Il primo ricordo al mondo
di Christian Raimo
Il primo ricordo al mondo
è quello di mio nonno a un anno
che si ricorda di sua madre partoriente
seduta su uno sgabello in bagno
con una bacinella al fianco.
È una medusa con le mignatte in testa
e le pietre bollenti sotto i piedi
per farle fluire verso il basso il sangue,
verso la terra dalla quale venne.
Il secondo ricordo
è quello di una donna morta
di una morte ingiusta,
una donna bassa e robusta
con la stessa faccia e la stessa vita di sua madre,
la stessa che dopo avere ucciso un uomo bruciandogli la faccia
con l’olio ustore di una pignatta vuota
ritornò dall’America e sparì per quattro lustri
e si ripresentò soltanto una domenica mattina
con un figlio di quattr’anni accanto
e un’altra madre al letto e moribonda,
un’altra ombra invasa dietro una finestra chiusa
a cui non puoi più chiedere scusa.
Era la stessa donna questa
che nascondeva una rosetta in mezzo all’immondizia
e poi faceva segno ai prigionieri da sopra la finestra,
la stessa donna che dopo la sua morte chiese
che fine avrebbero fatto i figli suoi e le risposero:
“Buttali mia cara, insieme all’immondizia”.
Questa donna realmente immortale
che parla coi pianeti sul balcone,
che a cena apparecchiava
per gesù bambino e la madonna,
che scriveva al papa e al presidente
per gli auguri di Natale,
era quella madre scomparsa dalle foto
che ti toglieva da bambino
i semi dalla frutta,
che ti sbucciava l’uva
e che aspettò fino alla fine
due guerre e due gemelli
prima di rivederli
finalmente sfatti sui letti della casa
in cerca di coperte per coprirsi e di riscatti.
È una signora bassa
che si veste da signora per guardare la tv
e quando spegne imprescindibilmente
saluta con un cenno della mano.
È una figuretta, lassù sul davanzale
che tira in strada bistecche di maiale
per una dozzina di gatti del quartiere
come fossero una piccola tribù di un piccolo Israele,
e adesso, immobile, in questo letto d’ospedale dice:
“Sto male. Ho sete”, e ride
come i matti che non portano dentiere.
Allora ogni volta che la febbre t’assale
ripensi a questa donna con le braccia corte, le gambe corte
che ti racconta a menadito che cos’è la morte.
È perdita di peso e di respiro. È voler dire tutto.
Chiamarti quando è notte.
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Raimo, questa cosa è bellissima.
Ci ho quasi pianto.
Un testo stupendo. Una delle tue cose più belle lette (finora).
il bello di questa tua poesia Raimo è che è pulita, scorrevole, non ricercata, non studiata, fluida e corposa nel senso più naturale,
con un messaggio vero nel finale.
Io, senza il quasi, mi sono commossa.Punto.
Bellissimo !
Straordinaria. Grazie. a.
sembra scritta da Cristicchi
Rifacendomi alla Rosselli, in questa poesia c’è vento.
Se posso… come dire… a prescindere da giudizi letterari ed estetici c’è, caro Christian, in quel che ho letto di tuo finora, una specie di atteggiamento “vincente” sulle cose, sulle parole, quasi altezzoso, duro. Tu lì scrittore, io qui lettore.
Qui no.
Sono grata all’autore per aver restituito le parole scomparse dal testo. E’ infatti la prima volta che, finalmente, dopo anni, è possibile leggerlo. Come mostrano i consensi pressoché unanimi, questa poesia ha una voce che riesce a imporsi, io ricordavo perfettamente a memoria i versi finali senz’averla letta una sola volta, ma solo ascoltata su
http://www.raisatzoom.it/ricerca/video.phtml?nv=580&l=S
“metafisica” della voce che sfida tutte le leggi di gravità, è riuscita a sopravvivere finora anche senza un corpo scritto, Al De Santis ha perfettamente ragione, c’è del vento in questa poesia, e respiro.
Per chi volesse, c’è anche la versione “unplugged” di Amore mio padrone
(comincia pressapoco al min. 8,19 dall’inizio della registrazione)
http://www.raisatzoom.it/ricerca/video.phtml?nv=581&l=S
Raimo, dovresti fare un cd ;-)
mah, sono perplesso