undici settembre
di Nicola Ingenito
Prologo
a: lisasimpason@hotmail.com
da: su.sontag@hotmail.com
Data: 10 settembre 2001
Oggetto: De no- tragedy e history of sex
Cara signorina Lisa Simpson,
sono Susan Sontag e ho letto la sua raccolta di saggi. Il libro in sé mi è sembrato sin troppo attuale per sfuggire alle caratteristiche di una raccolta confusionaria, tuttavia incisiva, prolissa, ma con punte di ironia e intelligenza, davvero singolare. Di tutto il suo lavoro io salverei i suoi due saggi: “No-tragedy” e “Preservativi: storia del sesso contemporaneo”. Il primo, nel suo linguaggio d’apocalisse, forse troppo lirico, racconta assai bene il nulla delle comunità anestetizzate dal dolore, mentre il secondo è la migliore “gay (hi)story” dell’ AIDS , che abbia mai letto negli ultimi dieci anni: puntuale e ironica. Devo dire che lei mi è simpatica, perché mischia, allo stesso tempo, il rigore di uno studio luterano con la raffinatezza del migliore bozzetto di costume. Me la figuro come una ragazzina con l’aspetto di un’intellettuale europea, che non sbaglia mai tailleur. Infatti vorrei verificare questa sua attitudine all’effimero incontrandola domattina, 11 settembre, alle ore 11 e 30, per un pranzo di piatti francesi.
Mi mandi il suo orario d’arrivo, e verrò a prenderla io stessa al deposito dei bus.
Finita di leggere la mail, che la tenne legata allo schermo come un fluido incantatore, le otto punte della testa di Lisa guizzarono di felicità. Andò immediatamente a comunicarlo ai suoi genitori, che, avendo visto qualche volta la grande scrittrice in TV, furono entusiasti. Marge stilò una lunga trafila di abiti da portare e di commissioni da sbrigare, mentre Homer prese la mitica copia del suo giovanile romanzo incompiuto, “Che fine ha fatto Mamma Simpson ?”, per consegnarlo a Lisa, che, dopo aver corretto qualche difetto d’ortografia, avrebbe dovuto consegnarlo alla Sontag.
Lisa accettò sapendo che per Homer non era affatto importante il giudizio di quella precoce ex-studentessa di filosofia dalla chioma ciuffata di bianco. Sapeva benissimo di aver scritto solo un capitolo del romanzo. Per di più confondeva ancora Susan Sontag e Susan Sarandon. E Lisa, in quanto, non capiva se la sua fosse una proposta editoriale o di diritti d’autore per una produzione off-Hollywoood.
“Ma no papà! Susan Sarandon è quella di “Dead man walking”, mentre la Sontag è la scrittrice ebrea-americana, che ha inventato il “camp”, cioè ciambelle sublimi come versi di Shakespeare, birra Duff al posto di nettare e ambrosia!”
“I love you, Susan!”rispose Homer con un po’ di bava di bocca come ogni volta che sentiva la parola: ciambelle.
Marge scartava e riscartava vestiti, quando ebbe un’idea, le avrebbe consegnato il ciondolo che sua madre le diede al suo matrimonio. La tradizione era che le donne della famiglia Bouvier se lo tramandassero di matrimonio in matrimonio in segno di sorellanza e dedizione a quel sangue di antica aristocrazia francese, scampata alla Rivoluzione, con la settecentesca speranza di un Nuovo Mondo. Raffigurava una donna con un’espressione che ad alcune appariva torbida e sensuale, ad altre umile e sofferente.
Tutte le donne Bouvier, persino Patty e Selma, si erano domandate se in loro scorresse il sangue di una puttana o di una martire, anche Lisa, che conosceva questa storia , ne aveva scritto. Anzi, il suo ultimo reportage,“Journale Intime”, sarebbe stato il lavoro da presentare a Lady Sontag per la trasferta newyorkese del giorno dopo.
