l’ideologia è un errore di sintassi

(ragionamenti su tre città)

di Gianluca Cataldo

Sono cresciuto tra la le macerie dell’ospedale Ingrassia e un bicchiere di rosolio al pistacchio, mia madre mi ha garantito una capacità linguistica che mi ha consentito una sopravvivenza fisica e culturale di cui le sono grato. Le sue paturnie mi hanno forgiato in una decisa convinzione di superiorità da spendere sulla cellulosa altrui in una redazione romana. Grazie a lei sono disposto ad acquistare ogni barbone di tutte le città nelle quali ho vissuto con la carità che tanto assomiglia a una lettera di dimissioni non datata. Conosco F., conosco Paulo, chiacchiero allegramente con Pierino cui recentemente hanno bruciato il motorino (un vecchio Sì dai colori cangianti). Ho vestito Mario, per tutti semplicemente Bocchino, rimproverandolo garbatamente per i suoi eccessi linguistici al limite della violenza. Mi sono tutti grati, di una gratitudine innocente e speranzosa, inconsapevoli della differenza che passa tra le loro intenzioni e le mie, figlio della logica dell’atrocità attraente da sospensione dell’etica. La loro condizione serve a riscattare la mia, la loro deprecarietà a forgiare nella redenzione la mia stabilità sociale. Non economica bensì ideologica, e sociale. Nella disfunzione borghese da assenza di difficoltà le disgrazie altrui servono a elevarsi a una condizione meno umana, eterea probabilmente, stimabile sicuramente. La sua morte, ad esempio, ha dato alla mia immagine (nel secolo della comunicazione manifesta) una aura regale, degna di nota. Accuratamente sfruttata con ubriacature solidari in taverne compiacenti, idealizzata al punto da considerarla conveniente la sua morte ha assunto connotati del tutto inaspettati. Il desiderio di una disgrazia casalinga, l’attesa per un avvenimento dai contorni tanto decantati e coniugati in tutte le sue forme verbali mi rendeva morboso ogni volta che lei accusava un male oscuro, un cedimento alla sua personalissima cognizione del dolore. Ho aspettato che accadesse, ho fatto in modo che accadesse quando nelle nostre discussioni lasciavo scivolare tra la sua schiena e la mia pancia frasi sussurrate “Se il peccato non esiste più, il suicidio non è più peccato” e lei “Ma non stiamo parlando d’arte” “Oh sì che parliamo d’arte, mia cara” “… D’accordo. Allora è il suicidio a non esistere più”. So di non essere stato io la causa, non sono la goccia di nessuno, sollecito pensamenti e ripensamenti ma mai decisioni. Lei aveva una predilezione dotta che la portava a preferire i suicidi, Drake, Buckley e, soprattutto, Elliott Smith. Trovava assurda la scelta dei farmaci e non comprendeva questa tendenza alla sofferenza, alle coltellate, questo modo tanto cattolico di pagare per i propri peccati, le proprie depressioni, ogni singola debolezza. Quando non poteva averne suicidava tutti come tanti Pinelli letterari nella sua personale anarchia riguardo le trame dei nostri romanzi. Così Horacio non sopravvisse ad addirittura due letture, ritrovandosi nella tomba fra ben più illustri personaggi, Stavrogin, Edda Ciano e Werther. Allontano questi pensieri mentre giro la chiave della terrazza, c’ho appena passato una cena insieme e non voglio portarli anche quassù. Preparo una sigaretta e mi seggo sulla sedia gialla che ho portato sopra sul finire di Marzo. I tetti di R., di questa parte di R., stonano sensibilmente dall’idea che si ha di questa città. Qualsiasi opinione che si ha di questa enorme capitale devia dalla sua realtà. Qualunque intuizione nasce minata e fallata dalle stucchevoli diversità che raccoglie e intimamente intende mantenere. Ci vivo da cinque anni, ho riletto Pasolini da quando sono qui e ho incontrato Siti, eppure non riesco a trovare una sistemazione lessicale al mio quartiere, salvo ritrarlo come una selva di antenne alla sera. Penso a tutti i tetti che ho spiato in vita mia, rossi di coccio e ideologie, macerie, antenne. Li metto nell’ordine giusto: macerie, ideologie, antenne e mi diverto a costruire frasi a effetto o a prenderne in prestito consumando latrocinio antologico. Le macerie sono fotogeniche; l’ideologia è un errore di sintassi; le antenne sono la civiltà che ci spetta. Comincio dalle macerie che ho lasciato per trasferirmi all’età di 18 anni, per allontanarmi da P., dall’idea di resistenza e immobilità che racconta, che raccontano. Le ricordo ovunque e le ricordo abitate, le conosco senz’acqua e con pesanti chiavistelli a sigillare porte blindate. Rammento le facciate fatiscenti, i tetti scoperchiati, i bagni condivisi in fondo al corridoio. Mi sovvengono i banchetti della frutta che si transustanziavano in alcolici alla sera, il vino dolce che stillava direttamente il conte Cagliostro in eroica resistenza allo spritz. Conosco perfettamente i morti e le resurrezioni annuali, cicliche secondo una cadenza calendarizzata in una giornata dedicata. Ho imparato a impormi una violenza latente ma costante e uno stile di vita minimale, capace di scivolare inosservato fino all’inevitabilità. Conosco i randagi e riconosco quella città di macerie dai suoi cani quando l’anaffettività si sostituisce alla cattiveria. Ho ignorato le cronache locali di editori voraci e assassini, vivendo