Uno zero, il venticinque
di Giorgio Vasta
Il 25 dicembre del 1956, Robert Walser esce dall’istituto per malattie nervose di Herisau, dove vive dal 1929 trascorrendo parte del tempo a piegare sacchetti di carta, dormendo in una camerata da dieci letti. Va a fare una passeggiata. Fa spesso passeggiate, gli piace. Esce alle 12,30, ritorna dopo un’ora. Ritorna sempre puntualissimo. Durante il periodo trascorso in istituto, ventisette anni, Robert Walser non si rivela particolarmente socievole. Ha le sue abitudini, un suo modo preciso di organizzare il tempo e di contarlo. Lo stesso fa con lo spazio fisico, quello intorno a lui. Lo organizza, lo conta, lo studia, se ne assume la responsabilità. Se qualcuno gli si avvicina troppo, Walser, perentorio, esclama: “Gönt Sie wäg!”, Se ne vada!
Nel primo pomeriggio del 25 dicembre, Robert Walser viene ritrovato morto in mezzo alla neve. Ci sono quattro fotografie in bianco e nero che ritraggono il suo corpo morto in mezzo al bianco. Si vede il cappello caduto più in là, i buchi dei passi, gli steccati neri e bianchi, gli abeti in lontananza. Le scarpe sembrano enormi, forse dipende dalle foto. Le suole sono leggermente incurvate verso l’alto, verso la punta, come quelle di Pippo, che però sono gialle. In queste foto, che pure sono le foto di un morto, c’è qualcosa di assolutamente comico. C’è il comico e il tenero di chi anche da morto ha dell’incapace, di chi cadavere non guadagna in ieraticità ma conserva come un pigmento di ridicolo, di ridicolo costitutivo, quello di tutti, il ridicolo umano. Robert Walser morto assomiglia a Vladimiro ed Estragone, i vestiti che sembrano imbottiti di stracci, le posture illogiche e inevitabili, l’anchilosamento come unico modo di stare. Assomiglia anche ad alcuni morti delle catacombe dei Cappuccini di Palermo, le casse toraciche implose, il collo ricurvo a uncino verso il basso, il cranio deformato con sopra qualche lembo di pelle strinata. I vestiti di questi morti non sono pieni di stracci ma di paglia. All’interno dei corpi, di quelli deposti in basso, fanno i nidi i topi.
Robert Walser ha scritto dei libri bellissimi (aggettivo, mi rendo conto, del tutto fuori luogo parlando di Walser, nel senso che questo “bellissimi”, così assolutamente impudico, meriterebbe il suo “Gönt Sie wäg!”). Di questi libri “bellissimi” – libri nei quali l’idea di narrazione diventa marginale, quasi una superstizione, e a dominare su tutto (un dominio lento e mite e denso) è la scrittura, la scrittura come volume, come percezione, come visione – ho ripreso in mano Jakob von Gunten, al quale, per diverse ragioni, sono particolarmente legato. L’ho sfogliato e ho trovato delle parti che leggendolo la prima volta avevo sottolineato a matita. Si parla di quella che è la certezza che avevano tutti i personaggi di Walser, la certezza del proprio destino: quella di essere – e di diventare – uno zero. Questa espressione, di norma utilizzata con intenzione offensiva (“Sei uno zero”, che qualcuno riscrive nella forma di prefisso della sconfitta, “610”), in Walser ha un’intonazione completamente diversa. Essere uno zero è un principio, un senso, l’origine e la meta. È un’ambizione, è vero, qualcosa che richiederà una prassi, dei comportamenti finalizzati, ma fino a un certo punto. Robert Walser, Jakob von Gunten e tutti gli altri personaggi (e tutti noi) desiderano diventare qualcosa che non possono non diventare. Vogliono morire. A poco a poco, una pagina dopo l’altra, senza spettacolo, senza rumore, passeggiando. Robert Walser, da morto, diventa lo zero “magnifico” che desiderava diventare, diventa lo zero “rotondo come una palla” che era sempre stato. Trova finalmente la forma. La trova per Natale, sotto la neve, dentro la neve, dopo la tormenta. Nel bianco. Sembra quasi, nelle foto di Walser morto, che il suo corpo (i talloni vicini, le punte separate, il varco che si disegna in mezzo – quello sì intrinsecamente comico) sia disteso in mezzo a una distesa di parole nevicate, di parole-fiocchi di neve che nel corso di tutta la sua scrittura sono cadute piano e si sono mescolate le une alle altre. La somma di tutte le parole nevicate dà come risultato un corpo morto nella neve, un corpo azzerato in un paesaggio che cerca di azzerare se stesso.
