Il cibo
di Christian Raimo
Soltanto nell’ultimo paio d’anni la narrativa italiana degli esordienti e degli scrittori trentenni, quarantenni, ha fatto il pieno di libri che parlavano di quello che sembrava fino a poco prima un mondo sconosciuto: il lavoro, la precarietà, la vita di merda che si fa in Italia. Vita precaria amore eterno di Mario Desiati, Bassotuba non c’è di Paolo Nori, Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi, Cordiali saluti e Mi spezzo ma non m’impiego di Andrea Bajani, Il mondo deve sapere di Michela Murgia, Mi chiamo Roberta… di Aldo Nove, Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato di Federico Platania, Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio, Il sorcio di Andrea Carraro, Risorse umane di Angelo Ferracuti, Cronache dalla ditta di Andrea Cisi, Voice center di Zelda Zeta, eccetera eccetera eccetera.
Andrebbe fatto un ragionamento edificante su quest’ondata se non fosse che l’esito simmetrico che si poteva ipotizzare a partire da una tale rinascita di interesse collettivo non c’è stato. In Italia non si intravede nessun embrione (a parte casi sporadici come quello dei May Day, di Melfi o dell’Atesia) di coscienza di classe; il disagio del singolo non riesce a maturare in un’insofferenza comune; e seppure questa insofferenza comune c’è resta lamentazione diffusa, raramente si fa analisi teorica, ancor più raramente rivendicazione di diritti, men che meno progettualità politica. E anche questa è una giaculatoria che si è già sentita.
Prendiamola da un’altra parte allora. Andiamo nella città operaia per eccellenza: quella – per parlare degli ultimi giorni – della Signorina Effe (il film in uscita di Wilma Labate sullo sciopero di 37 giorni a Mirafiori e la marcia dei quarantamila), quella del nuovo corso di Marchionne, quella dei morti bruciati alla Thyssen Krupp. Qui un annetto fa l’ex-portiere del Torino Calcio, Alberto “Jimmy” Fontana, ha creato la sua nuova ditta di vestiti e l’ha chiamata Abbigliamento Proletario. “I capi”, dice lui in un’intervista, “sono allegri, sbarazzini, pratici, i prezzi economici. Il nome non ha nulla a che vedere con la politica, per carità! Si abbina bene a quelle che sono le radici torinesi, un modo per smitizzare il proletariato”.
Come dice spesso Slavoj Žižek, “la Verità è là fuori”: l’evidenza di un processo di lungo corso e di vasto raggio alle volte si può comprendere in un lampo a partire dall’osservazione più superficiale di quello che accade. La condizione delle classi subalterne oggi, ci rivela Fontana con candore, è una condizione di look, che – con un po’ di stile – può diventare allegro e sbarazzino. La stessa concezione di proletariato, arrivata al suo capolinea come elemento di comprensione sociale e rimpiazzata dalla più contemporanea e diffusa categoria di precariato, può alla fine della sua parabola d’uso ritrovare una nuova vita in una dimensione vintage, revivalistica, di feticcio, smitizzata. Ossia, alla lettera: senza racconto, senza storia.
La questione che Žižek pone come prioritaria in una possibile agenda di critica culturale è proprio questa: la nostra capacità di giudizio, la condizione della nostra stessa esperienza, si presenta oggi come pratica di consumo. Il nostro apparato categoriale come un repertorio di merci cognitive. Noi ci poniamo rispetto al mondo, desideriamo, proviamo sentimenti, subiamo traumi, crediamo, sosteniamo idee, in un sistema per cui la forma del consumo è diventato il nostro codice percettivo e il nostro paesaggio linguistico, ossia mentale. Se la nostra estetica è così informata dunque, e noi vogliamo comunque dire qualcosa su questo, se vogliamo parlare, teorizzare, scrivere delle ricadute di un sistema economico post-fordista sulle nostre vite, come potremmo farlo?
Ma siamo forse apocalittici. Descriviamo il paesaggio in cui abitiamo allo stesso modo in cui Adorno e Horkheimer all’inizio degli anni ’50 parlavano dell’industria culturale: un unico moloch capace di invadere e penetrare sistematicamente il corpus dei desideri collettivi. È forse così? E così come?