Sta proprio qui il punto, se per tutte le donne Bouvier, il giorno più bello o più importante della loro vita era il matrimonio, quale sarebbe stato per Lisa, che rifiutava l’idea di qualunque rito o legame? I libri, i premi, gli studi, i discorsi sarebbero stati le grandi occasioni della vita. Il cicaleccio letterario era la cornice del suo amore più sincero e profondo. Il più bel giorno della sua vita, il più importante, poiché era il primo, segnato dal successo e dalla riconoscibilità di un critico importante, sarebbe stato di certo l’11 settembre 2001.
Smithers aspettava, indossando il solito golfino della domenica, l’arrivo di Bart. Aveva le mani sudate per la tensione. Si trattava di una missione delicata e Bart era un ragazzetto fin troppo attraente e bad per riuscire a concludere l’affare in una maniera appropriata. Entrò senza neanche bussare e disse : “ Allora, frocio, domani a che ora?” Quel “frocio“ risuonò alle orecchie di Smithers come un “allora, dolcezza, cosa c’è per cena? “ e, in fondo, era così, perché Bart non aveva nulla contro i gay. Anzi. Si trattava di un modo di dire come: “Ciucciati il calzino!”.
“Mario e Paolo arriveranno qui alle 10,00. Se vuoi puoi dormire da me? ”
“No, mi faccio vivo, io, domattina!”
“Come vuoi ” concluse Smithers, mentre cambiava già discorso, dicendo: “Mi hai portato le foto della fortunata?”
“Si, eccotele. E’questa qui!”
“Carina” esclamò Smithers, chiedendosi dove avesse già visto quella bambina. Doveva averla già vista, perché era strano porsi una questione del genere su una quasi neonata, uguale a chi sa quante altre centinaia.
“Ma è Maggie! Vuoi dare via Maggie?”
“Ciucciati il calzino! Questi froci italiani pagano bene e poi sanno cosa farsene. Sarà in buone mani.”
“Bart! Non si può! E’ sacrilegio! Ti dannerai tutta la vita per questo!” disse Smithers.
“ Noooo” rispose Bart con il solito menefreghismo.
“Bart, Darling!” e gli si avvicinò accarezzandogli la faccia fresca, non ancora ombreggiata da un filo di barba. Non si spiegava il perché, questi ragazzi fossero così, ma li amava.
“Ora devo andare. Ci vediamo domattina!”
“Ok, Bart! Guarda che possiamo far saltare tutto! Siamo sempre in tempo ! Si rinizia daccapo.”
“Se stiamo combattendo una guerra, la combatteremo fino all’ultimo!”
“Pensaci!”
Bart sbatté la porta e lasciò un forte odore di marijuana e sudore.
La “guerra” era la missione che Smithers si era posto per il suo pensionamento anticipato da segretario personale: la famiglia.
Infatti, questo era, per lui, il valore più importante. La famiglia. Lo ripeteva sempre e, quando lo faceva, gli si riempiva la bocca di gloria e buoni sentimenti e sul volto gli si disegnava un’espressione piena di tristezza.
Nella comunità, Smithers era stato identificato dapprima come un giovane e sano repubblicano di buone letture cattoliche, poi come uno zelante segretario personale e, infine, come il primo gay dichiarato e conservatore di Spriengfield. C’era, infatti, chi andava dicendo che, anche da dichiarato, il suo fosse un tragico caso di criptochecchismo, per il quale Smithers non s’era spinto oltre solitarie masturbazioni su bei ragazzi patinati.
Di certo la sua natura conservatrice e cattolica gli poneva un bel problema di coscienza, così, una volta, riuscì a capire a quale domanda dovesse rispondere come repubblicano, come sostenitore cattolico del movimento per la vita e, infine, come gay : “In che modo la sodomia, causa della sterilità, può andare incontro alle questioni della vita, e in special modo alla piaga dell’aborto?”
No. Non si trattava di un omosessuale misogino, Smithers era un omosessuale all’antica, col complesso d’Edipo, e per ciò desiderava accordare l’amor di madre e figlio a quello di uomo e uomo. Così una notte, gli era venuta un’idea.
