Le lacrime della pittura
di Arnaldo Colasanti
Mark Rothko, il maestro, un giorno tentò di spegnere la disperata voracità dell’arte novecentesca. A Houston, in Texas, si incontra un santuario in mezzo a case di legno e mattoni, lungo strade ordinate. E’ un piccolo edificio, senza finestre e ornamenti. La sua anonima vocazione multireligiosa, lo stare laggiù, in una provincia distante un milione di chilometri da New York e dall’Europa, dà alla struttura un che di amorfo: una specie di semplicità muta, senza domande.
Si entra ma non c’è nulla. Nell’unico spazio ottagonale colpisce il silenzio. No, non è il silenzio delle chiese italiane, dove gli affreschi e le sculture sembrano offrirti il mondo intero. Nelle chiese cattoliche ciò che viene rimossa è la solitudine, l’Io dell’orante, a favore di un soggetto collettivo, in tutti ridistribuito dal senso della colpa e, allora, ricollocato in mezzo alla storia e al tempo.
Nel santuario di Houston, invece, c’è l’Io solo, ovvero una mente rabbrividita che coincide appena con il corpo, senza sbavature. Nelle chiese si cammina, qui ci si siede: sarebbe impossibile sentire il rumore dei propri passi. E poi non c’è nulla da vedere: infatti sono solo buchi vuoti le quattordici tele dipinte dal Maestro, provviste soltanto di una luce naturale che pian piano scende e si spegne, mentre le opere stanno lì, in verticale, a legare la pietra grezza del pavimento a quella del soffitto.
Nella Rothko Chapel, che è un puro capolavoro del Novecento, il tempo non passa più perché il tempo è finito. Nessuno saprebbe cos’altro fare. Quando ci andai, ebbi l’impressione di abbandonarmi a me stesso (non ai miei pensieri ma al corpo) come mai capitò altre volte nella vita. Ad uno storico dell’arte che stimo molto, James Elkins, accade altro: ed è formidabile. Se leggerete questo splendido Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro (Bruno Mondadori), capirete che il silenzio di Elkins stringe a sé una risposta che è ancora una domanda: a volte è solo il pianto l’esercizio dell’intelligenza quando questa ha fatto silenzio per lasciare che l’amore invada a vuoto l’anima.
Certo, il libro non parla solo di Rothko, ma anche di visitatori anonimi che hanno lasciato segni o messaggi (frasi, commenti sugli album messi all’ingresso della sala), e appunto gente che ha scritto: “io ho pianto senza sapere perché”. Elkins scrive un libro con vari colori, affronta la sindrome di Stendhal o l’Estasi di San Francesco del Giambellino nella meravigliosa Frick Collection di New York. Racconta di Jean_Baptiste Greuze, delle sue fanciulle coi capelli impigliati al lampo segreto della giovinezza; e narra di altri pittori e di tele (Caravaggio, David, Ingres, le memorie di Caspar David Friedrich all’Ermitage). Alla fine può apparire perfino pedante e ossessivo, in quel suo descrivere l’esperienza (o davvero una non-esperienza, l’abbandono?) che è il pianto davanti all’arte.
E’ meraviglioso fare questo viaggio. Eppure, a noi lettori, viene il sospetto che Elkins non abbia fatto alcun viaggio. Lui è rimasto lì dentro, nella Cappella Rothko. La sua memoria di storico è falsa o meglio è futile, come a volte la verità. La sua narrazione cade, si inginocchia, prende a descrivere la pena di una vicinanza massima al capolavoro, a quei potenti ritratti soffocati. Sarebbe un errore leggere Dipinti e lacrime come un saggio a tema, nella migliore tradizione della Press universitatia americana. In realtà, è un romanzo. Cioè è un diario ottuso, dove l’aria paralitica del sobborgo, la sua luce e poi le righe lacrimevoli della pioggia restano un battito di ciglia, quelle di James Elkins, dell’uomo che guarda e che capisce anche se non sa. Per Rothko “l’arte è estasi o non è niente”. Fu questa la sua ribellione alla pittura del Novecento, la scommessa di una spiritualità sul “troppo mondo” di tanti suoi contemporanei. Non importa che il battito morbido di Rothko si spense lungo l’azzurro delle vene spezzate, in un bagno suicida del 1970. E vale anche poco che la Rothko Chapel sia stata inaugurata un anno dopo, quasi come l’edificazione di un sepolcro. Ciò che conta è che l’arte sia il dio della voce che arriva da lontano e che si spegne e resta vicina, imperfetta, senza più fine. Il pianto è sempre uno sguardo che muore. Ma alle lacrime, che non sanno più niente, resta possibile l’estremo sentimento rivolto alla bellezza: la gratitudine.
