Caro nonno presidente
di Christian Raimo
Sono cresciuto in un mondo politicamente secolarizzato. Imparai a leggere che ero molto piccolo e c’era una scritta rossa sul muro proprio sotto casa nostra che diceva: Aldo Moro è vivo e rubba. Mia madre la usava per insegnarmi che non bisogna raddoppiare tutte le b come fanno i romani. Si dice abito e non abbito, abete e non abbete. Oppure, sentendo parlare tanto di brigate rosse, le cercavo in giro, per strada, dovunque. Un giorno, dal sedile posteriore della macchina, le indicai a mio padre: “Papà, guarda, le brigate rosse”. Erano carabinieri con la striscia rossa in rilievo sui pantaloni.
Risultava evidente che i miei avevano vissuto male l’esplodere del conflitto degli anni ’70 e volevano proteggerci. Nel repertorio narrativo famigliare c’era una telefonata di mio padre a mia madre incinta al sesto mese di mia sorella: lui le urla di tornare a casa il giorno che rapiscono Moro. “Qua scoppia la guerra”, le dice. Da lì in poi, credo, siamo stati tutti molto in casa. Il mondo di fuori arrivava filtrato dai giornali e dalla televisione.
Io incameravo la realtà come potevo, sfogliavo tutti i quotidiani e le riviste che approdavano tra le poltrone del salotto. Guardavo quantità monumentali di cartoni animati e telefilm. Leggevo libri randomicamente. Quando, con la mia classe delle elementari, fummo invitati al Quirinale, mi ero divorato, per prepararmi, il libro-memoriale di Pertini Sei condanne, due evasioni. Non avevo idea di cosa fosse la Resistenza. Alzai la mano e chiesi al presidente un paio di domande su come era riuscito a sopportare tutto quel tempo in carcere.
Quando elessero Cossiga, avevo dieci anni. “Tv sorrisi e canzoni” ci fece un numero speciale. Avevo adorato Pertini, il presidente partigiano al quale Gino Bramieri aveva dedicato una canzone che i bambini della mia età cantavano insieme a Carletto di Corrado e Cicale di Heather Parisi, che faceva
Caro nonno presidente
ti vogliamo tanto bene veramente
sei la gioia dei bambini
delle mamme e dei papà
nei tuoi occhi
c’è un sorriso di bontà
Cercai subito di farmi stare simpatico anche Cossiga. Squadra del cuore: Juventus, riportava Sorrisi & Canzoni. Che era la mia squadra del cuore. Almeno proprio fino all’anno in cui Cossiga salì al Quirinale e la Juventus vinse la finale di Coppa Campioni. L’Heysel, i trentanove morti, mio padre che obbliga a andare a letto senza vedere la partita.
La mia educazione politica me la dovetti costruire in maniera artigianale. Credo che, come tutti gli adolescenti, avessi una predilezione per quelli morti giovani senza motivo. Lo stigma dell’eroismo innocente. A diciasette anni mi accodai a una manifestazione in ricordo dell’uccisione di Giorgiana Masi. Venire colpiti alla spalle da una palottola vagante mentre si fugge, è stato il mio incubo per anni. Tornato a casa, scrissi una poesia che faceva così:
Anni di spugna
chi è giorgiana masi? chi è giorgiana masi?
a seconda dei casi la gente risponde
col passo più spesso o citando un cartello:
diciannove anni e distesa per terra.
sono gente anch’io che sto solo e non conto
che sto in fila due ore per non fare un corteo
con le macchine in fila per una signora
vestita di lutto e stesa per terra con accanto una moto.
ma né il giorno né il sonno ricuce lo schianto
né la vita né l’aria ti ridanno un inizio,
vi prego non sentitevi uniti soltanto
nel cercare un indizio di questo rimpianto.
L’idea di essere vissuto in un mondo in cui l’immaginario veniva prima dell’esperienza sensibile, fu la scoperta malinconica con cui sono diventato adulto. C’era un poster che vendevano davanti all’entrata della mia università che ritraeva l’intera famiglia dei Simpson intenta a fare un pic-nic in un prato. Nel poster, sopra la tovaglia, accanto ai piatti e bicchieri di carta, c’era un televisore che rimandava l’immagine di un meraviglioso tramonto. Homer, Bart, Lisa, Margie, Meggie erano tutti incantati a guardare lo schermo, mentre dietro di loro, c’era lo stesso identico tramonto.