Decise che si sarebbe messo in viaggio di consultorio in consultorio, di centro in centro, di donna in donna, alla ricerca di bambini da destinare alle famiglie di tutti quei genitori in potenza, il cui amore superava ogni biologia e costituzione, le Madri e i Padri gay e lesbiche. Smithers partì con le migliori intenzioni, ma non ebbe alcun successo, e così ancora una volta, la morale, per essere tale, aveva bisogno della perversione e della corruzione: Bart Simpson. Lo conobbe davanti a un vecchio Krusty Burger. Andarono a letto una sola volta per una quarantina di dollari. Qualche giorno dopo, Smithers gli propose il ruolo di inseminatore e lui accettò, senza aver capito bene, ma solo perché aveva troppo bisogno di soldi. Quando si sparse la voce della lotta segreta di Smithers – adozioni illegali di minori – tutti i gay repubblicani del Paese e non solo iniziarono a chiamarlo: “L’Arcangelo Gabriele”.
I coniugi Simpson uscirono ad ora di pranzo per raggiungere il lavoro. All’età di sessant’anni vista l’università di Lisa, gli eterni pannolini di Maggie annessi ai problemi di crescita e gli investimenti a fondo perduto di Bart, Marge e Homer dovevano ancora lavorare. Ma il peggio non era il lavoro in sé, era il datore di lavoro. Purtroppo il fatto che la Centrale Nucleare avesse chiuso per bancarotta e cassaintegrati tutto i suoi operai, fra le furie e le gioie degli ambientalisti-marxisti, non indicava che Montgomery Barnes fosse un uomo morto.
Il mummificato miliardario, che, durante il decennio clintoniano, diceva di non capire più l’America, aveva assunto i Simpson, l’una come domestica, l’altro come segretario tuttofare, alla stessa paga con cui aveva mortificato Homer per più di vent’anni. Cupi pensieri si rincorrevano nella testa Homer e Marge: la consapevolezza che Lisa non avrebbe mai indossato il velo bianco e il desiderio di una morte lenta e dolorosa per il signor Barnes. Non trascorreva giorno, in cui la scelta di Lisa non suscitasse in Marge una spietata analisi della sua situazione matrimoniale e il desiderio di morte non suscitasse in Homer una serie di fantasie, che inscenavano un personale kamasutra della vendetta.
Le loro giornate erano avvelenate continuamente da questi pensieri, ma quando poi si ritrovavano a casa, così stanchi e spossati da non avere neanche la forza di abbracciarsi, allora capivano, l’uno con la Duff, l’altra con i romanzi Harmony, che non ne valeva la pena, perché l’amore era poco ma abbastanza per gli anni che li attendevano. Homer e Marge giunsero nella magione del Signor Barnes. Lo sfarzo del posto faceva pensare a uno strano matrimonio fra le imponenti geometrie faraoniche e quelle decadenti della villa di Gloria Swanson, in “Viale del tramonto”. La donna dei sogni, di quando, più che un cuore, Barnes aveva ancora un sesso pulsante d’amore.
Marito e moglie raggiunsero la porta rigorosamente a piedi, per non lasciare tracce del loro passaggio, poiché la prima qualità di coloro che Barnes chiamava i “subalterni” doveva essere la discrezione, una particolare impercettibilità in cui l’assenza continua si fa presenza, solo se necessaria, e quindi all’ora dei pasti, a quello della cacca e della pipì, a quella del bagno, all’ora della passeggiata, della TV, e, infine, alle ore dedicate alla lettura delle Sacre Scritture o delle Fiabe.
La porta si aprì automaticamente e i Simpson furono malinconicamente accolti dall’unica consolazione, che, in quella casa, potesse accogliere i visitatori, subalterni o no. Una frescura artificiosa, che riparava dalla canicola esterna e che li imprigionava. Homer fu il primo a entrare in salotto, Marge raggiunse la cucina: Barnes era seduto di fronte al grosso camino in attesa.
“Buongiorno, signor Barnes” disse Homer.
“Salve, buonuomo” rispose quello con voce melliflua.
