un’altra storia di Johnny Tossi (1977-2006) [3]
Roma, 1982
Cos’hai mangiato a cena?
(silenzio)
Fai pasti regolari?
(silenzio)
Non salti i pasti, vero? La carne la mangi?
Sì mamma, la mangio.
E a cena cos’hai mangiato?
Bastoncini di pesce e un piatto di spinaci.
Pesce surgelato?
Sì.
(silenzio)
Anche gli spinaci erano surgelati.
(silenzio. Ma a Johnny sembra di sentire un lamento)
Sei ancora lì?
(lamento)
Mamma?
(Il lamento prosegue. Poi casca la linea.)
Non lavora più da Coloccini. Ha fatto molti lavori. Adesso lavora allo Stadio dei Marmi. È un custode. Si è trasferito: abita in un seminterrato sulla Pineta Sacchetti, in una casa a due piani sorvegliata da un cane nero. Ogni volta che rincasa, il cane ringhia e abbaia. Li separa una rete di ferro. Per spaventare Johnny il cane finge di odiarlo, ed è molto bravo a farlo sembrare odio vero. Al piano di sopra abita il padrone di casa, che è anche il padrone del cane. Non è più andato al Centro degli esuli. Non vede un esule da mesi. Non ha notizie di Aurora. Gli disse che era troppo vecchia per lui. Johnny non aveva voglia di convincerla del contrario. Che fine ha fatto Aurora? Chi lo sa. A Johnny non importa.
Ha deciso di non dire a nessuno che è argentino. Un paio di volte ha detto che è spagnolo. I bambini che corrono allo stadio lo chiamano lo spagnolo. Un’altra volta s’è inventato che è cubano. Ha sentito dire che la dittatura sta finendo. Ma è come la vita di qualcun altro, la vita di un paese lontano e privo di interesse. Allo stadio fa i turni di chiusura. Arriva dopo pranzo. Se arrivasse la mattina troverebbe gli atleti che si allenano, ma lui va al pomeriggio e trova solo ragazzini che frequentano i corsi di ginnastica e imparano a correre. Sugli spalti siedono i genitori, a volte qualche ragazza – sorelle maggiori e baby sitter. Manda a memoria le ragazze per le pagine del diario mentre spazza le foglie, raccoglie gli ostacoli e li porta in magazzino, infila i dischi nel sacco, toglie l’asta del salto in alto e intanto arriva il tramonto, finiscono i corsi, se ne vanno bambini, genitori, istruttori, sorelle, baby sitter, se ne va il sole, la tinta del crepuscolo cola sulle statue nude, sugli spalti, sui gradini, sulla pista, sull’erba come liquido scuro versato sul mondo da seppie invisibili. Chiude i catenacci, sigilla le porte, lega le catene. Quando è buio torna a casa. Ma prima gli tocca l’odore feccioso del fiume, lo sporco che non vede ma immagina a sinistra della strada che percorre in motorino, gli avanzi del sesso gettati tra i rovi sui piccoli abissi che portano all’acqua sotto ai ponti, i fazzoletti seccati in un pugno, i preservativi, tracce di puttane e puttanieri, a sinistra della strada perché il fiume scorre là sotto mentre ancora più a sinistra, dopo il fiume, inizia e s’illumina il centro di Roma.
Tra Johnny e la città non corre buon sangue. Johnny potrebbe svenire e la città passandogli vicino fingerebbe di non vederlo. Johnny potrebbe accasciarsi per il dolore e la città non smetterebbe di limarsi le unghie. Ma Johnny è l’imperatore di Roma, il più forte. Un vero re non ha bisogno di amici e Johnny non ne ha. Basta a sé stesso. È così potente. La reggia del re dove potrebbe disossare i resti del cane nero che gli ringhia contro ma si astiene dal farlo per non esibire tutta la propria forza, è piccola perché grande Johnny non la vuole, sporca perché la pulizia non si addice ai condottieri, disordinata ma lo sanno tutti che l’ordine è dei mediocri. Poggia il motorino contro un muro senza intonaco (Johnny, sempre lui, el emperador), apre la porta di ferro e ora che è dentro si vede bene che da terra al soffitto non sono più di due metri, una dimora per il raccoglimento, un nido per la meditazione. L’ingresso è poco più largo delle spalle di un rugbista, la cucina è una grotta, in camera da letto il materasso sta per terra, accanto c’è un tavolo di plastica color panna e senza gambe, sulla parete dove poggia il materasso c’è uno scaffale, sullo scaffale pile di fumetti, il pavimento è di mattonelle bianche annerite, sulle mattonelle aleggiano batuffoli di polvere e gli angoli della stanza ne sono pieni, sul tavolo senza gambe c’è una bottiglia di birra mezza vuota e c’è un diario e c’è una penna, sotto al materasso l’occhio non può vedere il mucchio di riviste porno. Cos’altro c’è? Un televisore quindici pollici in bianco e nero. Una tenda a fiori venti per cento cotone e quello che resta poliestere (copre la finestra senza persiane e il vetro sudicio). Una chitarra acustica accordata in re aperto. Un registratore mono dove ora Johnny infila una cassetta di Mercedes Sosa e si sdraia sul letto e chiude gli occhi.