Facciamo un esempio di come funziona, oggi in Italia, la macchina comunicativa. La Nestlé deve piazzare sul mercato italiano il suo prodotto alternativo al caffè tradizionale, il Nescafè. Potrebbe accontentarsi delle normali campagne pubblicitarie, come la serie commissionata a Gabriele Muccino con Camila Raznovich protagonista, oppure fare un passaggio ulteriore, più sinuoso e impudente. Chiedere a Meta Comunicazione una strategia di promozione più allargata. Meta Comunicazione (come è documentato nel suo sito) sfrutta le possibilità di legare in maniera il Nescafé a un’abitudine che sta presuntamene prendendo piede tra i costumi degli italiani, il brunch. C’è che in tutti locali dove si fa il brunch la Nestlé offre il Nescafé. La Meta Comunicazione sfrutta, gonfia, elabora, seleziona, vari studi statistici che mostrano come la gente la domenica non va più a pranzo da mamma e papà. Rilancia questi studi sulle agenzie stampa, qualcuno si incuriosisce, ed ecco che in prima pagina di Repubblica esce – a costi ridottissimi rispetto a un normale annuncio pubblicitario e senza la connotazione del messaggio – il fatto che il brunch sta spopolando in Italia: il Nescafé aumenta le vendite; il nostro immaginario accetta il brunch come categoria dell’esistente.
Possiamo sfuggire a questa colonizzazione dell’immaginario prima e finanche del nostro apparato di desideri e percezione da parte dei – come chiamarli – mezzi di produzione estetica? Possiamo accontentarci di denunciare questa deriva antropologica nei modi e nei toni che Pasolini usava trent’anni fa? Possiamo, in definitiva, rinunciare alla vertigine semantica portata in sé dalla parola “verità” a favore di una concezione debole, di livello inferiore, rortyana direi, della “verità”?
Ecco due metafore che forse indicano, accostate l’una all’altra, l’elaborazione della nostra impasse. La prima è quella usata da Emilio Garroni all’inizio della sua Estetica per descrivere la condizione della nostra sensibilità rispetto al mondo: “Immaginiamo un ente che per sussistere e avere un’esperienza, debba essere incapsulato, al modo di un insetto fossile nell’ambra, dentro un blocco di materiale translucido: che questo e soltanto questo sia il suo ambiente vitale e sensoriale. Ebbene a queste condizioni l’ente che guarda è qualcuno che sta nel mezzo in cui guarda e non può trarsene fuori senza che il suo guardare cessi di essere un guardare. Diciamo che allora che per un tale ente guardare sarà essenzialmente un guardare-attraverso”. La nostra condizione, ci prova a chiarire Garroni sulla scorta di Kant, è qualcosa come “guardare dentro un filtro dall’interno del filtro”. Il filtro non è qualcosa che possiamo eliminare, è il nostro ambiente vitale e sensoriale. Ma proviamo a pensare che questo ambiente vitale e sensoriale sia penetrato sempre di più da un regime di promozione e dipendenza, proviamo a immaginare – non credo sia difficile – di essere immersi in un modus vivendi ed experiendi per cui alterniamo stati di soddisfazione e frustrazione, rilassamento e ansia. Proviamo a ipotizzare che la tipologia di quest’esperienza ci diventi indifferente, sia equipossibile: che così si manifesti un’esperienza spirituale, politica, estetica, sentimentale, qualunque. Mettiamo che l’insetto immerso nell’ambra si nutra esclusivamente dell’ambra. Mettiamo che il mezzo non sia soltanto il messaggio, ma sia il cibo.
Veniamo allora alla seconda metafora, una pagina abbastanza nota di Rumore bianco di Don DeLillo: “Diversi giorni più tardi Murray mi chiese notizie di un’attrazione turistica nota come la stalla più fotografata d’America. Quindi facemmo in auto ventidue miglia nella campagna che circonda Farmington. C’erano prati e orti di mele. Bianche staccionate fiancheggiavano i campi che scorrevano ai nostri fianchi. Presto cominciarono ad apparire i cartelli stradali. La stalla più fotografata d’America. Ne contammo cinque prima di arrivare al sito. Nell’improvvisato parcheggio c’erano quaranta auto e un autobus turistico. […] Tutti erano muniti di macchina fotografica, alcuni persino di treppiede, teleobiettivi, filtri. Ci mettemmo in piedi accanto a una macchia di alberi a osservare i fotografi. Murray mantenne un silenzio prolungato, scribacchiando di quando in quando qualche appunto in un quadernetto. – La stalla non la vede nessuno, – disse finalmente. Seguí un lungo silenzio. – Una volta visti i cartelli stradali, diventa impossibile vedere la stalla in sé. Quindi tornò a immergersi nel silenzio. La gente armata di macchina fotografica se ne andava dal sopralzo, immediatamente sostituita da altra. – Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura. Lo capisci, Jack? Un’accumulazione di energie ignote. Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno in futuro. Abbiamo acconsentito di partecipare di una percezione collettiva. Ciò dà letteralmente colore alla nostra visione. Un’esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo. Seguí ulteriore silenzio. – Fotografano il fotografare, – riprese. Poi non parlò per un po’. Ascoltammo l’incessante scattare dei pulsanti degli otturatori, il fruscio delle leve di avanzamento delle pellicole. – Come sarà stata questa stalla prima di venire fotografata? – chiese Murray. – Che aspetto avrà avuto, in che cosa sarà differita dalle altre e in che cosa sarà stata simile? Domande a cui non sappiamo rispondere perché abbiamo letto i cartelli stradali, visto la gente che faceva le sue istantanee. Non possiamo uscire dall’aura. Ne facciamo parte. Siamo qui, siamo ora”.