In una striscia dei Peanuts – vado a memoria – Snoopy osserva Woodstock alle prese con una nevicata. Nella prima vignetta Woodstock, il capo in su, guarda un fiocco di neve che cade. Il suo sguardo è sognante, appassionato. Nella seconda vignetta il fiocco di neve è un po’ più in basso ma sempre in volo, sempre planante, e Woodstock è ancora sognante (ma trapela una punta di sgomento). Nella terza vignetta si vede Woodstock che guarda in basso, verso il bianco, il fiocco di neve ormai confuso nella coltre, mescolato e irrintracciabile, drammaticamente disindividuato. Woodstock è sconvolto: sbalordito, offeso e commosso. Nella quarta vignetta Snoopy esclama qualcosa come: “Woodstock non imparerà mai a non innamorarsi dei fiocchi di neve!”
Robert Walser muore così, tra le parole di neve, nella neve innamorata. Comico, idiota, perfetto.
Oggi ho trascritto le parti di Jakob von Gunten che avevo sottolineato anni fa. Vale da sintesi del libro, un po’ di neve messa in un secchio.
Eccole:
Qui si impara ben poco, c’è mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell’Istituto Benjamenta non riusciremo a nulla, in altre parole, nella nostra vita futura saremo tutti qualcosa di molto piccolo e subordinato. L’insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell’inculcarci pazienza e ubbidienza: due qualità che promettono poco o nessun successo. Successi interiori, magari sì: ma che vantaggio potremo trarne? A chi dànno da mangiare le conquiste spirituali? A me piacerebbe essere ricco, andare in giro in carrozza e aver denaro da buttar via. Ne ho parlato a Kraus, il mio compagno di scuola, ma lui non ha risposto che con una sprezzante alzata di spalle e non mi ha degnato di una parola. Kraus ha dei principi, sta ben saldo in sella, a cavalcioni della sua contentezza, e questo è un cavallo su cui chi vuole andar di galoppo preferisce non salire. Da quando mi trovo qui all’Istituto Benjamenta, sono già riuscito a diventarmi enigmatico. Mi sono sentito anch’io invadere da un senso strano, finora sconosciuto, di contentezza. Sono abbastanza ubbidiente, non al punto di Kraus, che è imbattibile nel precipitarsi a eseguire zelantemente gli ordini. Sotto un solo aspetto noi scolari, Kraus, Schacht, Schilinski, Fuchs, Pietrone, io, eccetera, ci assomigliamo tutti: nel fatto di essere assolutamente poveri e in sottordine. Siamo piccoli, piccoli fino a sentirci spregevoli. Chi ha in tasca un marco da spendere, lo si guarda come un principe privilegiato. Chi, come me, fuma sigarette, desta preoccupazioni per le sue abitudini spenderecce. Andiamo vestiti in uniforme: ebbene, questa circostanza di portare un’uniforme ci umilia e nello stesso tempo ci esalta. Abbiamo l’aspetto di uomini non liberi, e ciò può essere una mortificazione; ma abbiamo anche un aspetto elegante, il che ci preserva dalla profonda vergogna di coloro che se ne vanno attorno in abbigliamenti personalissimi, ma strappati e sudici. A me, per esempio, il vestire l’uniforme riesce assai piacevole, dato che sono stato sempre incerto su come vestirmi. Ma anche questo mio aspetto mi riesce per ora enigmatico. Forse in fondo a me c’è un essere estremamente volgare. O forse, invece, ho sangue azzurro nelle vene. Ma una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla. Da vecchio sarò costretto a servire giovani tangheri presuntuosi e maleducati, oppure farò il mendicante, oppure andrò in malora.
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Ci divertivamo a lustrare il pavimento, a tirare a lucido gli oggetti, anche quelli di cucina, tra un visibilio di stracci e di polvere detersiva, a inondare d’acqua il tavolo e le sedie, a rendere splendenti le maniglie delle porte, a soffiare sui vetri delle finestre per poi nettarli; ognuno ha il suo piccolo compito, ognuno si dà da fare.
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Tutt’a un tratto capisco cos’è che rende così amabili le donne. Mi divertono le loro civetterie, e scorgo un senso riposto nella trivialità delle loro mosse e del loro frasario. Se uno non le capisce quando portano una tazza alla bocca o si rialzano le gonne, non potrà mai capirle. Le loro anime saltabeccano in cadenza coi tacchi altissimi dei loro deliziosi stivaletti, e il loro sorriso è nello stesso tempo un vezzo insulso e un frammento della storia universale. La loro superbia e la loro scarsa intelligenza sono affascinanti, più affascinanti dei capolavori dei classici. Le loro mancanze di virtù sono sovente quanto di più virtuoso ci sia al mondo, e quando poi montano in collera e si arrabbiano? Solo le donne sanno come ci si deve arrabbiare.