Ricorda l’Argentina. Ricorda quello che vorrebbe scordare. Ricorda il Centro di detenzione, la fuga, i corpi nudi nel freddo. Ricorda la nebbia. Ricorda le torture, la preparazione della picana, il primo ronzio dell’elettricità che dava il segnale, gli sguardi terrorizzati, i cappucci. Non dimentica la nudità, l’esposizione di corpi non lavati, l’annerita biancheria intima indosso, l’odore dei corpi e dei fiati. Ricorda le visioni che rubava dietro alle fessure delle porte, quando una porta si apriva e poi chiudeva, il frastuono delle percosse in stanze lontane, il chiasso dei regolamenti di conti tra detenuti, il fragore delle brande rovesciate. Ricorda il sospetto, i pasti, gli interrogatori, l’arbitrio dei custodi, l’insensatezza del Centro, dell’essere prigionieri, dell’essere carcerieri. Scrive sul diario che non ha “bisogno di nessuno. Ogni sera da solo mi rafforza. Ogni pasto da solo mi rafforza. Ogni giorno senza scambiare una parola mi fa più robusto. Sono felice di vivere qui, re di Roma”.
Non gli servono neppure i benzinai. Conserva la benzina in una tanica e misturandola di olio si fa la miscela. Non gli servono i soldi. “La povertà mi rafforza” e il sabato pomeriggio che non lavora lascia il motorino a piazza del Popolo e passeggia tra le donne di via del Corso, le guarda senza farsi notare, non le insegue con gli occhi ma le fa cascare nel suo sguardo, oppure sale al Pincio e da lì fin dentro Villa Borghese per guardare le ragazze in bicicletta coi loro sederi esposti e inermi, oppure va al cinema Quirinetta dietro piazza Colonna, o all’Etoile a San Lorenzo in Lucina. E magari al buio gli si siede accanto una ragazza e lui vede il film insieme a lei, però senza riuscire a concentrarsi sulla storia. Il cinema gli piace. Ha visto Blade Runner. Ha visto Indiana Jones e Momenti di gloria. Ha visto i Blues Brothers.
Contraddizioni di Johnny
– Le donne non mi servono. Non mi cercano? Che si fottano.
– E il diario come lo spieghi? Quei passi sulle ragazze. Di solito le immagini nude, pronte a tutto, scatenate. Potresti chiarire al riguardo?
– Niente più Argentina. Meno male!
– Allora perché tutti questi ricordi, Johnny? Cos’è che non hai digerito? Che sapore ha il boccone che mastichi?
– Sono un esule come tutti gli altri. Voi non lo sapete quello che mi fecero laggiù. Ma lasciatemi in pace. Niente domande. Non rompetemi i coglioni.
– Va bene. Però potresti spiegare perché non ricordi il dolore? Che fine ha fatto il dolore?
– Della politica non me ne è mai importato nulla. Ecco perché non trovate ragionamenti politici nel diario. Io giocavo a calcio. Stavo in porta. Andavo a vedere il River. Che ci posso fare se mi hanno preso lo stesso, anche se non sono politico? Non saprei cosa scrivere di politico. Preferisco scrivere della fica.
– Ma all’Argentina non ci pensi? Stanno succedendo delle cose laggiù. Sta cambiando tutto. Ehi, adesso dove vai?
