L’ultima religione

di Valter Binaghi

(Adattato da: Robinia Blues, Dario Flaccovio Editore, 2004)

Alle ringhiere del metro accendo una sigaretta e mi fermo ad osservare la fiumana, come un cineasta in pensione. L’ora del tramonto rovescia sul corso casalinghe in libera uscita, drappelli impiegatizi e ciurmaglia adolescente in cerca d’amore. Comincia la ronda dell’eterna giovinezza che si prepara al rito notturno. Sciamano a gruppetti di tre o quattro, ostentando diverse divise e scuole di pensiero, promettendosi diverse nottate. Di che famiglia sei? Tribù ostili si squadrano da un capo all’altro del marciapiede. Di che serata sei? Anche molta sfiga in giro: tamarri troppo al verde, divise approssimate, ragazze quasi niente, mani in tasca a penzolare dai lampioni. E militari, facce sperdute di ragazzi di campagna, guardiani di un gregge svagato e irridente. Peggio di tutti gli sbarbati, condannati a spiare la goduria dei grandi da lontano: loro due lire in tasca ce l’avrebbero, ma ancora niente chiavi della macchina .

– È incredibile, sei proprio tu! – dice la voce al mio fianco. Un tipo piuttosto male in arnese: giacchetta stinta, capelli corti radi, una piega sofferente agli angoli della bocca. Chi diavolo è? Annaspo per un lungo istante nei corridoi male illuminati delle mie memorie giovanili: università, groppuscoli, riviste underground. Cristo. Paglierini. Paglierini Dario, detto “Paglia”. Certo è cambiato molto da quando eravamo redattori ventenni della gloriosa Rivista di Controcultura, infognata nello scantinato di via Pastorelli. Tempo assassino.
– Non mi riconosci, eh? – fa lui abbassando gli occhi sulla punta delle scarpe da tennis.
– Ma sì, “Paglia” – lo rassicuro, tendendogli la mano. – Solo che ci ho dovuto pensare un attimo. È passato un casino di tempo dall’ultima volta…
– Sarà stato nell’80, ‘81, giù di lì – sorride per un attimo.
– Bisogna festeggiare. Ci beviamo una birra?
– A stomaco vuoto… poi mi fa gli acidi… – dice mestamente.
– E allora ci mangiamo sopra.
– Sarei un po’ al verde… sono uscito senza…
Mi sa che se la passa maluccio.
 – Ma va’ – taglio corto – offro io. Dai che ci facciamo due chiacchiere…
Finiamo in uno di quei bar laccati del centro, dove camerieri filippini in divisa da Rudy Valentino ti servono tavola calda e fredda, long drink e musica diffusa con la stessa surgelata compostezza. Sediamo al tavolino, senza far troppo caso alla cornice: il più meschino qui dentro ha addosso una milionata in griffes. Paglia divora due tranci di capricciosa e attacca un toast farcito quasi senza parlare. Per me un panino alla piastra tipo schiaffo-alla-miseria: cuore di palma, gamberetti, lattughino e salsa aurora.
Due giovanotti tirati a lucido entrano scortando una ragazza elegante come una top model. Si appoggiano al bancone per l’aperitivo. Parlano di una pratica interminabile. Studio legale o assicurazioni? La ragazza vista da dietro è maestosa: le gambe lunghissime sbocciano in un culo che merita un a capo.
La pratica sarà liquidata il quindici del mese: assicurazioni. Uno dei tizi getta uno sguardo sopra la spalla e si accorge dell’unica nota stonata nel tempio del buon gusto: i due tipi di mezza età al tavolino. Jeans e scarpe da tennis, e l’amico Paglia che divora il toast come se fosse digiuno da due giorni. L’occhiata gelida mi arriva in fronte come un fiotto di ossigeno liquido. Anche la ragazza si volta, e non è una bella sorpresa: dalla fulgida chioma color miele spunta un naso minaccioso come la pinna di uno squalo.
Il trio si rigira disgustato. Paglia resta lì coll’avanzo di toast a mezz’aria e la faccia come una pistola scarica. Poi scuote la testa e torna a guardarmi:
– Com’è cambiata Milano, eh! –
C’è sempre un momento, in incontri come questo, che qualcuno attacca con la favola dei ‘70. Ce la siamo raccontata così tante volte che abbiamo finito per crederci. Dunque, c’era una volta una città grigia e laboriosa che implorava disordine e canzoni, come la stanza di un vecchio che nessuno va mai a trovare. Uno sciame di api – noi, e chi altro? – sorvolò i quartieri. Con frenesia spermatica spargeva colori e faceva fiorire le crepe dei muri. Divine sciocchezze e progetti mirabolanti crepitavano nelle cantine e nelle aule universitarie, e per un momento saggezza e follia sembrarono figlie della stessa madre. Se Paglia continua così avrò un attacco di diarrea.
– È stata l’ultima religione – dice.
E pensare che avremmo pisciato volentieri su tutti gli altari. Eppure, chiamarsi l’un l’altro “compagno” era un sacramento: né più né meno.