Era gentile. Non era un buon segno.
Atti
L’11 settembre 2001, Spriengfield si svegliava sotto un cielo azzurro e terso. Non c’era neanche l’ombra di una nuvola o la minaccia di un qual si voglia venticello che potesse far presagire un cattivo esito.
I Simpson erano contenti della bella giornata, perché, immaginando come avrebbe potuto presentarsi l’inverno, trovarono che una bella giornata fosse una sorta di regalo climatico. Il sole lasciava intravedere ancora la possibilità di una vacanza anche se Homer e Marge, quell’anno, non s’erano potuti godere neanche un week-end nella più vicina città di mare. La meteorologia evitò un solo membro della famiglia: Bart era talmente immerso nei piani per la giornata da sentirsi perfettamente fuori dal mondo. Doveva prendere Maggie, vestirla prima che arrivasse Marge e dire che l’avrebbe accompagnata lui al Nido. Poi avrebbe detto che mentre si dirigevano a scuola due o tre tizi l’avevano immobilizzato e avevano rapito la piccola. Durante quella fase Maggie probabilmente sarebbe già stata in viaggio per l’Italia.
Homer e mà – come Bart chiamava affettuosamente Marge – si bevvero, senza troppo riflettere, la scusa del figlio, presi com’erano dai preparativi per la partenza newyorkese, che andavano dalla cottura di una crostata d’arancia con su scritto “Susan” da parte di Marge al volume rilegato del romanzo incompleto di Homer. Bart non si interessò affatto a tutto questo. Fece a stento i complimenti a Lisa, senza stare ad ascoltare chi fosse la misteriosa scrittrice, che, subito, definì come un’altra-di-quelle-troie-rosse-che-tanto-accendevano-la-sorella. Prese la piccola ed uscì.
“Bart! Aspetta! Metti anche questa a Maggie. E’ comunque settembre!” disse Marge, stando sulla soglia della porta con una mantellina azzurra fra le mani. Maggie guardò il fratello, come al solito, senza dire niente, con gli occhi espressivi di chi sa quali sentimenti. Bart sperava che lei ammirava quel fratello “fico”, che si dava un tono da bello e dannato, mentre la consegnava nelle braccia di una nuova famiglia.
Attraversò le strade ancora sonnacchiose di Spriengfield e pensò che fosse davvero poco conveniente organizzare gli scambi a casa di Smithers visto che per raggiungerla bisognava passare per tutte le strade principali. Mentre era di strada, si soffermò davanti casa di Milhouse e gli venne quasi voglia di buttar giù la porta per gettarsi in camera dell’amico e dirgli di lasciar perdere tutto, università e tutto il resto e andare via, a Sud, sempre più a Sud, magari in Messico, dove tutto è bello e costa poco. Alla fine desistette da quell’impulso, che a dire il vero, era l’unica concessione che Bart faceva a se stesso e al suo passato, per proseguire in discesa libera giù per la sua strada. Maggie sorrideva e il suo ciucciotto rosso lasciava intravedere gli angoli della bocca, che s’infossavano sempre di più in simpatici archetti. C’era nell’aria, probabilmente, un qualche elemento che non permetteva a Bart di essere sereno. Passò davanti alla villetta del direttore Skinner, che intralciò i suoi piani, invitandolo a prender un thè, come fossero due antichi rivali.
“Scusi, direttore, ma devo accompagnare Maggie”
“Su, Simpson, sono le sette del mattino. Il nido apre fra due ore.”
“Ok, ma solo cinque minuti”
Skinner gli versò una tazza di thè, gli offrì dei biscotti al cioccolato e disse: “Ho una missione privata da consegnarle, Simpson. Si ricorda della signorina Caprapal, la sua vecchia insegnante?”
“E chi se la dimentica quella schiattapalle?”
“Si, proprio lei. Ricorderai delle mie simpatie per lei?”
“Arrivi al punto, direttore.”
“Io ti sarò sempre grato, perché ci hai difeso. Il solo in quell’occasione, ma ora ti chiedo di portarle un altro messaggio. Se vuoi?”
