Terra! Eleonora Puntillo
foto di Mimmo Jodice
VELE
di
Eleonora Puntillo
Piazza Dante, pietra deserta, temibile, riarsa, abbruciante lo stinco, oppure gelida percorsa da travolgenti irreparabili impeti di pioggia. Domandano spesso come scamparla, e lungo quale vico antico ombroso imbrecciato fuggire.
Furono inizialmente chiamate ‘tende’ divennero poi ‘vele’ quelle di Scampìa, e la casuale lettura della primigenia definizione progettuale propone una (forse impropria assurda illogica) associazione mentale fra architetture, luoghi, fruizione e funzioni del territorio. Eppure…
Adesso a piazza Dante ci vorrebbe una tenda magari invisibile che, sorretta dalle marmoree 26 virtù di Carlo di Borbone, consenta di riportare lo sguardo sulle armoniche megastrutture vanvitelliane.
E a Scampìa una rasa tabula che renda invisibili le Vele.
Ci sono voluti quasi trent’anni per capire che l’utopia megastrutturale madre di quelle piramidi, in quel di Scampìa falliva assai duramente, con guasti e danni per tutti: per il pensiero urbanistico moderno, per la sperimentazione architettonica, per i progettisti, gli esecutori, gli abitanti, i pubblici amministratori. Dopo trent’anni, si demolisce.
A piazza Dante, giusto il tempo di inaugurarla fra lo sconforto (subito vittorioso sul sollievo per la scomparsa del soffocante pluriannoso cantiere): in fretta, poche ore dopo la cerimonia, venne fatta sparire l’intera schiera di temibili birilli di pietra che segnavano un sentiero a metà del deserto. Agguati a femori e tibie, brevi, smilzi, rischiosissimi non facili a percepirsi dal pedone, ancor meno in caso di raduno, incontro, assembramento, comitiva, corteo, sfilata, festa, comizio. Infelicemente vietavano tutto quel che è predestinato, ovvio, normale, accada in una piazza.
Vietato anche guardare in faccia l’Alighieri marmoreo, ora proteso più avanti verso l’urlante pauroso scorrimento motorizzato.
Nelle Vele (o tende, o ziqqurat, o torri) che si sollevano da due a quattordici piani, ascensori in perenne guasto inducenti a vandalismo anche il più tenero pacifico condiscendente degli abitanti; nelle case, pareti brutalmente ostili dove è impossibile appendere una mensola, un quadro, un ninnolo, nonché spostare ampliare o ridurre lo spazio della vita quotidiana. Infelicemente vietavano gran parte di ciò che è normale ovvio e predestinato accada in una casa.
Vietato anche evitare l’ascolto del vicinato urlante: nulla più della parete cementizia prefabbricata trasmette meglio gli improperi reciproci, notturni e diurni. Vietato anche evitare l’atroce malìa della droga: l’accorrere infelice da tutta la città conferma che nessun posto si presta meglio di quelle scale sospese e quei passaggi aerei labirintici, allo spaccio di qualsiasi polvere.
Vietato anche difendersi dal freddo dal caldo dall’umido. L’abusiva murazione del pianoterra – in origine cortilecoperto destinato al gioco, al parcheggio – provocata dall’arrembaggio agli spazi nel dopoterremoto, abolì del tutto la prevista indispensabile circolazione dell’aria fra esterno, cortile e cavedio interno fra edifici: complice una impermeabilizzazione da ladrocinio, la nebbiosa condensa vinse penetrando ovunque con gelide muffe.
Sette Vele per 6.500 abitanti: mai in precedenza s’era prospettato un simile stivamento d’esseri umani, sessantamila nell’intera Scampìa, altrettanti in quel di Ponticelli. Poteva però non crearsi disagio se in tempo debito fossero pervenuti gli strumenti indispensabili alla felicità urbana: scuole capaci di attrarre – 12 ore su 12 – i ragazzi, trasporti, servizi, manutenzione, commercio, verde, gioco, luoghi di spettacolo, insomma la normale civiltà dell’abitare altrove diffusa al punto da rendere conveniente risiedere nelle periferie. Da noi sconosciuta.
