Da Burri (seconda parte)
di Christian Raimo
“Nel paese dell’arte, l’arte che sola ha la capacità di tradurre e ingrandire nella dimensione estetica un messaggio morale: mi riferisco appunto ad una concezione quasi messianica dell’arte che è ancora ben viva in Burri come in tutto l’informale, e ad un paese che, in materia di convergenze tra povertà, etica ed estetica, da Jacopone a San Francesco (Burri è umbro) a Pier Capponi e al Caravaggio ha una robusta tradizione”.
“Burri fece un passo più in là: istituì la trama della tela come lo stesso dipinto. Un dipinto non dipinto, allo stato pre-natale. Dopo le analisi che si sono fatte, non sarà arduo tuttavia rintracciare il duplice significato di questo atto di folle audacia, ancor più temerario della ferita coi lembi rovesciati o del cratere scavato. Da un lato, cioè, Burri attualizzava la tela come il momento stesso esistenziale, bruto, offerto in proprio allo spettatore, repulsivo allo spettatore. La tela era grossa, rozza, di juta o di canape e così grossa e rozza che doveva subito colpire, non poteva passare inosservata. In nessun momento avrebbe potuto apparire la tela sul telaio per dipingere. Era dunque come uno spregio o una beffa intollerabile: ma, per renderla anche più intollerabile, ecco che ostentava macchie di dubbia origine (e se non c’erano, Burri ce le faceva, le più dubbie possibili), strappi, rammendi, toppe, cuciture irritanti come il percorso di un insetto sulla carene o la scia bavosa della lumaca”.
“L’informale di Burri è l’espressione di una sostanziale passività ideologica, che si risolve in una radicale messa a nudo delle strutture psicologiche, come strutture freudianamente primarie”.
“L’arte di Burri ha una componente anche processuale, documentata per esempio dai video che mostrano le azioni più dionisiache di Burri con la fiamma ossidrica, il martello o altri strumenti distruttivi. Questa presenza del tempo rinvia però anche a un aspetto dell’esperienza di Burri che a me sta molto a cuore, e cioè alla sua storicità: rinvia cioè – in modo molto mediato, molto in cifra – alle dinamiche della guerra e dell’elemento violento comunque presente nella società umana”.
“Burri l’avanguardista, che faceva strillare come aquile i benpensanti negli anni Cinquanta, Burri il classicista, che faceva storcere il naso agli accademici negli anni Ottanta. Un classicismo paradossale: nella sua fedeltà informale, nella sua scommessa ermetica e sapienziale, soprattutto nella sua violenza selvaggia, sino alla fine, sino alla pelle chirurgicamente strappata ai suoi Cellotex”.
Prima di arrivare a Città di Castello, nei giorni prima, pascolo in biblioteca, su internet, mi metto a leggere, diciamo anche che studio, mi appunto: mi lascio impressionare dai rapporti, iperbolici, di adesione, miranti all’esclusività direi, che vari critici d’arte intessono con Burri. Forse è solo la mia proiezione, forse è solo la mia attitudine che attribuisco ad altri; ma quello che loro, i critici, mi sembra che cerchino, quello che tentano di scovare nella sua opera somiglia a una sorta di “fondamento”, o di “sfondamento” (un’infinita messa in crisi di un fondamento), come se ognuna di queste storie d’interesse e di affetto fosse alla ricerca della sua stessa ragion d’essere, di un’origine del desiderio. Il rapporto con Burri come paradigma del rapporto con l’arte. Il rapporto con Burri come messa alla prova del nostro rapporto col mondo, con quello che vediamo.