Il panino iperfarcito mi ha lasciato uno schizzo di salsa rosa sui jeans.
– Che porcheria – dico, pulendomi i pantaloni con un tovagliolino di carta – ti ricordi quando si mangiava macrobiotico in via Larga, o al Dorje Tibetano di via Garibaldi? Chissà se esiste ancora…
– E chi ci va più? Quelli ormai sono posti da ricchi. Ci vanno le mogli degli industriali. Le cose che hanno scoperto gli hippy sono diventate un affare miliardario. Macrobiotica, massaggi, yoga… New Age.
È fatta, maledizione. Mentre lui parla, ripenso con tenerezza di vecchio ai tempi in cui approdai alla rivista. Nel ‘78, dopo la storia di Moro, a Milano c’era come il coprifuoco. Collettivi e comitati di quartiere si svuotavano, e soprattutto basta parlare di compagni che sbagliano. Adesso la vera rivoluzione era quella delle coscienze: sfondare i muri della percezione ordinaria, chiedere al vento profumi di altri mondi. I nuovi eroi erano i viaggiatori, che tornavano dal Marocco e dall’India portando droghe diverse e al collo amuleti con simboli sconosciuti. Come scimmie che avevano scoperto la città perduta nella giungla, rovesciavano nelle piazze relitti gloriosi, capaci di sconvolgere la memoria abituale delle cose e dei tempi. Una generazione educata al sacrificio cattocomunista scopriva la mescalina, il sutra del Loto e la fellatio.
– Ti ricordi che fauna, in redazione?
C’erano reduci stagionati di “Mondo Beat” e giovani pivelli come noi, ex dinamitardi e buddisti di Rogoredo, e aspiranti scrittori che facevano la posta alla Pivano (la nonna dei beat) per un’intervista al Ginsberg di passaggio. E c’era un tale Gerini, che pubblicava ricette di cucina a base di canapa indiana. La Rivista di Controcultura era un porto di mare, un compendio anarchico e saccente della mistica universale.
Paglia ha quasi le lacrime agli occhi: – Che movimento…
Il grande raduno annuale. Redattori e lettori, migliaia di canadesi gremivano per tre giorni il Parco Lambro. Musica sempre, su e giù dal palco. Ma quando tutti se ne andavano la collina era tempestata di rifiuti, tipo scampagnata del dopolavoro.
– … e come si scopava, eh?
Entrò nella mia tenda già nuda, e non sapevo neanche il suo nome. Volle che ci sbiancassimo il viso con la pasta dei mimi. Le maschere colavano, stanche di quella notte crudele. La ragazza del concerto di Finardi si lasciò prendere solo al mattino.
– In fondo era una battaglia anche quella: contro la repressione!
Cazzate, Paglia. Ci hanno lasciato fare. All’inizio ci mandavano i poliziotti in redazione, coi cani antidroga a fiutare le scartoffie, ma poi hanno capito che lavoravamo per loro. Abbiamo rifatto il trucco alla vecchia puttana. Nel giro di dieci anni il sesso e l’estasi sono arrivati sulle bancarelle, e adesso Babilonia è davvero inespugnabile. Chi ha più il coraggio di opporsi al paradiso? Ma lo lascio dire. Paglia è uno di quelli che hanno conservato un altarino ai bei tempi, e io non sono di quelli che spengono il cero.