Quando la prima Vela fu attaccata con la dinamite, un meravigliato e rabbioso sconcerto salutò l’inattesa resistenza, ilprolungato rifiuto di crollare da parte di una struttura ‘autoportante’ con moduli a forma di grandi ‘C’ accostate e sovrapposte. Resistentissima. E nessuno sapeva; il coordinatore del progetto (Francesco Di Salvo, architetto napoletano di notevole livello non solo nel campo della sperimentazione) era scomparso da tempo, così come l’Ente pubblico committente (Cassa per il Mezzogiorno) con tutti gli archivi. Se reperiti in tempo, quei disegni avrebbero rivelato non solo com’era composta la struttura, ma anche le arbitrarie variazioni all’origine.
Tante le invocazioni alla conservazione, alla memoria, al riutilizzo. «No, è stata una sperimentazione finita male, bisogna trarne le conseguenze»: Sergio Stenti, docente di Progettazione e storico dell’Architettura (Univesità Federico II) ha il pregio di parlare chiaro: «Conservare…? Magari un solo esempio, come fosse un pezzo da museo. Non sono
abitabili da famiglie; al massimo possono sistemarci residenze studentesche, che a Napoli proprio mancano. E ci vuole uno sforzo enorme, di spesa e di progettualità, per non fare altri errori. Sono state il frutto del divario fra cultura tecnicoarchitettonica e cultura locale e popolare».
Silenziosamente fallite le tante ipotesi di recupero e sistemazione: costi eccessivi, deludenti previsioni dei risultati.
Fioccano i rifiuti.
A Piazza Dante la facile rugosa pietra lavica prescelta al posto dei tradizionali ‘basoli’ di cultura locale e popolare, s’è riempita subito di misteriose macchie nere resistentissime alla pioggia e alle pulizie; il problema di eliminarle è stato subito risolto, rinunciandovi. L’effetto deserto ha allontanato il pubblico dagli esercizi commerciali – librerie soprattutto – alla base dell’emiciclo settecentesco.
La piazza è un vuoto assai spazioso dove però non è consentito ai bus turistici di sbarcare visitatori desiderosi di imboccare il solenne seicentesco ingresso di Port’Alba, breve singolare antichissimo concentrato di librerie che introduce al Centro Antico. Non si osa manomettere ancora (dopo aver tolto i birilli, è stata impiantata una seconda maestosa pianta di mango, e sistemate tante panchine di nera pietra, anch’esse impraticabili col sole) il disegno
dell’illustre Gae Aulenti, che ha fatto un deserto e l’ha chiamata piazza.
Improponibile, forzato, questo confronto concettuale fra le Vele e Piazza Dante? Forse sì. Però un legame fra questi due frammenti di città esiste, possente: Scampìa e Piazza Dante sono (e lo resteranno per anni) i due capolinea della nuova Metropolitana, la Linea 1, quella delle favolose stazioni d’arte e d’archeologia ovvero ‘museo obbligatorio’ che ha il compito di educare gusto e conoscenza del viaggiatore.
articolo pubblicato su Sud n°4/5
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Da semplice cittadino non esperto di architettura dico che a Piazza Dante mancano, molto più semplicemente, arredi urbani per renderla più accogliente. Quello che nel post viene chiamato deserto penso che sia uno spazio libero da orpelli in cui potersi muovere a proprio agio, vista l’asfittica struttura delle piazze e strade napoletane. Tutto sta a renderlo più gradevole.
TROPPA RETORICA. NON MI PIACE. SA DI VECCHIO.
e pensare che a terrorizzarmi è tutto quello che sa di giovane…
o di nuovo
effeffe
Può accadere di terrorizzarsi di fronte al nuovo. Accade a tutti, ad ogni età, anche a 20 anni. Ma io – senza nulla togliere alla puntillo – leggo troppa retorica nel suo scritto (magari altre cose della puntillo sono mirabili). Forse perché sono di Napoli. Forse perché adoro la scrittura di Saviano. Forse perché ho l’età di Saviano. Forse perché di questa retorica ho letto fin troppo. Non volevo essere offensiva. Solo constatare che questa scrittura è troppo ricercata, poco diretta, sa di stantio.
le tue cose invece mi piacciono effeeffe.
più che retorica, pare ci sia un pò di estetismo del degrado urbano
io non la vedo così. quello che mi colpisce nelle riflessioni di Nora in generale è la capacità di argomentare opinioni attraverso il buon senso,seppure mediato dalla conoscenza straordinaria che lei ha del territorio e della storia di Napoli, non certo quello estetico del degrado.
