GraffITI
Abbellire il Moderno?
di Alberto Giorgio Cassani
«La gente si arreda la casa in stile antico, si circonda di mobili che appartengono a un’epoca ormai sepolta da secoli che non le è per nulla congeniale, e questo basta a farla vivere nella menzogna, pensavo. In realtà la gente è talmente debole rispetto alla propria epoca che si sente costretta a circondarsi di mobili di un’epoca da tempo passata, da tempo scomparsa, da tempo morta e sepolta, e si può dire che lo fa per tenersi a galla, pensavo, ed è quindi segno di uno stato di orrenda debolezza quando la gente si arreda la casa con mobili di epoche passate e non con mobili della propria epoca, della quale non riesce a sopportare la durezza e la brutalità, pensavo. La gente si circonda di mollezza, la mollezza del passato da cui è scomparsa ogni contraddizione». Questa formidabile pagina di Thomas Bernhard, tratta da A colpi d’ascia 1 , con la sua lucida, feroce e tagliente scrittura, basterebbe da sola a far da commento alla recente querelle sui graffiti alla palestra dell’Istituto Tecnico Industriale Statale “Nullo Baldini” di Ravenna. Certamente i graffiti sono una manifestazione dell’arte contemporanea e non hanno in apparenza nulla a che vedere con l’antico, ma sono stati motivati come un “abbellimento” di due scarne, dure e brutali pareti di cemento.
Il termine “brutalità”, utilizzato da Bernhard, ben di addice, fra l’altro, a definire un tipo di architettura come quella dell’I.T.I.S., edificio progettato, tra il 1959 e il 1961, dagli architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone e Danilo Naglia in quello stile definito, appunto, brutalista, iniziato da Le Corbusier con i suoi edifici indiani (Ahmedabad e Chandigarh), ma compiutamente realizzato soltanto con l’opera degli architetti inglesi Alison e Peter Smithson nei progetti della Smithdon High School di Hunstanton (Norfolk, Gran Bretagna, 1949-1954) e nel non realizzato, ma ancor più “brutalista”, progetto per la Sheffield University (concorso del 1955), come ha ben scritto un grande storico dell’architettura contemporanea come Reyner Banham (The New Brutalism, in «Architectural Review», dicembre 1955). In Italia, un precedente dell’I.T.I.S. fu l’Istituto Marchiondi Spagliardi a Baggio (1954-1957), ideato da Vittoriano Viganò (con Franz Graf e Letizia Tedeschi), oggi senza utilizzo.
Ecco quanto scriveva, a proposito del progetto dell’I.T.I.S., lo stesso Manzone: «Perché inventare ogni volta l’ombrello? Perché non utilizzare i prodotti verificati? Ha senso il “segno personalizzato” quando nessuno ha più tempo di guardare? Ormai contano i fatti macroscopici, le grandi masse, i grandi motivi, le grandi stesure cromatiche. Non ha più senso un’architettura da contemplare. Solo pochi intellettuali nostalgici di un mondo ormai superato s’interessano al particolare raffinato, all’oggetto individualizzato. Siamo sottoposti a troppe sollecitazioni visive. Ogni forma è sottoposta a un consumo così rapido da risultare, alla fine, esteticamente neutra. Diciamolo francamente: giocare con ideuzze formali è, ormai, delittuoso» 2.
Dunque ancora oggi, l’architettura moderna – permettetemi di utilizzare quest’aggettivo in senso comprensivo, escludendo soltanto, da un lato, gli inizi del Novecento, caratterizzati dallo Jugendstil, altrimenti detto Art Nouveau, Liberty, Floreale, Modernismo catalano, secondo le diverse declinazioni proprie alle varie regioni europee, e, dall’altro, il cosiddetto Postmoderno (che pure a quel Moderno, almeno nel nome, fa riferimento, seppur e contrario) – non viene accettata in sé e per sé; come accade in tanti altri casi: per l’Avanguardia artistica (ancora qualcuno ritiene che Picasso non sapesse dipingere) o per l’avanguardia musicale (il Pierrot lunaire di Schönberg è ancora ostico alle orecchie di molti) e potremmo continuare a lungo. Di tutte queste espressioni artistiche non si riesce ancora a sopportarne, a reggerne, la «durezza e la brutalità». Forse è colpa del Moderno e dell’Avanguardia? Forse sono mancati e mancano tuttora gli strumenti per educare a questi linguaggi “anti-classici”? Come che sia, è ritenuto lecito addolcire la pillola attraverso decorazioni e abbellimenti, in questo caso ricorrendo al graffitismo. Ma la Street Art non era nata come un pugno allo stomaco per lo sguardo “borghese e perbenista” del cittadino? E non era un’arte clandestina? Non è perlomeno curioso che ora si concedano legalmente superfici della città per quest’espressione artistica? Dov’è andata la critica, dov’è finita la protesta? E perché proprio il Moderno ha bisogno di essere abbellito? Perché una parete nuda, bianca o grigia, provoca ancora un senso di horror vacui?