Basta guardarlo per capire che non ha fatto fortuna con la New Age. Lui è uno da scantinato, ricette scritte a mano per salvare il mondo, manifesti clandestini affissi alle tre di notte. Adesso che i direttori di banca si ricaricano con lo zazen e qualsiasi studentessa di quinta ginnasio ha un mantra tatuato sulla chiappa, lui che ci sta a fare? Il suo mestiere era la controcultura ma oggi che non distingui una bestemmia da uno spot pubblicitario l’unica controcultura sarebbe il silenzio.
Vorrei invitarlo a raccontarmi i suoi guai, ma non so da che parte cominciare:
– E quella mora schizzatissima che stava con te… Come si chiamava, la Cinzia?
– Mi ha mollato nell’85. Ha sposato uno di Chiasso, un farmacista. Così può tirarsi tutta l’amfetamina che vuole. – Scoppiamo in una risata, di quelle che sciolgono.
Rivedo per un attimo il Paglia di una volta, coi boccoli che gli scendevano sugli occhi e l’aria da cucciolo. Sulla rivista scriveva racconti di lolite psichedeliche ed elefantini verdi.
– Di me c’è poco da dire – riprende, sfilando una sigaretta dal pacchetto sul tavolo.
– Negli anni ’80 la controcultura è diventata un’industria. I grossi editori hanno rischiato riviste patinate: medicina alternativa, oriente, musica etnica. Ho tentato di entrarci, ma non c’è stato verso. Volevano specialisti, gente che avesse studiato sul serio, per scrivere di agopuntura per esempio: di me non sapevano che farsene.
Lo dice con tutta la malinconia di chi un tempo era stato nell’occhio del ciclone: quando il “movimento” passava per lo scantinato di via Pastorelli.
Quando gli domando cosa faccia di preciso per sbarcare il lunario Paglia rimane sul vago: non sa far altro che scrivere, scribacchia dove può. Campa con lavoretti nel circuito alternativo: traduzioni, rivistine, sempre roba ai margini.
– E poi – termina a capo chino – c’è la pensione della mamma…
– Te la cavi a tradurre dall’inglese?
– Come no. Se non ci fosse quello! Traduco opuscoletti per i buddisti, roba di medicina per un piccolo editore. Tutta gente che paga poco…
Scrivo il numero di telefono su un tovagliolino di carta e glielo metto sotto il naso: 
– Digli che ti mando io. Domattina lo chiamo e gli spiego.
– Ma chi è?
– Un direttore editoriale.
Adesso si è gasato il Paglia. Il naso affilato è teso come un’antenna pronta a captare le vecchie, buone vibrazioni. – Sai che facciamo? – sbotta. – Mettiamo su una rivistina. Io e te. E magari qualcuno dei vecchi che sono rimasti in giro: la Salvini, che ha un bel giro di frikkettoni americani. Distribuzione autonoma: cento copie alla Calusca, cento al circolo anarchico della Bovisa, e ci siamo pagati le spese. Eh?
Abbasso vigliaccamente gli occhi davanti ai suoi fari stralunati, le sue mani che mimano progetti a mezz’aria come zampe di un penoso dinosauro.
– Si può fare. Tra qualche mese sarò più libero…
Adesso Paglia, il tovagliolino col numero di telefono nella tasca della giacca, è felice come una pasqua. Ci salutiamo fuori dal bar: lui dice che torna a casa a piedi, per fare due passi e risparmiare il biglietto.
Io m’inoltro nel ventre della città, dall’orifizio brulicante del metro.
Qui sotto l’edicola è ancora aperta. Compro l’edizione della sera: altri gommoni con disperati curdi e albanesi affondati al largo di Brindisi, sedici morti. Sosto davanti al chiosco a rimirare la bottega del lettore, sovraccarica d’immagini e discorsi spenzolanti come prosciutti. Le frasche sgargianti dei rotocalchi, interi cicli d’istruzione in conserve multimediali e fragole rosse dai porno a buon mercato.
Presto anche il mio nuovo romanzo arriverà in vetrina.
L’ultima religione è la nettezza urbana.

