Rien ne va plus: Margi de Filpo / Ivan Arillotta
Il club Questomondo
1
di
Ivan Arillotta
Tuttavia. Possiamo osservare ostilità, senza aguzzare la vista, senza stimolare l’occhio. Possiamo stampare il nostro reciproco rispetto, unico compenso di un esemplare stile di vita, su fogli scritti con inchiostro simpatico. Per ora, possiamo produrre un documento che stabilisca i titoli d’umanità necessari a dichiararsi membri effettivi del club Questomondo. Nessun marziano ci invidierà, per quanto il ramo dell’invidia sia sempre piuttosto fiorente. Tuttavia, qualcosa cambierà. Domani sarò un uomo serio, si dice: i buoni costumi saranno miei, tutti quanti. Perciò, fino a ieri, l’onestà era una distrazione, una specie di partita a carte tra amici. (continua)
Giocatori
di
Margi de Filpo
Stava finendo ma eravamo insieme, una lacrima che scivolava con lui lungo le scale della sua infanzia interrotta. Si accordava al battito della lingua sul palato, un metronomo offeso. Accenni di vecchie balbuzie, parlava del padre, del peso di un nome non voluto. Responsabilità, un suono grave, che per me significava solo essere figlia, per lui un rigonfiamento, giù nei pantaloni.
Mi sveglia di notte, parla della società. Diceva.
E noi? Attaccati come mignatte ai nostri vent’anni. Non volevamo credere.
Io resto sveglia in attesa che torni, lasciami andare.
Troppe paure ci divisero per sempre in pochi giorni. E lui che cercava: occhi, pelle e carne. E trovava vino fra le mani incerte, troppo tremanti per afferrare un bicchiere.
Aspettavo, che il soffio di una parola ci portasse lontano da lì.
Scappai senza vie di fuga, e mi cercò.
Sarai la mia rovina, diceva.
Io stringevo la testa fra le mani per placare gli spasmi. Mi ustionavo la pelle per non sentire.
Parlava sempre piano, poi un lampo gli attraversò il capo e in un colpo solo la serenità smarrita. Davanti ad un ascensore senza dirci addio, ma glielo scrissi, ci rivedremo fra cinque anni, e mi rispose serio, non so.
Mi calmai ma lui tornò, mi offrì un rifugio, una casa. Mi lasciò sola e ripartì.
Poi in un autogrill stringevo forte il telefono, gli sussurravo piano è morto, lui fingeva di non credere e ripeteva ci sono io, torna a casa. Andai via, da lui, dalla casa, per non tornare.
Pensai ad una partita a poker e lui che puntava spavaldo cifre alte, troppo alte per restare in gioco. Fermargli la mano dicendo è per rispetto, ché mi vergognavo solo a dirlo. Quando computò il prezzo di una famiglia non lo fece per gioco. E allora, scoperto il mistero di due fratelli, si trovò solo in una città dell’est, puntò un rolex e cento euro, ché aveva solo quello in tasca, e fruttò altro denaro.
Costruì un regno fatto di cambiali e pagherò e torno a casa. Concetti non tanto diversi l’uno dall’altro.
Aspettavo ancora in un autogrill. Lui in piedi davanti ad un ascensore, ancorato ad un crack finanziario a dover decidere del futuro di una famiglia, che ne sarà di loro?. Anche se andrà in fallimento saprò che il prezzo di una famiglia è quattro milioni di euro, di una famiglia che è tua, certo, di un’altra pochi spicci.
Scivolo, nel ricordo di una lettera che mio padre scrisse a suo padre, compagni di partito, ideali che si persero nella storia di noi, delega delle nostre famiglie.
Che stronzi i padri quando ti dicono di sopravvivergli.
Rabbie di vite passate che si condensano nel nostro respiro affannato, in lui che mi osserva mentre seguo con le dita la curva ruvida di un’incisione sul legno. Mi sporgo in avanti, mi afferra per non farmi cadere, ti fidi di me?, al buio e bendata mi sarei fidata.