L’oggetto della visione per Murray e Jack perde qualsiasi valore in sé, anzi precipita in un’entropia della “temperatura estetica”, un grado zero di presenza. La sua esistenza rispetto alla nostra sensibilità vale solo come riferimento per convogliare le aspettative di desiderio degli spettatori. Un campanello pavloviano: più che cibo, una promessa di cibo. Un’aura che prescinde dalla presenza. L’aspettativa di desiderio, auratica, è ciò che va tenuto in vita a dispetto anche della sua effettiva realtà. Ma lo squilibrio tra fame e sazietà – in una dimensione d’incanto – è ciò che va preservato.
Per capire questa evoluzione può risultare emblematica la vicenda di JT Leroy. Fino a un paio d’anni fa JT Leroy era uno scrittore sfuggente e dal talento sorgivo e misterioso, un poco più che ragazzino dal volto angelico e dai modi liminali all’autismo che però riusciva in maniera scoperta e al tempo stesso fiabesca a raccontare esperienze di violenza pura di cui era stato vittima nella sua infanzia (Sarah, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, La fine di Harold). JT è stato per qualche anno l’ipostasi dell’autenticità. Come Rimbaud, come Sarah Kane. Per i suoi amici scrittori mentori come Dennis Cooper o Dave Eggers, per registi come Gus Van Sant e Asia Argento, per i suoi referenti italiani, il suo editor Simone Caltabellota, la sua traduttrice Martina Testa, la sua biografa italiana Valentina Pigmei (Chiedilo agli angeli), per tutti i suoi lettori, JT era uno strano monstrum di sincerità, la dimostrazione che in un mondo culturale dove molto è costruito e indotto dalle regole di mercato, un ragazzino di diciott’anni, ingenuo e genialoide, potesse trovare lo spazio e le attenzioni che meritasse: un puro.
La realtà è che purtroppo è che JT Leroy non esisteva: i libri li scriveva Laura Albert, una decisamente abile scrittrice di quarant’anni e per le foto si prestava Savannah Knoop, una ragazzetta ventenne vestita con abiti larghi da uomo e sempre abbigliata con un parrucca bionda e occhiali da sole, che nelle interviste dal vivo farfugliava bizzarrie. La truffa l’ha scoperta il New York Times l’anno scorso e la morale della vicenda è veramente lapalissiana, proprio per come mette a nudo i meccanismi perfetti della confezione editoriale: introiettati addirittura a livello inconscio. Il marito di Laura Albert, la (ghost)writer, anche lui complice della truffa, sosteneva che lei veramente si sentiva, era JT.
Cosa c’entra tutto questo con la narrativa che si occupa di lavoro?
La questione potrebbe essere ridefinita, o ribadita, in questi termini. La scelta che oggi si pone di fronte a uno scrittore che prima di tutto è un cittadino, un animale sociale, è questa: come posso vivere, esperire, produrre arte, agire politicamente, senza che questo si esaurisca in una pratica di consumo? Come posso far sì che l’impegno civile, l’esperienza politica non sia una forma –di nicchia, ovviamente – di consumo culturale? È il paradosso di Winston in 1984 di Orwell: come posso far sì che la mia ribellione rispetto a una società che controlla la stessa parametrazione della verità sia credibile prima di tutto a me stesso? Quali parole userò, di quale retorica mi posso fidare?
Il primo passaggio da fare forse è proprio quello di saltare un passaggio: non essere disposti a rispondere all’aspettativa di desiderio, alla domanda di mercato che chiede penne testimoniali, voci sintomatiche. Farsi interpreti e non testimoni o sintomi. Non farsi considerare né giovani né precari, ad esempio – anzi: non farsi considerare e basta. (Su come la categoria plastica di “precariato” si sia innestata infettivamente sulla categoria di “gioventù” si potrebbe e dovrebbe fare un lungo discorso a partire proprio dalla formazione di questa doppia ideologia spontanea, per usare il termine di Bordieu, che però arriva a dare i suoi frutti, fino a portare all’istituzione di un Ministero delle Politiche Giovanili – che altro non è che la sanzione della perdita di soggettività della popolazione anagraficamente più giovane – e che fra qualche anno potrebbe essere perfettamente sostituito da un Ministero delle Politiche Precarie). Non accettare dunque definizioni, etichettature che contengono già in sé una forma di discriminazione e di deficit di elaborazione. (La difficoltà da parte della categoria di “precariato” di diventare sinonimo di classe e non di strato sociale non sta nella stessa opacità intrinseca del termine “precarietà”?).