Scendo le scale, la mano sulla ringhiera avverte il tremito della terra: i treni bianco-arancioni saettano come serpenti rombanti nella città sotterranea. Siedo sulla lunga panca di marmo. Dall’altro lato dei binari, in direzione opposta, tre figure sedute, volti di terre lontane. Una matrona africana corpulenta e splendente: caffettano variopinto e turbante della stessa stoffa, grandi cerchi alle orecchie. L’avranno assunta in una fiera e costretta all’abbigliamento tradizionale per dare colore. Le labbra carnose sigillate nella dignità di una regina mandinka, sembra l’unica verità in un paesaggio di ombre evanescenti, pendolari trafelati e il fuggi fuggi dell’ora di cena. Gli altri due, piccoli sposi adolescenti, indiani o pakistani. Sono seduti mano nella mano, ma non come in luna di miele: gli occhi fissi, contemplano un invisibile dolore. 
Questa gente mi stupisce, ogni volta. Vengono da luoghi dove antichi re forgiarono nell’oro e nel sangue città ormai sepolte dalla giungla. Cosa cercano, loro che hanno udito già innumerevoli racconti del diluvio? Dai deserti e dalle città straripanti, come se un pifferaio misterioso li avesse condotti sin qui, a riunire parabole incompiute. Qui, nella terra del tramonto: ognuno porta con sé il sogno remoto della propria stirpe, perché tutto finisca nell’unica voragine.

33 COMMENTS

  1. Funziona bene. Perché secondo me è credibile la “voce”, il punto di vista, il tono, il ritmo.

    PS: Valter (ti do del “tu”), non ho letto “Robinia blues”, spero mi perdonerai…

  2. Ricordo Re Nudo, ma lo leggevamo prima del periodo cui fai riferimento. Una volta venimmo in quattro a Milano perché volevamo visitare la sede (però la mia memoria è un po’ confusa, doveva essere il gennaio ’71, o dicembre ’70 non avevamo neanche la patente, venimmo in treno, e non ricordo con precisione se usciva già come rivista – è nata nel 1970? – o se era ancora un’associazione culturale), fattostà che all’indirizzo corrispondeva un negozio. Non riuscimmo a trovarla. Che delusione! Vagammo per Milano tutto il giorno e tornammo al paesello frustratissimi. Come quando andai a Catania in autostop, l’estate, per cercare la mitica comune dove viveva Teresa Ann Savoy, e non trovai nulla, l’indirizzo era uno spiazzo vuoto. Ma i miti esistono?

    Letto con piacere.
    Saluti.

  3. Va bene religione, ma solo a patto che tu con quel termine intendi *rito*. A me pare che ogni epoca abbia i suoi riti, le sue vestali e i suoi altari.
    Cosa distinguerebbe i costumi dei giovani degli anni settanta da quelli dei giovani di oggi, il cui rito per eccellenza è, ad esempio, l’aperitivo? Goffman direbbe che sono la stessa cosa.

    (per inciso, l’ironia del caso vuole che uno dei templi dei riti contemporanei sia il bar magenta, che negli anni di Re Nudo vide nascere Lotta Continua. Per la serie, i templi rimangono, basta cambiare combustibile al bracere)

    Perchè quelli di oggi sono solo *riti* mentre allora invece si trattava di *religione*? Di più, l’ultima religione? Non è – e la lancio come provocazione – che nelle tue parole c’è l’apocalisse del dinosauro?

    A volte mi sembra che ogni generazione, per darsi un’identità, decida che la propria l’ultima epoca, l’ultima umanità, l’ultima volta. Come se la comunione dell’apocalisse sia il miglior modo per misurare la propria esistenza terrena.