di un’informazione nuova, dal basso, tristemente elitaria. Dalle macerie sortivano esseri sensibili e disposti, con i nervi scoperti, a ogni contaminazione, e ogni infezione che li ha sfiorati si è lasciata propagare silenziosamente fino a estinguersi. Ricordo quei palazzi dignitosi, vanitosi e affezionanti al loro decadimento fisico e morale ma non storico, mai! storico. La storia tra le macerie è sempre viva, seppur sotterrata, e brucia come un magma occupando gli spazi che la materia le concede. Alaimo diceva che le macerie sono fotogeniche, io dico che le macerie sono vive, brulicano di una vita scorticata, disossata e prosciugata fino alla sua essenza, una via di fuga meno pavida di quella che ho trovato io, meno ideologica di quella che ho trovato tra i mattoni rossi di coccio della seconda città. Fuggire può sembrare a molti un’azione ma scappare dalle macerie è esattamente l’opposto. Ed è per spirito di coerenza che ho inseguito l’ombra della recente storia politica senza riuscire ad acchiapparla. Sembrava tutto così civile, così definito e pareva essere tutto integro. Alla prima crepa il Buon Governo interveniva per ricostruire, rinnovare e rinnovarsi. Poi lo scarto creato dalla storia appena trenta anni prima si è manifestato in tutta la sua virulenza ma una città senza macerie non è adeguata al propagarsi di un’infezione, non si adatta al suo diffondersi lentamente. Riesce a gestire solo la platealità di una rivolta ma non la sua genesi intima, come intimo non può che essere ogni avvenimento del nostro nuovo secolo. L’intimità le crea imbarazzo, l’isolamento delle volontà la rende sospettosa, le reputa deviazioni, malattie psicoaffettive da curare a secchiate di Par-tot. E nasce un errore di sintassi tra il soggetto manifesto di ogni frase e il soggetto dissimulato. Interrompo il mio pensiero un attimo e mi preparo un’altra sigaretta mentre mi alzo per sedermi sul muretto che delimita il tetto del palazzo. Scorgo in basso il mio balcone, vuoto, e davanti a me aspiro una lunga boccata mentre ingoio chilometri di antenne. Ho provato a lavarci i denti ma non funziona, ho provato a immaginare i palazzi come enormi grilli di cemento, coscienza collettiva di una città che si è votata anima e corpo ai costruttori, che ripone speranze di integrazione nella metropolitana obliterando la domanda fondamentale o, meglio, ignorando il quesito. L’integrazione tra chi? La borghesia, perché esiste ancora, lo ha già fatto integrando la borgata in un sistema di genuinità che descrive i suoi abitanti come un’onta. La borgata ha lasciato fare e l’integrazione, quella vera, la condivisione degli spazi avviene con i nuovi colori che meticciano la città. A tutto questo i tetti della mia attuale città rispondono con una selva di antenne onde glissare su ogni rivoluzione inconsulta e spontanea decidendo, di canale in canale, quale sia la civiltà che ci meritiamo. “La civiltà non esiste più” mi ripeteva Paolo durante le nostre discussioni in osteria mentre mischiavamo il vino alla Fanta, “L’Europa ha fallito e senza Europa non c’è civiltà amico mio”. Mi ritrovavo a controbattere che non poteva essere tutto finito prima della tanto temuta guerra atomica, prima dell’invasione dell’Iran e della Korea, prima della definitiva vittoria di Israele. “Il nostro progresso ha raggiunto un livello tale che anche l’estinzione è intima”, “No, diamo finalmente poteri al Parlamento europeo, seguiamo la convenzione ONU sulla criminalità organizzata, aboliamo gli Stati in favore di una grande confederazione”. E poi?, mi sentivo rispondere, “E poi? Poi saremo salvi, salvi per sempre. Non mi fido degli Stati Uniti, ho paura di nuovo della Russia e lo scudo spaziale non lo voglio dietro casa, non voglio i missili russi puntati alla schiena… “, “Credi davvero che l’Europa sarebbe capace di impedire tutto questo? Credi davvero che la volontà dell’Europa conti più di quella ceca o della Polonia?”. Le antenne decidono quale civiltà dobbiamo vivere e lo fanno giorno per giorno, canale per canale. Noi le seguiamo lasciandoci guidare dalle sfumature che scelgono i reggenti dei tg e ci va bene così per il semplice fatto che altrimenti non sarebbe così. Tendiamo all’organizzazione e la rivolta è una sostituzione, una diversità nella dislocazione dei poteri o delle priorità. I cambiamenti che auspichiamo sono spostamenti, riordino di direttori in RAI, la possibilità di esprimere una preferenza di voto. La rivoluzione cui tendiamo, il fine ultimo che cerchiamo di raggiungere con la nostra sedizione è rappresentato da un idolo organizzativo: una nuova legge elettorale. Sistemare casa, tagliarsi i capelli o cambiare città sono sintomi della stessa febbre di riprogettazione che ci assale ogni volta che non riusciamo ad affrontare la radicalità.

4 COMMENTS

  1. beh, bello davvero, non c’è che dire, e concordo anche sulla rilettura (così magari riesco a spiegarmi che cosa mi ha affascinato, superando senza difficoltà la narrazione in prima persona che in genere mi frena).

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Andrea Raos
Andrea Raos
andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010) e le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.