Il secondo passaggio è quello di avere sempre presente e – soprattutto – di far sempre presente il contesto in cui si agisce, si scrive. Per dire, in Italia persino il prezzo della carta (se vogliamo parlare di condizioni materiali) è condizionato dai gruppi editoriali come Mondadori che posseggono le tipografie più importanti del paese. Terzo passaggio: avendo presente il contesto in cui si opera – il mercato editoriale, l’aura della comunicazione, il paesaggio linguistico – accettare di non tirarsene fuori, e rendere produttivamente simboliche le sue contraddizioni. Avete presente: il gatto che passa due volte di seguito in Matrix fa intuire per la prima volta a Neo la possibilità di liberazione.
Quarto passaggio: non ridurre la propria ambizione soggettiva al semplice superamento dell’aspettativa di mercato. Utilizzare tutti gli strumenti che si hanno, la documentazione, la propria biografia, la capacità di coinvolgimento emotivo. Evadere dalle categorie merceologiche della scrittura (“scritto come un romanzo”, “una storia vera”, “diario di un blogger”…) , confrontandosi dialetticamente invece con le tradizioni letterarie, rendendole produttive non come repertorio museificato.
Ci sono scrittori che in Italia stanno muovendosi in questo senso? Sì, molti, molti di quelli citati all’inizio ad esempio, con un certo grado di consapevolezza, e radicalità. Ma se devo scegliere esempi che mi paiono significativi, citerei due libri, Pausa caffè di Giorgio Falco e Dies Irae di Giuseppe Genna. La prospettiva dell’insetto dell’ambra diventa in entrambi i casi la possibilità rovesciata di farsi carico della prigione linguistica in cui chi scrive si trova. Per spiegarsi: sia Falco che Genna piazzano la loro voce narrante al centro di un sistema di comunicazione subito. Per il primo il narratore diventa così una specie di consumatore onnivoro di slogan e spot. Certo, i messaggi della televisione e della pubblicità fossero il cibo della narrazione, della nostra koiné linguistica era quello che già aveva mostrato in modo poeticamente impeccabile Woobinda di Aldo Nove sulla scorta di Bret Easton Ellis, e di tutta la Narrativa d’Immagine americana (Pynchon e i suoi nipoti), ma Falco applica questo risultato a tutte le forme retoriche del provincialismo pseudo-televisivo italiano, da quelle aziendali, a quelle famigliari, a quelle politiche. Se tutto è chiacchiera, l’idea che ci sia un’identità, un corpo pensante a rielaborare questa chiacchiera è l’utopia possibile che reggerà il libro stesso. Il narratore è superfluo, la macchina comunicativa si muove da sé; ma: se in tutto ciò compare un’umanità residuale, un orizzonte di fraternità, questo a chi appartiene? Forse, a colui che applica una specie di poetica luddista ai mezzi di produzione estetica di massa. A colui che prova a spezzare le macchine retoriche.
Genna invece pone sulla pagina l’umanità residuale nella sua nudità più tragica, assoluta, inconsolata. Il narratore di Dies Irae è l’io stesso di Genna in un’autobiografia italiana esplosa e impossibile perché letteralmente devastata dalla perdita di una civiltà del senso. Una sorta di Petrolio pasoliniano, di romanzo-mondo in cui però la lucidità dello sguardo si confonde di continuo con la suggestione delle associazioni psicotiche. A cosa dare retta, quando la formazione stessa del nostro sguardo è passata per la riduzione del desiderio all’appetito? Quando comprendiamo che il nichilismo arrogante della società intorno si è fatto nostro? Ecco allora la nudità esposta. Nelle pagine in cui, ad esempio, il narratore fa il conduttore di un Rotocalco del benessere, una presunta finestra informativa mandata in onda da una televisione locale messa apposta per fare da cuscinetto tra una televendita e l’altra, questa esibizione di sé diventa lancinante, una possibilità di tragicità vertiginosa, una richiesta infinita di bellezza fatta da chi questa bellezza non l’ha mai conosciuta.