“Quanto sganci, Skinner?”
“Trenta , Simpson”
“Ok! Ci sto! Lo consegnerò dopo aver sistemato Maggie”
Skinner prese il biglietto dalla scatola dei biscotti e lo diede a Bart.
Casa Caprapal era poco distante dalla casa di Smithers, Bart la osservò, fissandosela bene in mente, come punto di riferimento per il ritorno. Bart entrò in casa con Maggie. Salutò Smithers, buttando subito l’occhio verso la stanza, dove, di solito, Smithers ospitava i clienti: un‘accogliente cameretta con le pareti tappezzate di una fantasia a fiorellini. Al centro regnava un comodo letto a una piazza e mezzo, che di giorno diventava un grazioso comodino per porcellane e suppellettili dal gusto misto. Smithers intuì che a Bart avrebbe fatto piacere conoscere la coppia per Maggie e così fece. Mario Verdi e Paolo Moretti erano una coppia gay da perfetto Democratic Dream: lindi, belli, maturi, ma con l’aspetto d’eterni ragazzi, l’uno casual, l’altro elegante, ma pur sempre griffati, colti e con una luce che ricordava una pubblicità, Mario e Paolo sarebbero stati due genitori, degni del saluto del sindaco di destra, del rivoluzionario di sinistra e del prete. I Simpson, invece, erano un baraccone di scalognati: una fiera dell’idiozia.
“Famiglie vi odio” disse Bart “come il cioccolatino all’anice su cui ho letto questa frase. Homer ti odio perché sei un fallito, Homer ti odio perché bevi, Homer ti odio perché quando vai al cesso non tiri mai lo sciacquone, Homer ti odio perché ti puzza il fiato, Homer ti odio perché sotto le ascelle sei sempre sudato, Homer ti odio perché russi , Homer ti odio perché non sei mai andato a lavoro felice e te, mà, che non dici mai niente. Odio anche te, mà. Vai a letto con lui. Ti ho sentita gracchiare l’orgasmo. Ti odio perché te l’avevano detto tutti di non sposarlo, persino le tue sorelle, sempre a caccia di matrimoni. Ti odio perché dici che sono il tuo ometto. Perché dici che io e quello siamo i tuoi uomini. Ti odio perché cucini e non fai altro. Perché guardi le signore vestite bene con mariti belli ed eleganti e abbassi gli occhi per non dare a vedere l’invidia. Ti odio perché pulisci il culo a Barnes e, magari, glielo meni pure per fare a tutti il regalo, alle feste comandate. Ti odio mamma, c’hai provato a dare il tuo contributo e hai fallito almeno due volte su tre.
Me. Maggie. Lisa e i suoi libri e come sta seduta quando scrive i suoi racconti e i suoi saggi e come parla quando parla in pubblico e quando dice quelle parole del cazzo tipo“metafisica” o “ermeneutica”. Lisa ti odio, ma so che finirà, perché te andrai via, ma sarai sempre triste.” Il gene Simpson non aveva nulla a che fare con il vero centro dell’unica riflessione di Bart: il successo. Nella terra dei sogni, dove un ex-attore di serie B può diventare presidente, non c’era posto per la famiglia Simpson, così Bart aveva pensato che almeno Maggie, che non ne era stata ancora contaminata, andava salvata. Bart uscì dalla casa di Smithers con l’impressione di aver appena iniziato una nuova giornata. Si ricordò che doveva consegnare la missiva alla Caprapal e usò questo compito come fosse un primo contatto con la realtà dopo un lungo sonno. Si diresse verso la villetta e, fatto strano, trovò la porta aperta: la cosa lo insospettì un po’, ma poi pensò che forse la maestra lo attendesse, perché già sapeva, o che, magari, avesse lavato da poco i pavimenti, così andò dritto verso il salottino e la trovò : “ Buongiorno Caprapal ”.