effeffe
Napoli ha bisogno di una scrittura che vada oltre la sua storia. Perdonatemi.
perchè perdonarti Roberta?
di che peccato? di quale colpa?
quello che cerco di capire in questo periodo è come identificare una linea che dalle esperienze del dopoguerra, con Compagnone, Ortese,Rea, La Capria, fino agli anni sessanta e settanta (e penso alle grandi esperienze avanguardistiche di Castellano, Sparaco, Persico, Piemontese) siano attraverso gli anni ottanta e novanta arrivati a quelli della tua generazione (Saviano, Braucci, Morganti…)
Quando i zezi cantavano sant’anastasia, sulla morte sul lavoro di ignoti operai in una fabbrica semi clandestina, mantenevano viva la fiamma che oggi è riesplosa.
Nora Puntillo capo redattrice di paese Sera ha formato in più di un decennio centinaia di giornalisti, cronisti cui si rifa Roberto. E questo dobbiamo dirlo.
ti abbraccio
effeffe
Con tutto il rispetto per tutti, ci mancherebbe, e senza nulla a pretendere, io non ho capito il parallelo fra Scampia e Piazza Dante. Oggi ci sono passato e ho cercato di vedere e non di guardare, come al solito. A me quella piazza piace più di prima, di quando era un parcheggio selvaggio. Oggi l’emiciclo, la statua di Dante, le palme delle aiuole, le bancarelle dei librai, sono visibili, risaltano, sono godibili.
Che c’entrano le vele di Secondigliano ?
Cioè, sicuramente c’entrano, ma io non ho capito come.
A parte il fatto che sono i due momentanei capolinea della linea uno della metropolitana.
Per effeffe
Ti ho chiesto perdono per la foga, non volevo essere scortese nel dire che la scrittura della Puntillo non mi piace. Anche se so bene chi è e il suo ruolo nel giornalismo napoletano.
Quando dico che non mi piace la sua scrittura mi riferisco ad una cosa precisa: alla forma che è sostanza. Al parlarsi addosso di un certo tipo di elitè intellettuale napoletana, al criticare tutto, stando al di sopra, come degli intoccabili, come chi non si sporca. Ma qui il riferimento è alla città, a me che ci vivo. Alla rabbia. Alla rabbia che ha Roberto Saviano e non ha più la Puntillo o forse non ha mai avuto. Per me la rabbia nella scrittura è una forza. Il paragone tra il deserto di piazza Dante e le vele di Scampia per me è irrilevante (sono tra l’altro d’accordo con Bruno Esposito). Non ci sono immagini se non barocchismi in questo scritto, un sapiente gioco di parole, ben curato, con pochissimi battiti di cuore. Manca l’anima, Francesco.
E l’anima accesa della scrittura di Saviano non so se sia dettata dalla sua giovane età, è certo che Roberto si brucia. E io mi brucio quando leggo. E’ di pugni nello stomaco, è di scrittura che vada oltre l’intellettualismo erudito di cui ho voglia, adesso. Non per la mia età. Forse per Napoli.
Perché la scrittura pugnala, trasforma, a volte serve.
bacio
@roberta
da Sud 4/5
Insensata sagezza
(Cattivi) maestri Omaggio
a Guy
Debord
di
Felice P iemontese
I
Anche in questa città – disse –
sono stati scacciati
e dispersi gli abitanti. Le case
un tempo piene di vita (non era
giunto ancor Sardanapalo), sono adesso
deserte. Abbiamo visto il cielo
oscurarsi e il bel tempo
sparire. Il fiume
suda olio e catrame, gli alberi
muoiono soffocati. Sono spente
le stelle, svanite
le speranze. Ma è dunque questa
la valle della desolazione
II
hanno perduto il poco
che avevano e guadagnato
quel che nessuno voleva. Collezionano
le miserie e le umiliazioni
di tutti i sistemi di sfruttamento
del passato, ignorandone solo
la rivolta. Somigliano
agli schiavi, parcheggiati
in massa, in costruzioni
malsane e lugubri.
Mangiano alimenti
inquinati e senza gusto, mal curati
delle loro malattie
sempre nuove, continuamente
e meschinamente sorvegliati
grazie effeffe, credo che tu abbia capito. anch’io.