Paghiamo il biglietto popolare, 5 euro, e saliamo le scale di Palazzo Albizzini, io ho dimenticato il bloc-notes in macchina, riscendo, rivado al parcheggio – fuori c’è un sole granulare e insinuante, gli occhi non si abituano subito a entrare e uscire – e quando torno su, i miei due amici non hanno ancora attraversato l’ingresso, sono rimasti ad aspettarmi, seduti sulla panchina di legno, nella sala d’anticamera, di fronte al Pannello Fiat del 1950, con un’espressione vuota come quella di due animali. Pannello Fiat è un’enorme tela su cui sono stati applicati dei pannelli di faesite, un metallo leggero, laminale, che sembra l’alluminio del domo-pak, in forme ritagliate come quelle che farebbe un bambino piccolo per un collage (mezzelune, triangoli, vermicelli) e dai colori elementari tipo cartoncino Bristol, rosso-rosso, nero-nero, marrone-marrone. Se uno pensa alla committenza – una concessionaria di automobili Fiat che dopo poco (immagino con una sorta di garbato imbarazzo) restituì a Burri l’opera –, il Pannello appare quasi uno sberleffo, un’infantile esibizione del gusto per l’asimmetria e la casualità; come se chiedeste a un artista un’opera da esporre in salotto e quello vi presentasse un disegno di quando aveva sei anni. Noi, sorridiamo.
Nella prima sala, il primo quadro, quello che Burri ha voluto mettere a cappello di tutti gli altri, è Nero 1. Sta sulla parete sinistra da solo, il primo delle 318 opere che vedremo, ed è l’indizio perfetto di quello che seguirà. La tela come spesso accade in Burri smentisce il suo titolo, si prende le sue libertà. Si dice nero, ma non è nero. Innanzitutto perché – del tutto arbitrariamente – al centro verso sinistra compare la cima di una candela rossa, mentre in alto a destra ecco un quadrato azzurro. Una candela rossa che appunto smentisce l’idea stessa di oscurità e un quadrato azzurro che, come un’isola nella tenebra, può voler dire tutto. Può stare per: una via d’uscita? uno specchietto per le allodole? una macchia di speranza? un laghetto del presepe?
La mia immediata capacità di decodificazione (quella che chiamavo una basilare competenza nell’individuare una qualità estetica in ogni cosa) mi rendo conto, già da subito, gira parzialmente a vuoto, va in folle. È un quadro che vorrebbe esibire solo se stesso, scandire una retorica letterale, tautologica, il nero è nero, ma manda la comprensione in vacca. E dunque – seconda ragione – questo Nero 1 non solo non è nero ma è la sconfessione stessa della “nerezza”. Qui non c’è quell’assenza di colore in cui fisicamente consiste il nero, qui viene sperimentata l’impossibilità stessa dell’assenza di colore, la contraddizione intrinseca del nero, il suo inganno, il suo essere un colore non essendolo.
Ma come accade questa messa in scena? Con lo smentire il titolo del quadro: non Nero appunto si dovrebbe chiamare, ma Neri. Il colore che non è un colore, l’assenza cromatica qui è ritratta nella sua paradossale, ribalda, capacità di variazione: il bluastro, il grigiastro, il plumbeo, il catramoso… Dentro il nero, nelle pieghe del nero, c’è ancora il nero certo, ma non è forse un nero più denso, non è forse un nero più profondo? È l’opera di un adolescente verrebbe da ipotizzare, di uno interessato ai giochi di parole più che alla logica del discorso. Il risultato è che Burri risulta simpatico, senza che la ricerchi la simpatia. D’acchito sta simpatico, questa è la sua prima qualità d’artista.
Lo stesso arbitrio, sperimentale, sbeffeggiante, interessato all’apertura del significato più che alla messa in ruolo è già riflesso sulla parete opposta. Mi ci fermo cinque minuti, di fronte alla piccola tela di Catrame, 1949. Nell’imberbe autocomprensione che ho del modo in cui immediatamente, come un farmaco istantaneo, mi fanno effetto questi quadri, applico un semplice non-metodo associativo. Le pustole che emergono in Catrame sono piccoli vulcani. Sono macchie di varicella non del tutto cicatrizzate. Sono disegni di frattali. Sono i ceci della minestra che faceva mia nonna. Una forma ne richiama un’altra nel mio repertorio mentale con una possibilità che non riesco per nulla a controllare, e che – comincio a realizzare – mi provoca una certa molestia, e un certo piacere. È il gioco che si fa con le nuvole in cielo… quella a destra laggiù è un coccodrillo… quella qui davanti è un frigorifero… quella è una balena con un cinghia alla pancia… O è come il gioco del “se fosse”. Non so se qualcuno di voi ha presente una poesia di Simon Armitage, un poeta inglese quarantenne, che si chiama proprio Not the furniture game, “Non il gioco del se fosse”?