Un pomeriggio di tre, quattro anni fa mi ritrovai a casa di Cossiga. Accompagnavo Paolo Pecere che stava scrivendo un libro su Tolkien e l’appropriazione da parte della destra italiana della cultura fantasy. Cossiga veniva chiamato in causa in quanto presidente onorario dell’Associazione tolkeniana italiana. Ci fece accomodare nel suo appartamento di Prati un signore anziano, molto reverenziale e timido che somigliava a Mister Magoo. In anticamera, quest’omino non finiva di parlarci in modo apologetico, iperencomiastico della persona che era indaffarata nello studio. “Conosce tutte le cose della tecnologia”, ci sibilava, “è un uomo straordinario”. Scoprimmo poi che l’omino era l’ex-prefetto ed ex-commissario straordinario al comune di Roma Enzo Mosino. Nello studio, Cossiga veniva letteralmente affogato tra edizioni rarissime di libri e oggetti ipertecnologici. Le ditte gli mandavano i prototipi da testare e gli chiedevano consigli prima di immetterli sul mercato. Era stato sempre il più giovane, come ricordava Sorrisi & Canzoni. A sedici anni aveva conseguito la maturità da privatista, a venti si era laureato in giurisprudenza, a trenta era sottosegretario alla difesa, a cinquantuno presidente della Repubblica. Su di me effettivamente esercitava il fascino perverso dell’erudito megalomaniaco, che fa politica, incide sui percorsi della storia come un macchinista che decide gli scambi dei treni con una sorta di capricciosa onniscienza. Dottor Stranamore, lo chiama Lucia Annunziata in 1977. Dopo due ore di chiacchiere sulla mancanza di radici culturali della destra italiana, lo salutammo, e mentre ci accompagnava alla porta, nel corridoio sbirciai dentro la sua camera. C’era un letto a una sola piazza, un inginocchiatoio, un’icona della Madonna. Credo si fosse da poco separato dalla moglie e quella stanza da vecchio solo mi rammaricò, e al tempo stesso mi fece pensare a “Todo modo” di Sciascia.
Dall’inizio degli anni ’90 Cossiga aveva cominciato a esternare. Da uno dei depositi geologicamente più profondi della memoria storica di tutte le zone d’ombra della repubblica italiana (da Moro a Gladio) avevano preso a uscire ininterrottamente lapilli che preannunciavano un’eruzione sempre minacciata e mai avvenuta. Nel 2005 ad esempio, in un’intervista a Repubblica adombrava (rivelava in modo reticente) il dubbio che Giorgiana Masi fosse stata uccisa dai suoi stessi compagni. “Ho taciuto fino ad ora per motivi di carità”, diceva. Pannella replicava incazzato: “Continua a mentire”.
Nel 2007, in un’intervista al Corriere della Sera, parlava (non parlando), dell’omicidio Calabresi, dell’uccisione di Moro, e ancora, di Giorgiana Masi. Alla domanda Chi fu a sparare?, rispondeva: “La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l’ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore”. Alla domanda Fuoco amico?, rispondeva: “Questo lo dice lei. Il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo una bottiglia di champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità, pensando a tutto quanto ci hanno detto”.
Sono cresciuto e continuo a vivere in questo mondo politicamente secolarizzato, penso ogni volta che leggo parole di questo genere, la strana piccola storia italiana in cui l’insieme della carità e quello della verità non hanno mai né punti di intersezione né punti di tangenza.
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[anche questo è un estratto dal libro sui manifesti e le scritte sui muri intitolato “Niente resterà pulito”, appena uscito per Rizzoli, a cura di Alberto Negrin, Giorgio Vasta e Edoardo Novelli]
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La verità la conosce solo Dio!
take a look:
here
sicuro fosse l’icona della madonna e non di una damigiana?
( mentre il rifondarolo, sempre che esista, è un astemio… )
Sono un estremista e dunque odio Cossiga.
Ma non tanto perché era ministro dell’interno ai tempi di Giorgiana, quanto per la lurida volgarità, per lo schifoso cinismo scambiato, o meglio fatto passare, per astuzia.
A Piazza Argentina nel Settantasette era comparsa una scritta storica sul parapetto della fossa archeologica: “Cossiga sei come Kabir Bedi, te puzzano li piedi”.
Era una cosa ironica che una volta tanto aveva preso il posto delle solite invettive e ridava al personaggio il giusto rilievo.
Immagino che fosse stata fatta prima dell’uccisione di Giorgiana.
Nell’abc della filosofia politica si legge che lo stato ha, per definizione, il monopolio della forza.
Ma nel paese dove vivo e che speravo che un giorno cominciasse a cambiare, cosa che non è successa, anzi, lo stato ha anche il monopolio della verità.
Cossiga sono decenni, come dice Raimo, che allude-allude a rivelazioni che non arriveranno mai e lo fa per puro sciocco protagonismo, lo fa perché non ha mai avuto un’idea in vita sua che non fosse una lercia cazzata, perché non ha mai detto una sola parola che non facesse parte di un messaggio trasversale indirizzato a chissà chi.
La mente di Cossiga è il fondo della discarica della politica italiana.
Gente come Fanfani o Moro e persino Rumor in confronto a lui sono giganti.
Ma perchè ancora pietà?
Non si accorgono tutti, quelli che la provano e quelli che la subiscono, che è solo una goduria transitoria, come non fare la raccolta differenziata?
se ci fosse un referendum in Italia per il ritorno della Gogna pubblica, voterei a favore, perchè se non esiste giustizia, e non esiste verità, allora godiamoci lo sberleffo in piazza, nel mercato, il dileggio, le intercettazioni.
Se scopriamo il colpevole facciamogli il solletico ai piedi con le piume.