El boligrafo boliviano 10
di Silvio Mignano
21 luglio 2007
Il cammino da La Paz a Cochabamba abbandona l’altopiano prima di Oruro e sale fino ai cinquemila metri, tra montagne spezzate, dove il deserto è interrotto da una chiesa del Seicento, tozza pietra color tufo, una trachea tarchiata per campanile, o da un emporio di legno e lamiera. Dentro poche varietà di biscotti e aranciate frizzanti in bottiglie di plastica. Fuori, un bambino di un anno aspetta davanti all’ingresso, su una stuoia stesa nell’erba, e guarda fisso davanti a sé, ogni tanto crollando il capo con un sorriso che si ripercuote su di me o sul rubizzo delle sue guance.
Poi la strada scende ripida verso i duemilaseicento di Cochabamba, infilando una sequela di tornanti tutto sommato ampi e comodi, di un asfalto che tende a sbriciolarsi ai bordi, come il cornicione di una crostata mezzo bruciaticcia. A ogni curva c’è un cane che aspetta, sonnecchiante. Quando arriva una macchina si alza e abbaia composto, sperando di ricevere dei resti da mangiare, un pezzo di pane, se è festa perfino un cartoccio preparato apposta. È il suo lavoro. Ogni cane ha un tornante assegnato e nessuno sbaglia mai di posto né si sogna di invadere il territorio altrui, nemmeno se è più redditizio (forse la distribuzione è avvenuta per ordine di anzianità o di precedenza, dubito per mero accidente del caso). A sera rientrano tutti alle loro case, nei villaggi di pastori sparsi sulle montagne. Il mattino dopo eccoli di nuovo lì, puntuali al loro posto di lavoro.
All’alba la periferica di Cochabamba, nella direzione di Vinto e Quillacollo, è un viale lungo e spettrale attraversato da passaggi pedonali vuoti. Lampeggiano ancora le insegne dei motel, Eros Motel, refugio para tus sentidos, The Love Time Stop abnorme cuore al neon rosso trafitto da freccia viola tremolante, installazione non so bene se più sublime nel suo kitsch o cursi elevato a esigenza della carne e dello spirito, o triste presagio dell’abbandono che dappertutto emana, su questo nastro d’asfalto commentato dalle assurde palme a quota duemilaseicento.
Poi questa diventa una storia d’acqua. Salendo verso la valle di Misicuni, dove costruiremo una diga per rifornire un milione di cochabambini, un ponticello di legno scavalca il río San Miguel. Decine di persone affollano le rive, inginocchiate sulla pietraia, e sbattono strizzano immergono magliette pantaloni camicie calze biancheria. Che fanno, chiedo.
Lavano i vestiti dei morti, è la risposta.
È un’antica usanza quechua, o almeno dei quechua di questa regione. Parenti e amici raccolgono fino all’ultimo capo appartenuto al defunto e si danno appuntamento sulle sponde del San Miguel. Poi, quando tutto si è asciugato al sole, steso sui massi, ci si spartisce il guardaroba tra tutti. Gli abiti, perfettamente puliti, continueranno a camminare per il mondo.
Guardo la folla che si affanna ginocchioni, i gruppi chiaramente separati l’uno dall’altro, a perdita d’occhio. Devono essere morti in tanti, nelle ultime ore.
L’acqua riempirà la conca di Misicuni, quassù, tra due anni, se i tempi tecnici saranno rispettati. Una laguna lunga otto chilometri, larga uno e mezzo e profonda fino a duecento metri. Osservo le pareti rocciose, la frattura a V che sarà saldata dalla diga di centoventi metri, nel punto in cui oggi sfilano dei lama grossi, lenti, i ricci spessi di lana nera e marrone, il labbro inferiore proteso a formare una smorfia che sembra di nausea.