Mi alzai, strinsi le carte fra le mani e lo guardai; bruciamo tutto?, mi fermò , è solo storia, disse, ci siamo dentro. Io allora capii, gli passai i fogli e poi una mano sui pantaloni.
Sparai, vinsi un pesce rosso e lo portai a casa, lui mi cercò una vaschetta trasparente e la riempì d’acqua. Guardai il pesce nuotare e chinai la testa sulla sua spalla, come dorme un pesce? Mi sorrise, si ferma.
Era seduto su una piccola sedia di legno davanti al camino, gli accarezzavo i capelli senza smettere di guardarlo. Ricordavo mio padre quello che mi diceva. E io, nella presunzione di bambina, senza rispetto per il suo essere un signore, ridevo. Buttavo i giocattoli di legno che costruiva, lui lo sapeva, l’ha sempre saputo. Piansi anche di quello, di un mondo intero quella notte, perché con i fumi dell’alcol e sotto la pioggia si può fare.
Lui mi sentiva, Non pensare mi diceva. Non farti male. Mi stringeva forte, il fuoco bruciava sale sulle guance.
Mi disse non posso darti una casa, posso costruirti una grande opera, forse un mausoleo, e chiuderti dentro, ma allora non potresti uscire più.
Piansi ancora. Lo guardavo allontanarsi su una barca a vela, veloce.
Lo cercai, tornai a casa. Chi ti ha toccata, ripeteva. Io stringevo la testa in un laccio, per non impazzire.
Poi una sera mi disse che non ero donna da amare, ma da venerare.
In te sprofondo mi disse, affondo e ti attraverso, non c’è punto in cui possa fermarmi. Mi sollevai dalla sua sedia e camminai a lungo, poi un lampo attraversò anche me, la chimera di una scommessa vinta. Lui che mi diceva devo andare, corrergli dietro sarebbe stato faticoso. Mi accorsi che stava piangendo, non ho mai capito come facesse a piangere verso l’interno, ma le sentivo le sue lacrime.
Forse piange così chi ha perso gli occhi.
Il club Questomondo
di
Ivan Arillotta
Tuttavia. Possiamo osservare ostilità, senza aguzzare la vista, senza stimolare l’occhio. Possiamo stampare il nostro reciproco rispetto, unico compenso di un esemplare stile di vita, su fogli scritti con inchiostro simpatico. Per ora, possiamo produrre un documento che stabilisca i titoli d’umanità necessari a dichiararsi membri effettivi del club Questomondo. Nessun marziano ci invidierà, per quanto il ramo dell’invidia sia sempre piuttosto fiorente. Tuttavia, qualcosa cambierà. Domani sarò un uomo serio, si dice: i buoni costumi saranno miei, tutti quanti. Perciò, fino a ieri, l’onestà era una distrazione, una specie di partita a carte tra amici. Mancano moralisti all’altezza della situazione, abbiamo solo morigerati vaghi e indecisi. La dottrina si tramanda, i signori dello sterco hanno trovato un regno già pronto ad accoglierli, Questomondo, non un altro. Questomondo non si avvelena mai, sopravvive a tutto: ha dimostrato, nel corso dei secoli, di poter tollerare un numero incredibilmente elevato di cretini, farabutti, gaglioffi e canaglie non meglio specificate. È un mondo che digerisce ogni stronzo, ogni minchiata, ogni marito violento, ogni moglie violentata; ogni ingiustizia e ogni mente deforme.