La maestra non rispose. Aveva ancora la camicia da notte così pensò che fosse imbarazzata e desiderasse prima coprirsi, ma la maestra non si muoveva dal divano, che era sistemato di fronte alla TV, per di più accesa, ma a volume piuttosto basso per una donna così anziana. Bart le si sedette accanto e scoprì il motivo del suo silenzio: l’amore.
Edna Caprapal si era inferta con una lametta per unghie dal manico istoriato due netti e profondi tagli alle vene dei polsi, da cui sgorgava un rivolo di sangue, che riempiva a poco a poco le bacinelle, l’una bianca, l’altra azzurra, che aveva messo lì affinché la tappezzeria del divano non si macchiasse. Era sempre stata una donna pulita. Probabilmente la infastidiva quella diceria che vede tutte le single come delle sciatte befane. Edna Caprapal era sempre stata una signora. Non come le zie, pensò Bart. Mentre stava per andarsene, si avvicinò al televisore per sistemare la lettera di Skinner, poiché Bart pensava che un lavoro, se pagato, dovesse sempre essere portato a termine, e rimase incantato davanti allo schermo. C’era il trailer di un nuovo film americano di genere catastrofico. La storia di due torri sfracellate da due aerei. Aspettò la data d’uscita, perché doveva essere un film fichissimo. Lo colpì proprio al cuore quella scena, ma quel film sembrava non dovesse uscire mai, perché l’unica data che uscì fu quella del giorno con l’orario : 11 settembre 2001, 9 e 30 h: m. E poi una città : New York.
L’autista partì in perfetto orario. D’altronde Lisa aveva fatto tutti i conti per trovarsi lì puntuale e avere, caso mai, anche il tempo di una rinfrescata nella toilette di un bar. Nella sua mente, aveva provato talmente tante volte quella giornata che nulla sarebbe potuto andare storto. Si sentiva tranquilla come quando faceva gli esami all’università. Aveva studiato, e quindi non temeva neanche gli umori, possibili e umani, di Susan Sontag. Sapeva che quest’incontro sarebbe stato il suo lasciapassare per il Mondo degli Intellettuali di New York e, già, pregustava il piacere di cene a base di gulasch e cucina europea con filosofi, artisti e amanti degli amanti. Storie ordinarie, ma, sempre, all’ombra di personaggi dal cervello luccicante.
Che soddisfazione, sarà guardare l’album di sua madre, pieno di articoli, e suo padre, che non capisce, ma è felice e forse, anche, Babi sarebbe cambiato, perché le giovani artiste di New York erano davvero carine e, magari, si sarebbe accasato con una di loro. La storia, in fondo, l’avrebbe divertita molto. Nessuna delle persone che viaggiavano con lei le suscitava un sentimento d’invidia, il suo era il miglio motivo di viaggio che si potesse avere.
Per la prima volta, dopo tempo, Lisa s’accorse di addormentarsi senza il rimpianto di non essersi impegnata abbastanza. Amava l’emicrania da studio, leccata dagli acari delle aule, dal mogano delle biblioteche e dai detersivi di camera sua. L’amava, non ne poteva fare a meno. Ma questa volta era diverso.
Si addormentò- tranquilla – e impostò la sveglia per le 9 e 30, orario previsto per l’arrivo. Desiderava non perdersi nulla della città, ma fu inutile. Si svegliò in grande anticipo, spalancando gli occhi, perché aveva avvertito la sensazione di uno spillo nel cuore. Era a New York. Se ne accorse, leggendolo su un’insegna segnaletica, unico elemento di realtà, in una città che sembrava sommersa da polvere, brandelli di carta e urla indistinte.
Non era il solito caos. Cercò il cellulare, ma lontano, una voce disse: “Le linee sono interrotte”.
La sveglia suonò e indicò che erano trascorsi alcuni minuti dopo l’orario registrato.
Avevano preso l’abitudine di fare colazione insieme. Quando la baraonda era passata, Marge si faceva trovare seduta accanto al suo caffè, mentre Homer si fiondava sulle frittelle calde. Era un piccolo rito, dopo cui Marge si concedeva sempre una sigaretta. Avrebbero desiderato oziare in casa per tutta la giornata, viversi il proprio 11 settembre e farlo proprio, invece, dovevano consegnarlo per cinque ore di seguito nella mani di Barnes.