  4. riscrivo l’ultima frase perchè non si capiva nulla:

    A volte mi sembra che ogni generazione, per darsi un’identità e per sconfiggere le paure, decida di attribuire alla propria era il carattere di “ultimità”: è la nostra la ultima epoca, l’ultima umanità, l’ultima volta. Come se la comunione dell’apocalisse sia il miglior modo per misurare la propria esistenza terrena.

  5. @beccalossi
    Può darsi, psicologicamente non lo escludo.
    Ma c’è anche un dato di realtà storica, quello che con Lyotard si è voluto chiamare “fine delle grandi narrazioni”. La morte del sociale.

  6. cazzo che bel racconto.
    La ringrazio, le mie velleità letterarie si son ritirate come dopo un ciclo di lavatrice. Sparite, finalmente.

  7. Non fare così, Mario. Una voce così mica la trovi in 4 e 4’8.
    Binaghi ci ha alle spalle decenni di vita e di letture silenziose, è arrivato alla scrittura narrativa un po’ come quei tizi con gli occhi a mandorla che sfornano oggetti perfetti o quasi dopo lunghi anni di meditazione zen. Tempo al tempo, talento al talento…

  8. “L’ultima religione è la nettezza urbana.”
    “gli occhi fissi, contemplano un invisibile dolore.”
    fine d’origine, origine di fine. solitudini da tic con l’unica fortunaccia della pancia piena o quasi e non per tutti, come sempre: la realtà dell’elemosina è stata scampata e non da tutti, come sempre.

  9. Re Nudo lo leggeva mio fratello più grande, ricordo poco, a volte mi spaventava il cinismo o l’indifferenza verso i morti di quella guerra assurda. Mi sforzavo di essere d’accordo ma sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Ma quelli erano anni che…
    Il racconto è semplicemente bellissimo.

  10. ho linkato il racconto, mi scusi se non le ho chiesto il permesso, ma mi sembrava doveroso (nei confronti del racconto) e necessario.
    Stefano grazie.

  11. Grazie a voi.
    Non è un racconto, è un capitolo di romanzo, ma in effetti sta un po’ a sè.

  12. Questa frase è pura poesia, Valter.

    “Qui, nella terra del tramonto: ognuno porta con sé il sogno remoto della propria stirpe, perché tutto finisca nell’unica voragine.”

  13. Caro Binaghi,

    Paglia sopravvive di piccole e piccolissime collaborazioni nel micragnoso mondo dell’editoria. E fin qui niente di male, condivide il destino (m)agro di tanti suoi colleghi più o meno irreggimentati. Per sua fortuna incontra il protagonista che lo rimette in pista salvandolo per un giro dal precariato.

    Ma abbandonato a se stesso Paglia appare un personaggio decadente, un declinista che a guardarlo viene da chiedersi quanto sia costata, a tanti giovani come lui, la cultura del “rifiuto del lavoro” dilagata negli anni settanta.

    Paglia vivacchia in attesa di “garanzie”: si è ribellato alla presenza intrusiva dello Stato nella sua vita privata, salvo tornare a chiedere, anzi, a pretendere, una “protezione” governativa dopo la temibile invasione dell’ultracapitalismo (il naso da squalo della velina). In definitiva si è arreso, non vuole rischiare, non intraprende alcuna esperienza professionale, probabilmente sogna una tranquilla vita da statale.

    La “pensione” dei suoi genitori è un altro freno, un’inibizione che non l’aiuta a migliorarsi né a mutare la sua condizione sociale. E’ una deriva che se non avesse trovato dei placebo negli anni ottanta (la droga, la new age, l’amore libero) avrebbe spinto (volentieri) il Paglia a impugnare la pistola per rivendicare col piombo brigatista la sua sconfitta.

    Il protagonista del racconto rappresenta invece la vivacità culturale (ed economica) del post-settantasette: riviste, cineasti, musicanti e fumettari, la “fauna” descritta da Tondelli nel “Weekend”, una classe intellettuale mobile e spregiudicata che nello stesso tempo è stata una generazione poco indagata, e non ancora aggiornata, dalla storiografia critica ‘movimentista’.

