Le straordinarie avventure televisive di Éric Rohmer
di Lorenzo Esposito
Nel decennio che separa Le signe du lion (1959) e Ma nuit chez Maud (1969), non considerando il gruppo dei primi cortometraggi e La collectionneuse (1967), l’attenzione di Éric Rohmer fu principalmente catalizzata dalla serie di quindici lavori per la tv francese, che lui stesso curò e girò.
Si tratta, per l’esattezza, di quindici emissioni televisive, traducendo letteralmente dal francese la parola émission, che nei titoli di testa serve anche come trampolino dell’enigmatica circuitazione di pseudonimi rohmeriana: vi si legge, per esempio, émission di Maurice Schérer, réalisation di Éric Rohmer. Non a caso, dunque, émission non è riferibile solo all’idea di trasmissione tv, ma proprio all’emettere (e-mittere), che in fisica significa irradiare energia, trasmettere particelle elettromagnetiche, cioè sonore e luminose insieme. Anzi, in tale doppio fondo etimologico, Rohmer sembra enucleare quella procedura quasi auto-didattica, quella determinazione al catalogo e alla messa a punto, anche avventurosa (in un senso che, si potrebbe dire con Nietzsche, aristocratico-illuminista), di tutta questa catodica intrapresa intellettuale. I nomi presi in esame nei brevi film (tutti poco più di venti minuti, e solo alcuni di circa un’ora) sono molti, ma tutti legati dal filo comune di un tracciato alla ricerca dei lumi della storia: Lumière e Dreyer (effettivo mirabile prolungamento dell’attività di critico), Mallarmé, Poe e Hugo (declinati rispettivamente come conversazioni immaginarie, costellazioni astrali, studi architettonici e indagini geografiche), laboratori di fisica sperimentale, graficizzazioni del mito, geologie in prima persona (da Cartesio e Newton al Graal e alle forme del paesaggio tout court), e ancora Pascal, Cervantes e il rapporto fra marmo e celluloide.
Non c’è tuttavia, in tale complesso, alcun fascino per la meccanica narrativa e storica, quanto la determinazione a studiare il modo in cui le immagini sempre trasformano il mondo meccanico in materia sottile, offrendo della narrazione e della storia, pieghe e smagliature. Così, in Les cabinets des physiques (1964), Rohmer – lui stesso in scena, come un Socrate scorbutico e allampanato, col piglio duro e di strepitosa intelligenza nel confronto teorico e didattico col fisico di professione – sembra piuttosto un cartesiano sedotto dal potere occulto delle lanterne magiche.
Come già accadeva a Georges Franju dieci anni prima con Le poussières (1954), si comincia col pulviscolo solare e si finisce con la bomba atomica (affascinante e inatteso legame questo fra Rohmer e Franju, cioè col co-fondatore della Cinémathèque française insieme a quel Langlois, che Rohmer metterà accanto a Renoir per l’incredibile duetto filmato in Louis Lumière, 1968).
Nel 1957 inoltre Franju gira, sempre su commissione, Notre-Dame, Cathédrale de Paris, del cui gioco fra realtà e illusione sui volumi della cattedrale, Rohmer si ricorderà per l’altro suo televisivo Victor Hugo architecte, 1969). A Rohmer interessa la luce, il suo modo di generarsi e di svolgersi insieme planetariamente e capillarmente. Ogni riflessione è sotto il segno di una rifrazione: Les histoires extraordinaires d’Edgar Poe (1965) è tutto uno scivolare di buchi neri uno nell’altro, compresi i film citati e falsamente esplicativi, in realtà detonatori d’altri abissi e depistaggi: Le puits et le pendule di Astruc (1964), Vivre sa vie di Godard (la sequenza col volto della Karina e il ragazzo sul letto che legge le opere complete di Poe), La chute de la maison Usher di Epstein (1928, e qui aggiungiamo noi una rifrazione, non verificata ma appetitosa quanto basta, ricordando che Astruc gira nel 1981 per la tv britannica un film dal titolo, a questo punto emblematico, Histoires extraordinaires: La chute de la maison Usher), e infine e soprattutto Bérénice (1954), uno dei primissimi film di Rohmer, che qui viene ripresentato, per moltiplicazione astrale di pseudonimi, come un’opera surrealista e misconosciuta del misterioso regista inglese Dirk Peters, sul quale si affabula con ironica fantasia.
Anche Victor Hugo: Les contemplations (1966), viaggio nei luoghi dove lo scrittore amava rifugiarsi, per poi trascriverli puntigliosamente nei suoi diari (autentica scorribanda, visto che Rohmer stesso ricorda di aver girato gli esterni da solo con una 16mm in spalla), termina su un colpo di luce, un’eclisse che sembra una sorta di primordiale big bang fra intensità luminosa e parola. Il fisico cineasta preleva campioni di energia direttamente dal corpo della parola: volti, paesaggi, grafie (da questo punto di vista altri due esempi perfetti sono L’ère industrielle: Métamorphoses de paysage del 1964 e soprattutto Perceval ou Le conte du Graal del 1966, geometrico mosaico che fa da prologo al più tardo Perceval le Gallois, 1978).