Quando arrivarono a casa del vecchio Marge si diresse dritta verso la cucina per iniziare a preparare le differenti colazioni, mentre Homer temporeggiò in salotto. Era il giorno del bagno.
Marge cucinò le uova e il bacon. Homer aprì le tendine della camera da letto e disse :“ Buongiorno, Mr Barnes. Sono le 8 e 15 e oggi è l’11 settembre 2001”
“Lo so, grassone, cosa credi che sia imbecille come quel babbione che tieni sotto aceto alla casa di riposo?”
“No, Mr Barnes”
Marge bollì le uova alla coque. Homer aiutò Barnes ad alzarsi e lo sospinse verso la toilette. Marge fece salire su la moca del caffè espresso, la macchinetta per l’Irisch Coffe e, infine, preparò del thè con alcuni biscotti fatti in casa. Homer mise il corpo di Barnes nella vasca da bagno e man mano ci aggiunse l’acqua, miscelando calda e fredda con svariati sali e saponi, che, se pure intensi e delicati non riuscivano a togliere dal corpo di Barnes l’odore di carcassa.
Marge versò nelle due brocche latte caldo e freddo. Homer sfregò bene sotto le ascelle facendo attenzione a eliminare tutta la pelle morta. Marge, infine, distribuì le polverine cacao, orzo, nescaffè e portò i vassoi su un carrello argentato in salotto di fronte alla tv. Homer asciugò il corpicino di Barnes: ossa friabili mischiate a pelle simile a carta di quotidiani. Lo vesti e lo portò a fare colazione in religioso silenzio. Barnes assaggiò qualche sorso di caffè amaro e fece portare via il resto.
“Accendi il televisore, scimmione!”
“Sì, Mr Barnes”
Homer eseguì: aprì le tende e iniziò a fare zapping fin quando Barnes non ordinò di fermarsi su una telenovela argentina, che seguiva in gran segreto da una decina d’anni. Una volta, Homer per fargli piacere, gli sintonizzò il canale della telenovela senza ricevere ordine, Barnes gli si scatenò contro, tirandogli addosso qualunque cosa capitasse a tiro. Anche se Homer continuava a pensare che quelle storione tv fossero pizzose, alla fine, guardando e riguardando, si era appassionato alle vicende d’amore della protagonista, ma, per principio, guardava le puntate solo se era da Barnes, mai se era a casa.
Questa volta, però, l’historia de Celeste non ebbe il solito effetto di panacea sul vecchio, anzi, poiché si sentiva inquieto, dopo un po’ si stancò di guardare la tv e chiese ad Homer se potesse leggergli una fiaba. Homer abbassò il volume del televisore e cominciò a leggere la storia di un gregge.
Mentre leggeva, sentì una strana empatia fra lui e il vecchio, infatti, il racconto era talmente avvincente che Barnes senza proferire cenno, s’emozionò fin quando non fu Homer ad interrompere la narrazione con un urlo: “Maaarge! Vieni a vedere”
“Che fai, ciccione, continua a leggere!”
“Oh mio Dio!” esclamò Marge, alzando il volume al massimo.
“Insomma basta ti pago per leggermi la fiaba e non per vedere la tv. Leggi !” tuonò Mr Barnes.
“Mr Barnes, la prego, chi leggerebbe fiabe adesso? Non vede cosa sta succedendo? Mia figlia è a New York ” disse Homer senza alzare la voce.
“Io me ne frego di tua figlia. Continua con la fiaba”.
Marge interruppe il turpiloquio del vecchio con un sonoro ceffone e disse “Lei è un porco Mr Barnes. Le auguro una morte triste e solitaria. Io ti maledico Montgomery Barnes”
Homer e Marge uscirono per andare alla redazione del Tg locale.