(pubblicato su Stilos il 12/6/2007)
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Grazie! Per questo pezzo. Io sono una di quelle che davanti a Rothko ha pianto e so cosa è racchiuso nelle parole qui sopra. Anche se era alla Tate Modern a Londra, nella stanza “rossa” per cui Rothko si ispirò alla biblioteca laurenziana di Michelangelo – è verissimo, bisogna sedersi, ascoltare le voci dalle tele di Rothko, la risposta del corpo, più che quella della mente. Se ne esce sempre o pacificati o sconvolti.
Per l’arte quando è tale (vero anche questo) si è soprattutto grati, scioglie la nostra solitudine.
articolo che vuole ostentare le mucose del godimento estetico nell’istante del loro inturgidimento.
quindi per certi versi osceno.
si può piangere di fronte ad un quadro.
però meglio non dirlo.
never explain, never complain.
(grazie per questo piccolo capolavoro di non-sense: “c’è l’Io solo, ovvero una mente rabbrividita che coincide appena con il corpo, senza sbavature”: l’Io rigorosamente scritto maiuscolo, certo)
Be’, Tash, “c’è l’Io solo, ovvero una mente rabbrividita che coincide appena con il corpo, senza sbavature” ammetterai che fa figo. Molto figo. (a meno che non volesse dire che dentro la cappella c’era il condizionatore a palla, da far rabbrividire tutto il corpo, oltre che la mente!)
la cosa che più mi colpisce del testo è questo frammento:
-Nella Rothko Chapel, che è un puro capolavoro del Novecento, il tempo non passa più perché il tempo è finito. Nessuno saprebbe cos’altro fare. Quando ci andai, ebbi l’impressione di abbandonarmi a me stesso (non ai miei pensieri ma al corpo) come mai capitò altre volte nella vita.-
questo spiega quanta poca confidenza abbiamo con noi stessi.
Fermare il tempo equivale a respirare con coscienza, e la coscienza è – anche -percezione corporea, consapevolezza della forma.
un linguaggio nuovo che solo l’arte risveglia!
Colasanti..su unomattina, con la strafica a fianco che mi spiega pirandello e manzoni alle 8 e mezza…no non posso leggerlo qui vi prego. Dopo la disperata voracità..mi sono scese le voglie, le energie. E voglio Colasanti vicino a Luca Giurato. Dinuovo.
“Ciò che conta è che l’arte sia il dio della voce che arriva da lontano e che si spegne e resta vicina, imperfetta, senza più fine…..”
puntini puntini. garufi+ colesanti, come corteggiare – e non dissipare – l’etereo (il nulla). glorificare – e non smentire – la (neo)teologia dell’arte. pericoloso e intercambiabile strumentario teorico e retorico, ci vorrebbe la sordina, o il misticismo esotico verboso e paraculo di un certo battiato, invece questi fanno (e si prendono) sul serio. andrà fatto, un giorno, un discorso serio su queste schegge di critica e di estetica fuori dal tempo, apparentemente, e invece più che mai vive e vegete. la secolarizzazione incompiuta.