Decine di villaggi saranno sommersi, ma eccoli, miracolosamente ricostruiti trecento metri più su, alcuni minuscoli, sette-otto case adesso dipinte di verde o di blu, a seconda del versante cui appartengono, secondo una regola che mi sfugge. Pulite, ordinate e vuote, paiono città giocattolo, miniature disposte in un plastico, ciascuna con un campo di calcio regolamentare, più numerosi delle squadre che potranno calpestarli, a giudicare dalle ridotte dimensioni della popolazione. E chiesette altrettanto pronte e deserte, cattoliche e qualcuna anche evangelica (i protestanti guadagnano terreno, mi spiega l’ingegnere che dirige l’impresa Misicuni, perché i pastori, con una moglie accanto, sopportano la solitudine delle Ande molto meglio dei sacerdoti condannati al celibato, e la gente poi diffida meno di una famiglia normale: il prete che vive tutto solo sa un po’ troppo di latente omosessuale, una possibilità ancora difficile da accettare nella cultura quechua).
E l’acqua dentro il tunnel di Misicuni, venti chilometri in linea retta da una parte all’altra della montagna con appena ottanta metri di dislivello e una pendenza dello 0,4 %. Il corso del fiume viene rivoltato a rovescio, dal versante amazzonico viene deviato verso Cochabamba, dove lo aspetta quel famoso milione di abitanti che uno immagina con la mano continuamente appoggiata sui rubinetti, in attesa di sentire finalmente il rimbombo gorgogliante delle tuberie.
Venti centimetri d’acqua sul fondo della galleria. Avanziamo nel buio pesto, rastrellando il fondo con gli stivali impermeabili al ginocchio, sollevando una sottile pellicola di mota, un riflesso improvviso, gamberetti fosforescenti o una trota infilatasi nei chiusini. Facciamo cento metri, giusto per un assaggio, oppure duecento, o almeno fino al punto in cui la sezione ad arco diventa un cerchio perfetto, l’impronta della talpa-scavatrice che fa riaggallare alla memoria le vecchie storie di Zio Paperone e degli artefatti costruitigli da Archimede. Alla fine percorriamo un chilometro intero, e al ritorno si va controcorrente, inzuppandoci inesorabilmente fino al tessuto interno dei pantaloni, col rischio di congelarci ai sei gradi sottozero che ci aspettano all’esterno.
Tornando a Cochabamba, la sera, riattraversiamo il río San Miguel. C’è un nuovo gruppo intento a fare il bucato, movimenti misurati, espressioni serene, perfino qualche sorriso.
Con un brivido mi rendo conto che stanno lavando i vestitini di un bimbo.
Bruciando la bariffi sul tempo, come si fa ad accorgersi solo adesso, alla decima puntata che è boligrafo e non biografo?
Che vorrà dire boligrafo?
Grafomane boliviano?
arivivo, arivo….calma…..
harf arf…
;-)
boligrafo é la penna, una biro. Le immagini e la scrittura della biro boliviana sono grandi.
volevo dirlo io!
le immagini sono grandi, ma la punta è fine…
devo ancora leggerlo, el ‘boliviano’!
hoy, io credo che la proverei una vita così, nella solitudine andina, ma più verso il versante amazzonico…
ps,
fino ai 5.000 però non posso salire!
è un brivido bello, quello del finale
Chapuce
forse anche perché anni fa passai da quelle parti durante un viaggio indimenticabile, sono interessatissimo alle vicende boliviane, conservo le stampe di tutte le puntate del diario di silvio in un cassetto e ogni aggiornamento è un piacere.
su quest’ultimo “episodio”, vorrei qualche ragguaglio a proposito della diga che disseterà i cochabambini. la guerra dell’acqua del 2003 è famosa, so che ora il servizio idrico è autogestito e mi chiedo se la diga rientri tra i progetti della nuova gestione (e anche: come la prendono gli sfollati?).
silvio, sai dirmi qualcosa?
grazie, ciao!
luigi ramenghi (a titolo personale, ma anche di membro del comitato per l’acqua del bacino del reno – bologna)
appassionante.
a letto.
saluti,
rs
chapuce o l’impossibilità ontologica di tacere.
saluti, nonostante
rs
che ne sai tu di un campo di grano…?
Rispondo volentieri a Luigi Ramenghi: la costruzione della diga di Misicuni rientra tra i progetti della cooperazione italiana concordati con il Governo boliviano.
A presto e grazie agli estimatori e a tutti i lettori del bolígrafo
Silvio Mignano