Per tutto il tragitto e l’attesa di notizie, Homer non poté fare a meno di ricordare che, anni fa, aveva trovato la sua auto, parcheggiata, proprio lì, al World Trade Center.
Epilogo
a: su.Sontag@hotmail.com
da: lisasimpson@hotmail.com
Data: 15 settembre 2001 , 4 : 48
Oggetto: America
Cara signora Susan Sontag, scrittrice,
in questi giorni, siamo morti e rinati di nuovo, a poco a poco. La mia speranza di una nuova vita non è stata del tutto tradita visto che siamo tutti cambiati, anche se in modo molto diverso, rispetto a come m’ero immaginata.
Mia sorella Maggie è stata ritrovata da una coppia di gay italiani, che sono stati nostri ospiti per due settimane. Pensi l’hanno ritrovata in un cassonetto.
Mr Barnes è morto per cause, si dice, non naturali.
I miei genitori sono stati gli unici a presenziare ai funerali e gli unici ad adempiere le sue ultime volontà: bruciare tutti i suoi averi.
Bart è partito per il Messico con Milhouse.
Dice che se ci sarà la guerra si rifarà vivo in qualche modo.
Io ho trascorso i miei ultimi giorni a recuperare cadaveri e pochi superstiti.
Se ci sarà la guerra partirò anch’io. Voglio mettere in scena uno spettacolo con attori presi dalla strada, fra i civili. Non voglio più stare lontana.
Lisa Simpson
Lisa spense il computer e andò a dormire.
Nella sua vita non incontrò mai Susan Sontag.
Molto carino. Però, che palle l’undici settembre. Doh!
Bello, ma Homer J. Simpson, quì nel racconto non è lui, non può essere lui. Lui è un vincente, suo nonostante, ribalta il mito della meritocrazia protestante, è l’america con le stelle al posto delle strisce.
Il giorno che hanno usato “carino” per apprezzare un mio scritto, l’ho bruciato. Per come la vedo io, quando una cosa è carina, è una merda.
Quindi bisogna dire: questo pezzo è bellissimo, un capolavoro oppure sentirsi in colpa perché da un ‘carino’ dipende una fiammata di fogli di carta? E’ importante, secondo me, credere in primo luogo in quello che si scrive, ascoltare i giudizi altrui, ma non renderli giudizi divini, e sopratutto tenere a freno la propria sensibilità. Questo sito è pieno zeppo di gente sensibile, te lo assicuro. Un caro saluto. Marco Mantello
Bello. Comunque Barnes è Burns, Spriengfield è Springfield.
Caro maurizio,
non posso certo dipendere dal giudizio di uan sola persona o dal consenso generale stesso di critici o pubblico per ritenere pubblicabile o meno un mio scritto.
io pubblico perchè credo in un mio scritto indipendentemente dal giudizio degli altri e, allo stesso tempo, confrontandomi col giudizio degli altri, addetti ai lavori e non.
Non è il mio caso, ma allora cosa avrebbe dovuto fare Proust dopo il giudizio negativo di Gide ?
Bruciare il primo romanzo della Recherche perchè uno dei più grandi e famosi scrittori a lui contemporanei lo aveva bocciato ?
Avremo perso molto, non credi ?
Anche se il giudizio arrivava da uno scrittore straordinario, ma, forse, momentaneamente “distratto”.
@guido baldoni
ringrazio guido baldoni per i complimenti e per la precisazione dei due errori ortografici, di cui mi scuso sia con lui che con gli altri lettori.
Bello. Amaro. Grazie per aver fatto fuori il signor Barnes/Burns. E per aver salvato Lisa (almeno un po’).
Mentivo, non l’ho bruciato, ma ho capito con quale insulso giudice avevo a che fare. Ogni giudizio espone ed esprime soprattutto chi lo emette. Suggerisco di rinunciare a quel termine lezioso e insignificante. Le carinerie sono il contrario dell’Arte. E, come già è stato autorevolmente detto, ciò che non è Arte è merda.
Molto carino il tuo giudizio, grazie. Opps, scusa dimenticavo, questa è arte. Anzi, Arte.