Il peggio si realizza ogni giorno, e tutto il lavoro intellettuale si riduce all’opera titanica di spalare tonnellate di quella stessa merda defecata col filo a piombo, con precisione verticale e quotidiana come la pioggia senza il vento in un inverno sempre uguale, perché ci sono intemperie che durano quanto la storia dell’uomo, non un’ora di più. E dopo tante fatiche? Resta un’icona che non rappresenta niente, resta il mio cadavere, veramente poco santo, per nulla diverso dalla carcassa di una buona vacca, una di quelle bestie che non se la spassano troppo a farsi mungere per ore e ore. Ed io mi faccio mungere, in effetti, e non mi stanco mai di farmi trattare come una gigantesca tetta speculativa, sicuramente più vacca che scrofa, perché io ho un compito, perché io ho una missione, e del missionario ho la divisa immacolata e la coscienza lorda. A mio modo sono perfetto. In tutta onestà, se non fossi diventato adulto in un istante di distrazione, avrei potuto fumare migliaia di sigarette con la consapevolezza di un uomo, perciò non come le fumerebbe uno scimpanzè, una dietro l’altra, e avrei sostenuto di essere un uomo soddisfatto. Tra gli uomini, i peggiori cretini si sentono sempre appagati, ricambiati, felici, coccolati. Uomini, appunto. Sono una bestia bisognosa di cure; ho alcune inammissibili manie che, ad ogni modo, riguardano tutte la scrittura: sono una bestia innocua per il genere umano, che ha bisogno di ben altro per contrariarsi. Resta da stabilire se io sia una bestia utile. Forse. Un anomalo stordimento mi tiene sospeso tra forse e tuttavia. Morale addio. Mondo addio. Parola addio. Farò a meno di me stesso, con l’eccezione dei casi indispensabili. Vivrò per le urgenze. Già mi vedo, urge ogni cosa. Se sia uno stato di perenne tormento oppure una beatitudine, non lo so dire. Non è possibile sapere tutto, e un quasi niente mi basta. Arrangio, accomodo lo sdegno, discendo rapido nella mia attuale condizione, come si correrebbe giù dal monte Calvario se vi fosse un ritorno. Ecco, di nuovo, l’allusione ad un rito, l’ossessione del sacro. Morire, ridere e bestemmiare. Fati avversi e incatenati. Ma dal Calvario si scende e sul Calvario si passeggia, a parte i dementi esercizi della via crucis, segno di una misurata follia che si tramanda intatta: ma non mi appartiene, sono un matto che ha investito le sue rotelle in una concezione problematica del tempo e dello spazio, un mentecatto sui generis. Altra razza di forsennato, di una follia più metodica. Forse. Le mie previsioni saranno smentite, una per una, dai fatti. È per questo preciso motivo che detesto i fatti, sono troppo volubili. I disfatti. Sono un antenato, ma è impossibile sapere di chi o di chi cosa. Certo, di un mondo, ma quale? Come antenato sono impotente, sono un giovane babbuino che la collettività collocherà in una gabbia socialmente benvista. Sono l’installazione di un uomo nelle fortezze della virtù e della castità verso cui, inevitabilmente, ci avviamo: data l’importanza dei modelli e delle definizioni, e visto che nel nuovo mondo la verità sarà abrogata per legge e le balle saranno un genere di prima necessità. Forse, con qualche dubbio. Vado lì. Come un eroe. Come un cretino.
NOTE- Margi e Ivan fanno parte di una splendida realtà, on line, il cui nome è unonove. I redattori , domenica 26 giugno dalle 21.30 alle 23.00 saranno alla Festa Democratic Party (un tempo più umanamente conosciuta come Festa dell’Unità), nello spazio della libreria l’Eternauta, a Roma, in Viale delle Terme di Caracalla. Partecipano Ivan Arillotta, Monica Mazzitelli, Margi De Filpo, Valeria Faella, Katia Colica con Antonio Aprile al basso, Isabella Carlizzi e Yari Selvetella. effeffe🡅
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Impossibile commentare tanta bellezza dello scrivere, un inchino a chi sa farlo, a colui che delle parole ne fà captatore,ricevitore e antenna, e propaga il bello e il profondo…. arrivano a velocità del suono, lasciano margini per riflessioni ancora. Complimenti a entrambi :)
eppur si muove