Una ragazzo sui venticinque, non magro, non alto, non vestito bene, non in compagnia, spinge un Boxer sul ponte di Porta Portese, monta sul sellino, schiva le rotaie, volta sul Lungotevere, il vento gli solleva i capelli, gli arrossa la pelle del viso, gli screpola nocche e falangi sul manubrio, sul marciapiede la gente si fa compagnia, nelle auto la gente si fa compagnia ma l’imperatore se ne frega, corre verso la sua notte, verso la pasta al burro e la Domenica sportiva, il ringhio del cane nero e le ore fotocopiate. Sul materasso ipotizzerà altre vite, avrà il desiderio di molti amici e donne, immaginerà giorni pieni di incontri, nel sogno a occhi aperti coprirà con un velo l’importuno, il sé reale, gli metterà cappuccio e manette, lo toglierà di mezzo. Questo sono io, devo essere coerente con me stesso, disse l’uomo che aveva rinunciato alle speranze. E nel dirlo si accorgeva che non gli restava che un’espressione, e un solo tono di voce, e un solo sorriso, che non conosceva più di una lingua, che ricordava una poesia appena, una canzone appena, e dalla testa ai piedi non vestiva che un colore. Ma questo non è il caso di Johnny. È molto lontano dall’essere il caso di Johnny, ed ecco la primavera.
Sull’erba dello stadio c’è una ragazza che corre.
– Accidenti quanto è bella! Dai ricci biondi fino alle gambe di gazzella passando per le natiche più eleganti che abbia mai visto, quanto mi emoziona questa ragazza? Hai visto come va veloce? E i piccoli rimbalzi del seno? O santo cielo, ma chi è? Come si chiama? Da dove spunta? Viene tutti i giorni da una settimana circa. Si allena per il salto in lungo. Guarda che salto che ha fatto! È andata lontanissimo! Non è una dilettante. E secondo me non è neanche italiana.
– Mi sono informato, Johnny. Hai ragione tu. Non è italiana, è tedesca. Della Germania Est. Dicono che ha chiesto asilo. Era venuta per una gara con la sua nazionale ma è rimasta qui.
– E di che vive? Si sentirà sola. O mamma mia, guarda come allunga le gambe sull’erba per lo stretching. Guarda le braccia che arrivano a toccare le caviglie. Come piega la schiena e poi la inarca. Quella comanda al corpo e il corpo obbedisce. Ha la pelle bianchissima, secondo me è piena di lentiggini, ma da qui non riesco a vedere bene. O cavolo, quei pantaloncini sono cortissimi! Ma di che sono, di seta? Sembra che l’accarezzino. Io devo sapere chi è. Io domani glielo chiedo. Se torna vado lì e le parlo. Non oggi, ma domani sì.
– Allora ci hai parlato? Ma che te lo chiedo a fare? Tu non ci hai parlato.
– Si chiama Jutta e ci ho parlato. Sono andato lì e mi sono presentato. Lei mi ha risposto e si è presentata.
– Non ci credo. Una come quella non parla con te.
– Che m’importa se non mi credi? Io domani sera ci esco.
– Non è possibile! E come hai detto che si chiama?
Mi chiamo Jutta Stiegmeier. Sono tedesca. E tu sei argentino? Però non hai un nome argentino. Con l’italiano come te la cavi? Perché io lo sto studiando, ma è così difficile! Vivo a Roma da pochi mesi e col lavoro che faccio non riesco a migliorare.
Perché, che lavoro fai?
Istruttrice di ginnastica. Senti: potremmo parlare in russo. Io lo parlo molto bene. E tu?
È nata a Potsdam ma sin da piccola ha vissuto a Berlino Est. Johnny non conosce Potsdam e neppure Berlino Est.
Berlino è bella e triste, ed è divisa da un muro. Ne hai mai sentito parlare?
Certo che Johnny ne ha sentito parlare, chi non conosce la faccenda del Muro? Il Muro divide in due la città, da una parte vivono i rossi e dall’altra i tossici.
Io vivevo dalla parte dei rossi.
Johnny non sa cosa dire e tira fuori il calcio e dice che non esiste una squadra di calcio più triste della Germania Est. Neppure la Bulgaria o la Romania sono così tristi. Johnny dice che in generale quando i giocatori delle squadre dell’Est scendono in campo hanno la sconfitta stampata in faccia, e sembra che non gli vada di giocare, e hanno sguardi da robot mentre suonano gli inni e Jutta dice che è fuggita per non essere più un robot. È arrivata un anno fa con una selezione di atletica per disputare un torneo, a Torino. In albergo ha conosciuto un cameriere che l’ha aiutata a scappare. I giornali hanno parlato di lei. Johnny però non legge i giornali.
[Questa è la prima parte (in quattro parti) di Un’altra vita di Johnny Tossi (1977-2006), una storia inedita di un manoscritto inedito di un autore inedito. Il primo libro di narrativa di Davide Orecchio uscirà per Gaffi nel 2011. La prima puntata di Un’altra vita di Johnny Tossi è qui, la seconda qui. La foto in apice viene da qui.]
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