riduce a
ombra, eco di un
corpo che acquista
movimento a ogni ricordo
a ogni fitta che ri
colma il palmo
di schegge, di voci, di
abbandono, stimmate
di chi muore a
chi non sa morire
(Gennaio-Settembre 2006)
(La prima parte delle “Impronte sull’acqua” è stata pubblicata il 14 settembre 2006)
Comments are closed.
Scivolano bellissimi i tuoi versi,come su di un mare,su di una tavola d’olio
notevoli
complimenti
un bacio
belli, davvero
“ci sono versi scritti con gli occhi, li riconosci quando tornano in superficie
spaiati in sincronie di vuoto…” Belli, come tutte le impronte che hai lasciato. Ciao Marco
“ci sono versi scritti con gli occhi, li riconosci quando tornano in superficie
spaiati in sincronie di vuoto…” Belli, come tutte le impronte che hai lasciato. Ciao Marco
una poesia che sfugge alle griglie e agli apparati metrici, stilistici, retorici: una fuga felice, verso la verità, comunque la si voglia chiamare.
…ci sono versi scritti /con gli occhi, li/ riconosci quando/ tornano in superficie/ spaiati in/ sincronie di vuoto/ e all’albero/ toccano in sorte…
Notevole! Complimenti Mapi
davvero splendidi, danno una voluttà di espresssione sorgiva-
Grazie a voi tutti per l’estrema bontà dei vostri giudizi. E grazie soprattutto per il tempo che avete dedicato alla lettura. Con riconoscenza.
Un bacio speciale alla “barista”.
fm
Versi di smalto, in cui precipitano pelle e sangue, gridi e assenze. Parole d’aria, in cui palpita la storia e lo spessore della lingua.
intermittenti parole…
i m p a r a f r a s a b i l i .
un’orgia schietta della tastiera.
chi ti conosce sa che non citi… che sei
come democrito che ha scisso la realtà
in parole e parole in atomi…
a t o m i c i.
sei reale e irreale.
mi verrebbe voglia di bloccarti,
a un certo punto. di dirti basta…
dove stai andando? e dove vuoi arrivare?
sei pazzo? che cosa scrivi… vuoi muoverti
sempre? vuoi camminare? fermati un attimo!
fammi respirare. tu ti fermi,
ma fingi… perchè continui?
perchè?
perchè una volta, leggendo i tuoi versi,
tu mi avresti detto che sei
“la poesia che ci cammina al fianco… e noi con lei”?
@ Giorgio Morale e Davide Racca
Immagina i poeti
fatti soltanto di occhi – pupille deliranti
davanti a templi senza oracolo
equazioni di silenzio
che si dissanguano in luce di alfabeti muti
Nulla che non sia deserto – dimora di vento
che accoglie cristalli di sete
fiorisce in quelle lingue d’acqua
che assaltano giorni senza rive
Nulla che non sia segno e mistero
sillaba ridiventata carne e sangue
scopre tra i fossili
di un canto senza redenzione
la voce che conduce oltre il naufragio
al cielo indiviso di voli futuri
*
Grazie.
fm
“segno e mistero… la voce che conduce oltre il naufragio/al cielo indiviso di voli futuri”: è il grido della poesia ed è il grido della vita. Ancora una volta, la poesia sfida l’indicibile in una ricerca che è innanzitutto etica.