Inizia così:
I suoi capelli erano un corvo pescato da una ciminiera intasata
e i suoi occhi erano uova sode schiacciate sulla punta
e il suo sbattito di palpebre la porticina del gatto
e i suoi denti erano le statue dell’Isola di Pasqua
e il suo morso era un ferro di cavallo.
Le sue narici erano le canne di un fucile da caccia, carico.
E la sua bocca era una trivellazione in cerca di petrolio andata male
e il suo sorriso era un parto cesareo
e la sua lingua un iguanodonte
e il suo respiro un raggio laser […]
Se si capisce subito la formula, comincia a essere automatico: in Bianco, 1951, c’è in realtà – l’opera di Burri, nello smentirsi, non si smentisce – un po’ di giallo e c’è un po’ di il rosso, e c’è un coltellino, e ci sono dei denti. E così, stando alle regole di un gioco che si decidono mentre si gioca, le forme, tutte le forme si fanno come dire possibili, potenziali. E quello che mi domando è: va bene, ma a parte i giochi da bambino, quand’è che ho visto una cosa del genere? Quand’è che mi è successa una cosa del genere? Faccio mente locale. Non apposta. Il mio cervello funziona così. Procedo per associazioni.
Una decina di anni fa alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, sempre alla GNAM, sì a Roma, allestirono una mostra su Picasso, sui suoi schizzi, sul suo lavoro preparatorio, e in una saletta minuscola a intervalli di un’ora proiettavano Le mystère Picasso, un film di Henry George Clouzot, il regista de Le Diabolique. Mi ricordo che mi sedetti lì senza grandi pretese, ero già allora ben disposto a qualsiasi tipo di distrazione, e vidi invece su questo televisore con una videocassetta messa in loop qualcosa che mi strabiliò.
Nel film (qualcuno lo può trovare in una videoteca fornita o se è fortunato su e-mule) Pablo Picasso, a torso nudo, in pantaloncini corti e un paio di sandali, in una piccola stanzetta scura ha di fronte a sé soltanto una tela trasparente dietro la quale è stata piazzata la cinepresa. Che cosa fa? Inizia a disegnare con un pennarello. Traccia una linea, una linea ondulata che diventa un occhio, un occhio che diventa l’occhio di una faccia, una faccia che smette di essere una faccia e diventa la pancia di una colomba, ma così di punto in bianco Picasso cambia soggetto, butta giù con un pennellino quattro macchie di colore celeste, poi fa una striscia viola sotto, poi una specie di spennellata verde ricurva a metà della tela, poi traccia una linea che potrebbe essere la carena di una barca, aggiunge due microcurve che non si capisce cosa sono (che figura sono, di che figura fanno parte), poi una piccola ombra sotto la prima linea, e all’improvviso uno riconosce un profilo elementare di una donna: la linea spezzata il naso, le due curve le arcate degli occhi. Picasso va avanti velocissimo, traccia linee accennate, e una specie di 3 schiacciato vicino alla striscia celeste è una mano, altre due righe e questa donna con gli occhi chiusi, reclinata, acquista un corpo. Passa all’idea successiva, ed ecco un pesce gigante, grasso, che viene tutto decorato di ghirigori interni e diventa una specie di arazzo, e poi basta disegnargli una testa da un lato e si trasforma in un gallo, basta ricoprire col nero il corpo del gallo e vien fuori la faccia di un gatto. È impressionante perché non si riesce a star dietro alla capacità immaginativa, poetica in senso letterale, fattiva, fisica, di quest’omino in calzoncini che risponde al nome di Picasso. È lui che vede nel quadrato una base per una statua, è lui che trasforma l’orizzonte di un paesaggio nell’ombra di un braccio. È come se la nostra ricezione delle figure all’interno delle forme arrancasse rispetto a quello che già ha in mente Picasso, all’ipotesi della nuova figura che ha cominciato a disegnare. Una bambina diventa una città. Un aquilone una foresta. Alla fine del film, in una specie di stato di abbacinazione, scorrono i titoli di coda in cui si dice, come se avessimo assistito veramente alla ripresa di un sogno prolungato:
I dipinti realizzati da Picasso
in questo film non possono essere visti in nessun altro luogo.