vedi gianni, a me invece sembra che faccia molto “figo” pretendere di far parte del club degli apoti, di coloro che che non la bevono, accogliendo con un ghigno saccente chi, pur con tanti limiti, prova a investigare l’abisso di un silenzio qual è la rothko chapel. è altrettanto ridicolo e trombonesco, ma molto più presuntuoso. un po’ come affermare che la sentenza cioraniana sulla prossimità fra dio e il nulla sia un’emerita cazzata che mai lui pronunciò, senza rendersi conto che i saggi del rumeno sono pieni di varianti di quella sentenza, e che quasi tutta la filosofia teoretica è una verifica di quel vincolo. la meccanica logica del dileggio è pericolosa, finisce sempre per ritorcersi contro chi la pratica sistematicamente, ritenendosi l’ispirato arbitro della realtà che si pone su un piedistallo dal quale dispensa bocciature e promozioni. poi si può discutere se l’arte sia diventata per il grande pubblico un surrogato della teologia, una religione comodamente eviscerata perché priva di odiose e restrittive precettistiche morali, ma solo se nessuno pretende di avere la verità in tasca.
“Apprendre à voir est le plus long apprentissage de tous les arts”
(De Goncourt)
A Colasantiiiiiiii. Sei solo un venduto marchettarooooooooooo! Porti l’acqua con l’orecchie a quel pappone de Franco Matteucci! Sei pateticoooooooooo!
mi sembra di capire abbastanza il senso del post di colasanti.
sono un fan di rothko e nel mio infimo blog ho scritto un post intitolato Restare ancorati a Rothko (http://www.tashtego.splinder.com/?from=20).
non condivido invece le parole che colasanti usa, che trovo non appropriate.
Non so perché ce l’avete con Colasanti, non lo conosco neanche: l’articolo magari non è il massimo, ma il libro in questione lo sto leggendo anch’io ed è interessante anzichenò. Non mi pare però che l’autore rimanga sempre segretamente su Rothko. Che poi l’autore stesso è uno che, per sua ammissione, non ha mai pianto davanti a un quadro, e il suo grande amore è invece un altro quadro di cui parla estesamente nel libro, l’Estasi di San Francesco del Bellini. Parte da Rothko perché pare che quella cappella sia l’opera d’arte davanti a cui la gente in assoluto ha pianto di più, dopo Guernica. Ma come faranno a fare queste statistiche, dico io? E chi lo sa. E buonanotte a tutti. Anna Lamberti-Bocconi
SERGIO:
“vedi gianni, a me invece sembra che faccia molto “figo” pretendere di far parte del club degli apoti, di coloro che che non la bevono, accogliendo con un ghigno saccente chi, pur con tanti limiti, prova a investigare l’abisso di un silenzio qual è la rothko chapel. è altrettanto ridicolo e trombonesco, ma molto più presuntuoso. un po’ come affermare che la sentenza cioraniana sulla prossimità fra dio e il nulla sia un’emerita cazzata che mai lui pronunciò, senza rendersi conto che i saggi del rumeno sono pieni di varianti di quella sentenza, e che quasi tutta la filosofia teoretica è una verifica di quel vincolo. la meccanica logica del dileggio è pericolosa, finisce sempre per ritorcersi contro chi la pratica sistematicamente, ritenendosi l’ispirato arbitro della realtà che si pone su un piedistallo dal quale dispensa bocciature e promozioni. poi si può discutere se l’arte sia diventata per il grande pubblico un surrogato della teologia, una religione comodamente eviscerata perché priva di odiose e restrittive precettistiche morali, ma solo a patto che nessuno pretenda di avere la verità in tasca.”
Come, scusa? ;-)
a Ilio e Brandon: saresti stati gli stessi che avrebbero sputato su Pasolini e Cristo, gli stessi mezzi-uomini della legge, del giudizio… con la stessa mediocrita
Anche a me questo pezzo di Colasanti è sembrato un po’ ambiguo. L’ho riletto con calma perché ero già interessato al libro di Elkins, e speravo di ricavarne un’ opinione utile. Beh, forse comprerò il libro, nonostante Colasanti, ma vorrei tentare di chiarire perché sono convinto che a Colasanti non piaccia Rothko, e forse neanche il libro di Elkins.
Inizio dal contrario, cioè da una frase che racchiude in un rigo e mezzo tutto l’amore di Colasanti per Elkin e il suo libro:
“Ad uno storico dell’arte che stimo molto, James Elkins, accade altro: ed è formidabile. Se leggerete questo splendido – Dipinti e lacrime …”. E’ chiaro che dopo una tale dichiarazione d’amore nessuno potrebbe credere che il dichiarante non sia innamorato, eppure.