Eppure c’è un dato folle in tutta questa operazione, una follia sinonimo di arguzia e determinazione. Esemplare la tattica depistante con cui Rohmer, nel già citato dialogo a tre con Langlois e Renoir in Louis Lumière, recita la parte dell’avvocato del diavolo, perseguendo in realtà l’unico obiettivo, più che raggiunto, di ottenere dai due maestri le parole più sideralmente esatte, e mai abbastanza studiate, pronunciate sui Lumière e sul cinema. Diversamente da Rossellini, la cui didattica televisiva era in realtà l’intervento più obliquo e avveniristico (novecentesco) sulla rimessa in circolo e sulla traslazione della storia e della storia delle immagini, Rohmer ha la nobiltà degli uomini tedeschi di cui Benjamin faceva l’antologia in lettere (perdute e dello spirito perduto di un’epoca), compie le sue incursioni con la durezza tenera e tagliente dell’esperimento insieme drammatico (la luce) e ozioso (la parola). Il suo metodo è metodica ricerca di costanti, che tuttavia non tratteggino linee, ma ripercussioni, ricadute, intersezioni, che siano, in una parola, un percorso morale. È veramente il fisico nel suo laboratorio con l’aristocratico desiderio di sfidare a duello la realtà, assediandone in vitro porzioni abissali, ma al tempo stesso rifiutando ogni naturalismo, e al contrario rischiando il racconto dell’inazione, cioè, per paradosso, l’instaurarsi insieme laconico e violentissimo, della parola ri-sintetizzata in luce.
Ora, questa magnifica ossessione, è la ricerca e, in quanto tale, è il film. In Mallarmé (1968) Rohmer arriva al punto di fingere una conversazione al ‘presente’ col grande poeta, basandosi su una intervista rilasciata davvero da Mallarmé a un quotidiano dell’epoca (solo le domande sono ‘nuove’). E così, a un certo punto, come un colpo di dadi (quel giro rocambolesco che per Mallarmé era l’unica scientificità possibile, e che per Straub-Huillet sarà sinonimo di rivoluzione), l’attore che interpreta Mallarmé assume esattamente la posa che raffigura il poeta nel quadro appeso alle sue spalle… Di nuovo, la selezione (scientifica) diventa irradiazione (poetica), allo stesso modo in cui in tutti i lungometraggi Rohmer, all’interno di una costellazione che riguarda sempre l’amore il desiderio l’ingegno i rapporti, sembra in realtà filmare (o, ancora come il fisico, letteralmente estrarre) la luce interiore che un singolo essere umano, per il breve tempo che è qui, dona al mondo intero: il ginocchio di Claire, il raggio verde, o il motivo zodiacale che da subito chiudeva Le Signe du lion (che è anche il motivo per cui a lungo quel capolavoro non ha trovato un suo pubblico illuminato). ‘Morale’ in televisione, sembra voler dire Rohmer, è il racconto dei rapporti spaziali, così come al cinema i dialoghi più anti-letterari sono i più romanzeschi e, perciò, i più cinematografici.
Il mio film preferito di Rohmer è le genou de Claire. Il desiderio viene in cerchio dal ginocchio abbronzato, piccolo sole. Si sente vibrazione partire da questa parte del corpo, a nudo, visibile, fragilità in piena luce. Il momento che amo di più è la brutale dolore di Claire, il suo passaggio dall’ombra ( la pioggia chiude il paesaggio) alla luce crudela della verità: un amore tradito. In questa pena mi riconosce, anche nella crudeltà del protagonista che vede le lacrime invadere il volto della ragazza, e solo come piccola bagliore: la biondezza e il ginocchio.
Ma credo che il più bello lavoro con la luce in un film l’ho visto in Morte di un matematico napoletano di Martone. Una luce folla che si intrufola nei vicoli di Napoli illuminando l’erranza del personaggio.
Il capolavoro di Franju è les yeux sans visage, un film che mi ha ossessionata nella sua paura che imprigiona. Il lavoro sulla luce tra notte
e angelica bellezza dei volti, tra orrore e una natura oscura è fantastico.
Nell’estetica del Rohmer televisivo ( e davvero un plauso a Lorenzo Esposito per questa sua lettura attenta e minuziosa) c’è già tutto il suo cinema: in Bérenice, Charlotte est son steak ,Véronique et son cancre, Charlotte et Véronique ou tous les garçons s’appellent Patrick, La métamorphose du Paysage e altri qui citati da Esposito, a ben vedere, vi sono situazioni ,sviluppi, taglio dell’inquadratura, posizionamento della camera e scelta di luce che prenderanno forma compiuta e respiro narrativo ne Le Rayon Vert, Les nuits de la pleine lune, L’Amor l’après midi e tanti altri ancora; ma soprattutto v’è lo sguardo documentaristico, scarno, essenziale, tutto concentrato sui personaggi . Amo moltissimo in Rohmer la sua estrema attenzione ai personaggi e alla grande cura e curiosità verso i personaggi femminili che sono sempre più interessanti di quelli maschili.
Comunque molto interessante il testo di Lorenzo Esposito, un invito a chi ama il cinema, a vedere e rivedere questo grande maestro che ci ha lasciato all’inizio di quest’anno. Durante le vacanze di Natale ho rivisto tutti i suoi film in dvd e ne è valsa davvero la pena, soprattutto perchè molti, quale bonus, presentavano proprio i corti o i lavori del Rohmer televisivo. una vera chicca.
Errata corrige :
Charlotte et son steak
Les Métamorphoses du Paysage: l’ère industrielle
L’ Amour l’après-midi
Vorrei inoltre dire che il Rohmer televisivo anticipa il Rossellini televisivo di un ventennio, al quale comunque s’ispira nello stile (penso a Uomini sul fondo e ai primi documentari girati da Rossellini nei tardi anni trenta, nella fase del suo apprendistato di cinedocumentarista). Simmetrie, affinità e dissimmetrie tra Rohmer e Rossellini. In una sinossi a raffronto, salterebbero fuori cose molto interessanti.