Venendo al caso dei “graffITI”, forse era opportuno, com’è stato già evidenziato da qualcuno, essendo vivo e vegeto (e in gran forma di spirito) uno dei progettisti dell’edificio scolastico più bello di Ravenna 3 (assieme al Polo per l’infanzia “Lama Sud” di Giancarlo De Carlo e Associati), sentire il suo parere. So che l’architetto non ha diritti sulla sua opera, una volta che questa è terminata (solo Santiago Calatrava ha provato a intentare una causa di questo genere a Bilbao per il suo ponte pedonale, perdendola), e che Le Corbusier, a fronte dei cambiamenti apportati dagli abitanti alla sua cité Frugès a Pessac (1924-1926, Gironda), aveva esclamato: «la vie […] a raison, et l’architecte […] a tort»; ma sarebbe stato un gesto veramente unico e degno di una città capitale europea della Cultura, farlo per la prima volta.
Queste riflessioni non vogliono essere contro qualcuno e soprattutto contro la Street Art. Tra l’altro, uno dei due artisti, Millo, ha svolto studi di architettura e si vede, perché il suo graffito si lega molto di più con il volume della palestra di quanto fa, invece, il lavoro di SeaCreative (alias Fabrizio Sarti), per il quale la parete è una pura superficie.
Se “tatuare” gli edifici non deve più essere considerato da “degenerati”, come sosteneva, all’inizio del secolo scorso, l’architetto Adolf Loos (Ornamento e delitto, 1908) 4, forse occorre lasciare “liberi” i writers di scegliere su quali muri e su quali architetture compiere tale azione. Ricordando però loro che l’architettura non è solo superficie, ma soprattutto volume, materia, texture, luce ed ombra, «le jeu, savant, correct et magnifique des volumes sous la lumière» (Le Corbusier, Vers une architecture, 1923). Una cosa viva, non morta, che forse non ha così tanto bisogno di essere “abbellita”.
NOTE- Holzfällen: Eine Erregung, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1984, trad. it. di Agnese Grieco e Renata Colorni, A colpi d’ascia: Una irritazione, Milano, Adelphi, 1990, p. 169. 🡅
- Citato in Ruggero Lenzi, Manzone architetto, Con una nota di Arnaldo Bruschi, Roma, Gangemi Editore, 1997, p. 59. Il testo originale, da me citato nella sua forma corretta, è tratto dall’articolo Istituto tecnico industriale a Ravenna, architetti Gino Gamberini, Antonino Manzone, Danilo Naglia, presentazione di Arnaldo Bruschi e Stefano Ray, in «L’architettura cronache e storia», XII, n. 135, gennaio 1867, pp. 566-571: 568. Le affermazioni di Manzone ricordano da vicino una pagina dell’architetto tedesco Peter Behrens, tratta da Über die Beziehungen der künstlerischen und technischen Probleme (Berlin, Ernst Siegfried Mittler und Sohn, 1917): «Si è impossessata di noi una fretta che non tollera l’ozio e che ci impedisce di indugiare sul dettaglio. Percorrendo le strade delle nostre metropoli a bordo di un veicolo superveloce noi non riusciamo più a cogliere i particolari d’un edificio e, in misura maggiore, le immagini di una città che vediamo dal finestrino d’un treno in corsa, sfrecciando via in rapida successione, agiscono su di noi solo per il loro contorno e profilo. I singoli edifici non ci parlano più. Questa modalità di osservare il mondo esterno […] trattiene solo la costruzione che, opponendo superfici il più possibile delimitate e tranquille, non presenti intralci di sorta ma offra semplicemente la sua concisione», trad. it. Arte e tecnica, in Francesco Dal Co, Teorie del Moderno. Architettura Germania 1880-1920, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 276-289: 283.🡅
- Ecco quanto scrivono Arnaldo Bruschi e Stefano Ray a p. 567 dell’articolo sopracitato: «Mentre brillanti quanto fatue meteore appaiono un poco dovunque sulla scena contemporanea, questo edificio può sembrare il rinunciatario prodotto d’una seria ma banale prassi professionale». Al contrario, «l’impegno a non dissipare l’eredità razionalista si unisce con l’ambizione di sostanziarla e di rinsanguarla, attraverso uno sforzo di depurazione del metodo e di decantazione del linguaggio. I processi produttivi correnti, di larga possibilità applicativa e di elevata economicità possono essere, secondo i progettisti, tramite di rinnovamento. Lo stesso tema conduceva ad evitare ogni compiacimento, ad un’apparente rinuncia all’architettura come espressione personalizzata. Un istituto tecnico industriale è molto più un’officina che una “scuola”. […] Lo sforzo di depurazione, la diretta rispondenza alla logica strutturale ed alla funzione, la rinuncia e la mortificazione si risolvono in una profonda istanza di economicità, non solo materiale, che sottintende una rinnovata eticità del fatto architettonico; una eticità intesa non come impegno “privato” ma come responsabilità “civile” verso la comunità».🡅
- Ornament und Verbrechen, trad. it. di Sonia Gessner, in Adolf Loos, Parole nel vuoto, Milano, Adelphi, 1972, 1980, pp. 217-228. Si veda il mio articolo Ornamento è delitto? Su graffiti, parolacce e scale “dimenticate”, in «Ravenna trovacasa», III, n° 33, dicembre 2007, pp. 17-19.🡅
Ho fatto le superiori a Ravenna e ricordo l’ITIS. Non è un edificio da considerare inviolabile, tutt’altro. Inoltre il graffito mi sembra bello, originale. Quindi, ben venga.
Nella mia prox gita a Ravenna andrò a vedere il tutto dal vero.