Sono stati distrutti dopo il completamento del film.
Ma anche lì come in Burri adesso non era stato l’incanto ad attrarmi, non era il senso di stordimento. Non mi dava nessun gusto restare a bocca aperta di fronte al genio, né viaggiare tra una suggestione e l’altra come in uno zapping pittorico. C’era qualcosa che facevo fatica a riconoscere, ma aveva un movimento sorgivo, qualcosa che stava riaffiorando.
La familiarità che tutti i giorni intratteniamo con oggetti che si autodefiniscono seducenti, belli, è veicolata da metafore, da dispositivi retorici rivolti alla persuasione. L’eleganza, la raffinatezza, l’armonia sono impressioni che conosciamo bene. Che cosa manca allora a questa enorme quantità di oggetti che si auto-definiscono belli, di cui invece intrasentivo l’odore nel Mystère Picasso, nei quadri di Burri?
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Nabokov a conclusione delle sue Lectures on Literature scrive: «I have tried to teach you to feel a shiver of artistic satisfaction, to share not the emotions of the people in the book but the emotions of its author—the joys and difficulties of creation.»
Il film di Clouzot ci fornisce una immediata ed irrestistibile scorciatoria nel condividere il rapimento creativo dell’artista.
pasolare in biblioteca… interessante…
“Comme c’est difficile de trouver exactement le point où doit s’arreter dans un tableau l’imitation de la nature”.
(Renoir)
«I have tried to teach you to feel a shiver of artistic satisfaction, to share not the emotions of the people in the book but the emotions of its author—the joys and difficulties of creation.»
è interessante lo snobismo di certi commentatori oziosi che non si peritano di tradurre. o è solo pigrizia?
Trovo interessante anche questa seconda parte, soprattutto quando, con il caso di Picasso, si evidenzia lo sforzo da parte del fruitore di colmare la distanza (non l’abisso, si spera) che lo separa dall’autore. E rispetto all’opera in fondo più “intellettuale” di Burri (che si può ricondurre all’idea della potenza simbolica rinvenibile in certa materia grezza, quasi un “ready-symbol” da riportare “semplicemente” alla luce) qui fanno irruzione le componenti inconsce che permettono a Picasso quel flusso di figurazioni apparentemente senza sforzo, ma anche estatico e privo di controllo. Così invece di un distante e sapientissimo architettatore di trompe-l’oeil mentali, l’autore appare in preda a processi in buona parte sconosciuti a lui stesso, circostanza che lo riavvicina al fruitore nel rapporto con l’opera. Forse l’unica chiave di convergenza, che compensi la fatale divergenza legata alla diversità delle pratiche e dei talenti, sta proprio in quella dimensione del sogno/”poeticità in senso letterale”/linguaggio primario cui si accenna nell’articolo. L’evanescente cunicolo scavato da ogni artista nella propria zona di “spazio dei possibili” sbuca talvolta in nodi “condivisi” (almeno entro una certa gamma di sfuggenti dimensioni) che rendono le proiezioni del fruitore sulle strutturazioni dell’opera meno arbitrarie, e talvolta quasi obbligate, quasi con la forza di un fulmine che però non può erompere (non dimentichiamolo) che dalla parte viva della relazione.
@Ginevra
stabilire quando un quadro è finito è facile solo per gli annigoniani, gruppo cui Bersaglio Seduto appartiene
burri è un epigono, un manierista dell’Informale, non vale tante parole wuote e remote
mi domando perché gli oggetti a funzione estetica generino sempre torrenti di parole incontrollate: una più, una meno, non importa, tanto pur sempre di arte si parla.
si provasse a parlare allo stesso modo, metti col tassista per dirgli dove si vuole andare, oppure col fruttivendolo.
ma con l’arte non c’è problema, tanto chi ti ascolta e magari ti risponde starà al gioco di sicuro.
A lavorare no eh?
me il pezzo è finito?