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Ci si dà chiaramente a intendere che non c’è miglior modo di istruirsi che la disciplina e le rinunce, che in un esercizio semplicissimo, in certo modo stupido, c’è maggior beneficio, più veritiere nozioni che non nell’apprendimento di una quantità di concetti e di significati. Ci impadroniamo prima di una cosa, poi di un’altra, e una volta che ce ne siamo impadroniti, quasi quasi è essa che ci possiede.
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Annuii di nuovo. È un fatto: dico di sì a tutto con grande facilità.
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Quando si guardano le guance della signorina Benjamenta, non si ha più voglia di continuare a vivere, perché si ha la sensazione che la vita debba essere un infernale brulichio di basse volgarità.
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Se uno di noi fosse, o meglio fosse stato un eroe che avesse compiuto qualche impresa coraggiosa ponendo a rischio la vita, sarebbe autorizzato (così è scritto nel nostro libro) a entrare nel portico di marmo adorno di affreschi che giace nascosto tra il verde del nostro giardino; e là una bocca lo bacerebbe.
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Ho rispetto solo per le esperienze, e queste, di regola, sono perfettamente indipendenti da ogni pensiero, da ogni confronto. Così, per esempio, apprezzo il modo in cui apro una porta. È un’azione che contiene più vita riposta di qualsiasi domanda.
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Qui al nostro istituto s’impara a risentire e a sopportare una perdita, e ciò costituisce secondo me una facoltà, un esercizio in mancanza di cui l’uomo, per quanto insigne sia, rimarrà sempre un grande fanciullo, un bambinone piagnucoloso. Noi allievi non speriamo nulla, anzi ci è severamente vietato nutrire nel nostro intimo alcuna speranza per l’avvenire; e nondimeno siamo perfettamente tranquilli e sereni.
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Una cosa sola so di preciso: noi aspettiamo!
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Ho la sensazione un po’ oltraggiosa che nella vita non mi mancherà mai da mangiare. Sono sano, lo rimarrò, e ci sarà sempre modo di servirsi di me per qualche uso. Non sarò mai di carico al mio stato, alla mia comunità. Un simile pensiero, ossia la certezza di aver sempre il proprio pane quotidiano come uomo di bassa estrazione, mi ferirebbe profondamente, se fossi ancora il vecchio Jakob von Gunten, se fossi ancora il rampollo, il virgulto della mia casata, mentre invece sono diventato qualcosa di completamente diverso, sono diventato un uomo comune […]
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Del resto anche la malinconia mi è tanto cara, tanto tanto preziosa: perché educa.
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E poi, la verità è che le grosse commozioni mi producono nell’anima un effetto come di freddo glaciale.
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Un pezzo molto bello su uno scrittore molto amato e, forse, conosciuto meno di quello che meriterebbe.
Trovo stupenda la reminiscenza woodstockiana (è una vignetta alla quale anch’io sono particolarmente affezionato), che contiene, tra tante altre cose, una struggente metafora della letteratura e della scrittura in genere.
Stasera rileggerò “Der Spaziergang”.
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Segnalo su http://www.zibaldoni.it la possibilità di tuffarsi in una vera e propria enciclopedia walseriana. Per neofiti e non.
un pezzo “coi fiocchi” :-) bravo giorgio.
oh grazie, infinitamente grazie per questo brano su Walser, sulla sua radicalità novecentesca – in tempi di normalizzazione dell’essere, pensare ad un individuo che scrive “la sua esistenza era una giacca provvisoria, non un abito fatto su misura” quanto può apparire paradossale e strano … e poi, ricordare la lettura e rilettura de “La passeggiata”, nello splendido italiano di un germanista come Aloisio Rendi … e, ancora, rivedere in Walser un (in)consapevole Bartleby che riscrive con ossessiva leggerezza il proprio “preferirei di no”… oh, grazie…
W.G. Sebald ha fatto un ritratto molto profondo nella biblioteca minima dell’Adelphi dal titolo il Passeggiatore solitario che mi ha molto colpito per l’infelicità di questo grande scrittore
E’ una foto commovente. Le scarpe grandi e sporche di neve che parlano del poco prima, dei passi camminati, e poi il cappello, un po’ più in là, come per far uscire la storia.
E’ un racconto molto bello, su una vita, su Robert Walser, su questo suo andarsene nella neve. In una neve che sembrano fiori. E lo zero è anche tutto lo spazio attorno.