Da: La scimmia scrive
di Giuseppe Catozzella
prosa #28
la tara è il nostro resto al desco che ci affama
spoglie lasciate a lutto al pranzo della festa.
c’è delicatezza nel dissiparsi delle ossa,
nello sciogliere la posa in cui le pongono,
lo sfaldarne la figura:
l’opposto dell’ossario, quello
è come la materia.
quanta pietà nel soffio che le spazza,
che fa un suono come ‘più’: sparizione,
e anche atto del soffiare.
(esili e comuni gesti tracciano una differenza:
tu che gratti il formaggio e poi lo ripartisci,
il dolce tonfo vitreo dei bicchieri,
il metallo del cucchiaio contro la forchetta,
il profumo di bucato sulla bocca)
è la tara, il tarlo a morire senza fiato,
a lasciar la propria tara ai tarli
a riscovarla nella carne,
a rifarla nel setaccio delle ossa,
trafugare tutto ciò che ci fa segno,
il macero animale del corpo che ci resta e che ci sfama…
prosa #29
il mese aprileo allunga bave di lumache e si distende,
è tutto e niente.
nel tre, tutto è sudore al due dell’uno.
detto questo, rifiorisce
(la quarta stagione non è che il tu che leggi)
che poi tutto è moto di retorica,
è gioco a disconoscersi,
a perdere coscienza
– dà piacere scoprire di aver la stessa
faccia che si portava il giorno prima –
giocare in uno a nascondino
a contare fino a che poi ci si scorda
a che punto eri arrivato e ricominci
a contare fino a che poi ci si scorda di contare
e poi lì muori.
nomi propri di metafore all’anagrafe,
la retorica è la storia, non gli scritti,
e il gioco è inventare distrazione e vestirla a verità:
uno è questo, il preferito:
nel tre, il punto in cui noi siamo,
ci vediamo come scaduti da un’origine, che poi nominiamo: ‘uno’.
noi vogliamo più di tutto ritornarci
– che è poi la verità: tutto il bello, tutto il buono e il divino –
e cerchiamo a questo ogni momento di ridirla
– qui sta la poesia: questo stesso gioco, la retorica –
fino a quando ci accorgiamo che non c’è,
se non per sottrazione
dal punto in cui già siamo;
che il luogo che cerchiamo non si afferra,
che più stringo e più mi scosto dallo stretto,
e un bel giorno ci avvediamo
che siamo stati all’angolo
che ciò che era abbracciato era un fantasma,
anzi queste stesse spalle,
l’idiota che fa finta di baciare la ragazza,
e poi di fretta, una mattina, nello specchio
– come quando hai visto nel riflesso il viso
di tuo padre, o forse di tuo nonno –
c’è un pezzo di mondo, un tronco, uno scandaglio, o il termosifone,
e ti vedi trasparente,
una piega malstirata, una bolla, una verruca della terra,
e che poi non è neppure questo,
che è la terra che è una bolla, un tuo riflesso,
e allora non si tratta che di errare, di aderire, di ricominciare a giocare, a ridire l’uno
ma sapendo che la nostalgia è il passato – l’eldorado –
e l’ansia il futuro – la pace –,
che il tempo non sta più nel campanile ma nel progetto
etico, al passato, che mi voglio per davvero, e necessario e
etico, al futuro, che mi voglio per davvero, e necessario
e che è qua che siamo, e da qua poi non si esce nemmeno con le buone,
ché star fuori è già star nel futuro, o nel passato,
e non c’è baco o buco, non c’è sistema o programma che ci salvi,
ché non c’è la salvazione, è sempre pasqua
è sempre pasqua
anche il giorno di natale
è sempre pasqua
siamo già salvi, ma questo non vuol dire abiurare
fare prose,
– la metafora è quello che siamo –
si tratta di errare sapendo di errare
di cantare sapendo di cantare
di stare sapendo di stare
io credo che di più non si può fare
siam schizoidi-normali,
e questo è uguale a:
gioia epifania latrati sempreverdi
chicchi, mamule di gesso, clotildi di cotone,
non c’è male nella pioggia
quando spazza l’ultima domanda:
perché?
perché sono portatore di perché? e ancora perché?
dio a te stesso, generatore di sensi e di risposte,
ma così poi ci si perde, no
io voglio stare umano
teso dentro al soffio che mi spira
morto nell’angoscia per mia madre, per mio padre
morto nelle rughe della fronte, nel vestito,
morto nei singhiozzi della terra
oh, odiare gli oh, ed essere forzato a usarli
a condire l’unica parola, l’unico steccato
che separa gli innumerabili momenti,
che di tutti poi fa uno:
altro non posso, e questo continuerò a fare
in mille e infinite forme
che dire il dire e il ridirlo,
nominare il giogo e il giogato
(ostrato, dilapidato e vilipeso)
torto il torto a tentar di farlo teso
dire l’uno nelle sue immortali crisalidi a spirale
nelle sue infinite tombe, nelle chiocciole
e le botole a scomparsa,
e dirlo onestamente, fuor della metafora
no, non c’è la salvazione, non c’è pasqua
se non negli squarci a ciel sereno,
o nella lima, che è più facile sottrarsi che guardarsi…
(Da: La scimmia scrive – Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007. Immagine: Joshua Waldman – “Donald”)
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Che schifo
Versi-prose delicate, che combattono per la loro esistenza. Mi sembra che giochino a nascondersi e alla fine decidano di rivelarsi, squarciando un velo doloroso.