    Storiografia letteraria che nella maggior parte dei casi associa Tondelli con le sue prove narrative più ‘estreme’ e ultimative – gli esperimenti linguistico-revivalistici dell’esordio e il silenzio interiore della fine –, tacendo sulla gran parte dell’esperienza di promotore dell’industria culturale, sul “mestiere” di scrittore, quello che affrontava a muso duro plotoni di stitiche segreterie di redazione per ottenere il giusto compenso in migliaia di lire.

    Il protagonista del racconto sembra percorso dalla stessa voglia di fare e di mettersi in gioco. E’ un pezzo da novanta delle Partite Iva che sono state abbandonate alla propaganda fiscale della destra e che invece rappresentavano un elemento propulsivo della (piccola) impresa italiana, una fetta di consenso sociale che la nuova sinistra negli anni novanta non ha saputo, o voluto, intercettare fino in fondo.

    Saluti

  14. Maria, il romanzo è già stato pubblicato da tre anni.
    C’è scritto sotto al titolo.

  15. quello che vorrei dirti è semplicemente…
    quando scrivi in modo poetico
    (per poetico intendo da coinvolto)
    riesci a entrare nel lettore.

  16. Ciao Carla, lo so che il testo testimonianza ti lega di più al lettore, ma io sono bigamo: ho sposato anche la filosofia. Uno sguardo che guadagna dalla distanza.

  17. Abbiamo rifatto il trucco alla vecchia puttana.

    Di questo non sono del tutto convinta, se permetti, caro valter, se guardi bene, tradendo per un attimo le tue due mogli, Poesia e Filosofia, qualcos’altro resta di quegli anni, di cui condivido, luoghi, occasioni, ristoranti macrobiotici, letture, concerti in cui ci saremo sicuramente intravisti e sfiorati. E’ qualcosa che non riguarda Paglia, la sua nostalgia da perdente, ma una specie di sotterranea sensibilità a quello che ci scorre intorno, un disincanto meravigliato, un modo di guardare il mondo e i suoi abitanti, una tenerzza di fondo che si legge lampante fra le tue righe. E cha fa piacere risentire. E che resta il sottotesto delle nostre vite. Volenti o nolenti.

    In onore della banda della robinia, detta anche acacia, e per annegare le nostalgie:

    Frittelle di fiori d’acacia

    Sbattere energicamente due tuorli di uova fresche con 100 grammi di zucchero di canna, unire 3 cucchiaiate di olio d’oliva e,mescolando bene affinchè non si formino grumi, 250 grammi di farina. Aggiungere mezzo bicchiere di marsala secco, o porto, o grappa, secondo le preferenze, un cucchiaio da cucina di lievito di birra e le due chiare montate a neve ferma con un pizzico di sale. Amalgamare con cura e lasciar riposare tre ore. Procurarsi dei bei grappoli di fiori d’acacia. Immergerli interi, uno alla volta, nella pastella tenendoli per il gambo e poi buttarli in padella nell’olio caldo finchè risulteranno dorati.

  18. @così&come
    Qusta ricetta mi sembra una vera leccornia. Ci ho un solo problema: ho lasciato un bel po’ del mio fegato negli anni Settanta e i liquori sono off limits.

  19. Quella del trucco alla puttana è senz’altro una nobilissima citazione da De Andrè : ” i polacchi ai semafori rifacevano il trucco alle troie di regime”. La domenica delle salme.

  20. da bravi, ragazzi, fate un’alimentazione più sana… magari, iniziate a togliere qualche libro dalla dieta.

  21. ermeneglida (ma sei sicura?), tu e rimba(ud) vi siete persi sicuramente le ultime “delizie” sulla defunta bacheca di aprile. i.e.: non avete capito un osèo, ergo continuate pure a dilettarvi in cul in aria. dove c’è piacere non c’è perdita, come recita un vecchio proverbio delle orobie.

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