“Uno storico che stimo molto, un libro splendido”. Eppure, davanti all’opera di Rothko, allo storico accade altro, qualcosa di formidabile. Gli accade di rimanere in silenzio. Mentre a Colasanti (e ce lo racconta in 17 righe, non in una e mezza) accade di abbandonarsi a se stesso, non ai pensieri ma al corpo.
Chi leggerà il libro capirà (dice Colasanti) che “il silenzio di Elkins stringe a sé una risposta che è ancora una domanda”. Questo potrei considerarlo positivo se andasse in direzione di una analisi ragionata, se rappresentasse una qualche volontà di ricerca, insomma “abbi dubbi”, ma il seguito è “l’amore che invade a vuoto l’anima” perché “a volte è solo il pianto l’esercizio dell’intelligenza quando questa ha fatto silenzio”. E qui, anche se può sembrare affascinante, il trionfo dell’amore nasce dal silenzio dell’intelligenza, e non mi sembra positivo, per niente.
Lo stesso Colasanti ribadisce nel finale che “Il pianto è sempre uno sguardo che muore.” E ancora una volta cerca di mitigare la cosa lasciando alle lacrime la possibilità di esprimere gratitudine.
Rothko è stato, anche, un romantico fuori tempo massimo, per molti quasi un mistico, e quella frase sull’arte che sia il dio della voce ecc. sembra più sua che di Colasanti. Partendo dal surrealismo ed eliminando nel tempo ogni riferimento formale dai suoi quadri-parete, dalla seconda metà degli anni ’40 ha fatto una pittura cromatica astratta. Nel ‘47 scriveva: “Come avanza nel tempo fra un punto e l’altro, l’opera del pittore progredisce verso la chiarezza, verso l’eliminazione cioè di ogni ostacolo tra l’idea e l’osservatore. Tra questi ostacoli cito, ad esempio, la memoria, la storia, la geometria – paludose generalizzazioni da cui si possono trarre parodie di idee, cioè fantasmi, mai idee vere e proprie”.
Colasanti dice che Rothko aveva scommesso sulla spiritualità, contro la pittura del ‘900, ed è vero.
Ma Colasanti, dopo aver accennato alla scommessa, non sembra più interessato a scoprire se Rothko l’ha vinta o persa. Non sembra, in realtà ci ricorda che l’artista si è suicidato, e che la Rothko Chapel “che è un puro capolavoro del ‘900” “sia stata inaugurata un anno dopo, quasi come l’edificazione di un sepolcro”.
Nelle prime 17 righe ci ha raccontato, anche, come ha visto la Chapel
“un piccolo edificio, senza finestre e ornamenti … La sua anonima vocazione … lo stare laggiù … amorfo … semplicità muta, senza domande … non c’è nulla … colpisce il silenzio … non c’è nulla da vedere … nessuno saprebbe cos’altro fare”.
Ecco sembra che voglia lasciare a noi la decisione sull’esito della scommessa, Colasanti ci dice solamente che Rothko aveva puntato sulla spiritualità ma è finito male e il suo capolavoro del ‘900 sembra un sepolcro. E i 14 quadri? “sono solo buchi vuoti”. La scommessa ? Fate un po’ voi.
“Uno storico dell’arte che stimo molto, James Elkins… La sua memoria di storico è falsa o meglio è futile, come a volte la verità…uomo che guarda e che capisce anche se non sa”
Il libro splendido. “Alla fine può apparire perfino pedante e ossessivo … E’ un diario ottuso …”
Insomma, Rothko non può più, ma Elkins deve ringraziare?
So per certo che questo pezzo l’ha scritto Eleonora Daniele e l’ha editato Franco Matteucci.
Tash è un fan di Mark Rotko, io di Benedetto Antelami
@anthony
anche a me piace l’antelami.
a tashtego piasce qualcosa. forse c’è ancora un po’ di speranza per tutti noi.