Ringrazio molto Anna del commento. Credo che abbia colto il gesto di precarietà e provocazione che stava dietro questi due testi, il loro essere “espliciti, troppo espliciti”, come l’atto di una scimmia che si spulcia, l’annullamento del dire nel suo fare.
Mi piacerebbe invece che “poppo” argomentasse il suo.
Densa e arguta
arriva dritta al centro
buona!
Grazie Ginevra. Ti ringrazio molto.
Ginevra mi ha strappato i vocaboli dalla bocca. Condivido, non conoscevo Catozzella, mi piace questa sua secchezza che va al cuore delle cose (con qualche vaga assonanza zanzottiana)
@luminamenti
Grazie tante anche a te. E’ proprio a questa “secchezza” che miravo, a fare dei versi dei rami secchi che temessero il contatto con la realtà. A eliminare il più possibile le forme retoriche classiche.
Che schifo la foto.
La poesia l’ho letta ora e mi piace.
Cosa c’entra la foto?
ci voleva anche un’immagine secca in questo caso.
una bella natura morta,
con riserva (e scimmia)
D’accordo con Poppo, questa immagine mi fa vomire, è brutta : nuoce alla poesia.
@Luminamenti: spero di non averti fatto male!
Per un lettore comune come me la foto dà l’idea di quasi una copertina, come andare in libreria e vedere una copertina di un libro che dà una prima idea. Di fatto quest’idea era sbagliata. Vedendo la foto mi ero fatto l’idea di qualche prosa sconcia. Di fatto la foto non c’entra nulla con il testo. Il testo mi è piaciuto molto. Non sono un esperto in materia e mi sono azzardato al commento pensando che fosse un argomento poco serio (vista la foto) ma in realtà queste parole meritano davvero anche il mio elogio di uomo qualunque. Così sì che mi sento più vicino alla poesia, in generale, non certo vedendo accostate simili foto.
“Poppo” ti ringrazio per aver fatto chiarezza su quel commento quanto meno frettoloso e “azzardato”, come hai detto, e per le belle parole sui testi. Tutto è bene ciò che finisce tale.
Fa piacere che si commentino anche le immagini. Ho messo questa perchè straniante (Paperino di fronte ai prigionieri iracheni), così come stranianti sono le prose di Catozzella. L’unico punto di contatto. Volevo sovrapporre due straniamenti espressi con due modalità diverse. A me il quadro piace, ma mi rendo conto che può essere un pugno nello stomaco per animi particolarmente sensibili e persone di “buon gusto”.
Il testo mi piace. per ora l’ho letto solo due volte (manca il tre). devo reiterarlo ancora e rifarne un uno, contare, contare ancora; quante volte rileggerlo e poi scordarmelo e ripetere ancora
mantra
manca
poco.
però una domanda Giuseppe (se mi puoi rispondere): spiegami la tua etica del numero.
Vedi un uno e conti fino a tre ‘nel tre, tutto è sudore al due dell’uno’.
stiamo nel tre, torniamo all’uno.
due
per ‘giocare in uno a nascondino’
e per contare una sequela di un due tre che si ripete nella ronda che finisce.
‘e poi lì muori.’
me lo spieghi?
detto questo, rifiorisco
Beppe, intanto grazie. Poi, per me questo è il ritmo del respiro: uno, due e tre. Ed è il ritmo che scandisce il rapporto tra vita e coscienza. Quando facciamo una cosa siamo nell’uno (perché coincidiamo con essa, propriamente non ci siamo), appena ci rendiamo conto di ciò che facciamo siamo nel due (ci sono io più l’azione), e a quel punto si scappa nel tre (il controllo sull’azione). Il tre però è già un nuovo uno perché il controllo sull’azione ha già generato un cambiamento in me. Sono cambiato. Uno, due e tre sono il ritmo della nostra vita. Da lì non si esce. Un ritmo involontario e necessario quanto quello del respiro. Detto questo, il quattro sei tu che mi hai fatto la domanda (ovvero un altro uno). Ecco il ciclo delle stagioni e dei quattro elementi.
Siamo dunque costitutivamente divisi. Non muoviamo passo senza stare in questo respiro: uno, due, tre. Quando riflettiamo su di noi, siamo per forza nel due. Dunque per forza scissi. Il nostro sogno sarebbe coincidere con l’uno, la nostra origine. Ma è impossibile. Perché nell’uno noi non ci siamo. Questo è il nostro guaio, la nostra dannazione. E allora, una volta compreso questo, l’unica cosa da fare è continuare a vivere sapendo di essere nel respiro del mondo. Di essere mondo. Niente di più. Basta con l’illusione della coscienza.
giuseppe, grazie. sei grande!
e i tuoi versi sono uno di quegli squarci di cielo sereno dove c’è salvazione.
ora ci volo dentro.
Ringrazio tutti per i commenti e aggiungo che anche a me l’immagine faceva un effetto sconcertante, o di straniamento, come ha detto Franz Krauspenhaar, anche perturbante, e per questo ho creduto che andasse bene per accompagnare i testi.