“Io sono la disperazione muta, inaccettabile. Sono la disperazione psicofarmacologizzata. L’eunuco del pensiero castrato: la sua picca infitta sulla nuca. Ci sono risvegli in cui lo spavento dei nervi, che non vogliono riconoscere la spessa luce grigia della finestra molata male. Persino i colori sembrano sbagliati. Tutto è ormai livellato alla luce artificiale dei faretti per le riprese, del «bianco» iniziale con cui si impostano le tonalità delle iridescenze interne alla telecamera. Poi però il visto e rivisto cento volte scivola sopra l’immagine attesa. Non conosco nulla dell’immagine attesa: quale immagine mi attenderei? Dove vorrei essere?”.
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tronando al paradosso di Winston: dà da pensare Genna come disperazione MUTA. Abissale davvero.
TRONando… riflesso pre-cyberpunk! Tornando, indeed.
Bentornato Christian !!!
magari!
Complimenti a Raimo, c’è molto, condensato in questo post.
Qualche grumo da sciogliere, se possibile.
1.
Sulla tesi che non c’è stata una rinascita di una coscienza collettiva a seguito della nuova ondata nella narrativa italiana.
Questo mi lascia perplesso: d’accordissimo che la narrativa (perchè di narrativa qui si parla) possa far riflettere sui problemi della nostra società e “della vita di merda che si fa in Italia”, e risvegliare coscienze individuali, ma affermare che possa fare da innesco per una coscienza di classe e una progettualità politica significa, secondo me, caricare sulle spalle dello scrittore di narrativa un onere (più che un onore) che non può sorreggere. La narrativa, anche soltanto per effetto della crasi cronologica che intercorre tra i tempi di gestazione/scrittura e quelli di pubblicazione di un romanzo (Raimo sa meglio di me che si tratta di un paio d’annetti, quando va bene), al massimo può rincorrere un progetto politico, può accompagnare un movimento collettivo, non certo anticiparlo.
Del resto anche qui si può fare un parallelo con il cinema. Ci sono ottimi film di denuncia sociale, penso ad esempio all’ultimo di K. Loach, In questo mondo libero, ma questi trattano di fenomeni che sono già divenuti storici (nel Regno Unito come da noi), come nell’esempio di Loach lo sfruttamento della manodopera “clandestina”.
2.
Sul collegamento tra produzione dell’opera e pratica di consumo.
Forse andrebbe meglio definito che cosa si intende per “consumo culturale” (se pago il libro sono un consumatore, se lo scarico gratis dalla rete non lo sono più?), e non mi è chiara quale sia la soluzione prospettata per sfuggire dalla tela di questo consumo culturale. Non credo che sia sufficiente farsi interpreti, presupporre il contesto, evidenziare i simboli delle contraddizioni del sistema, rifiutare le aspettative di genere da parte del mercato, per sfuggire dalla produzione di un oggetto che sarà comunque “di consumo”. In parole povere, se scrivo un libro e firmo con un editore un contratto per metterlo sul mercato a fronte di un corrispettivo, il mio libro, al di là del suo contenuto, sarà sempre e comunque un oggetto di consumo.
3.
Sulla necessità di rigettare le etichette, evadere dalle categorie merceologiche della scrittura.
Sono d’accordo, soprattutto per quanto riguarda la necessità di confrontarsi con le tradizioni letterarie. Confrontarsi però significa anche riconoscere che gli effetti più “devastanti” sul panorama nostrano sono stati prodotti da libri con una forma e struttura del tutto tradizionale. Mi riferisco ai romanzi sul lavoro, la cui influenza è evidente in alcuni esordienti, che possiamo ormai ascrivere alla nostra tradizione letteraria (La vita agra di Bianciardi, Il padrone di Parise, La morte in banca di Pontiggia, solo per citare gli esempi più luminosi). Bene, questi hanno prodotto esiti dirompenti anche come critica del sistema rimanendo ben ancorati alla categoria di fiction. Perchè oggi non può più essere così?
4.
Sulla similitudine con l’insetto affogato nell’ambra. E’ suggestiva, bellissima, anche lineare con il ragionamento espresso, ma forse crea l’impressione che la scrittura sia qualcosa di automatico, quasi in contrasto con la consapevolezza che Raimo cita giustamente come linea guida. Piazzare la voce narrante al centro del sistema di comunicazione e farsi carico della prigione linguistica in cui ci si trova possono essere, secondo me, la situazione di partenza, non quella di arrivo. In mezzo c’è un metodo, un lavoro sulla scrittura, anche un’analisi della realtà di cui si scrive, che porta a un distacco dell’autore dal proprio magma. L’insetto, per raccontare dell’ambra, non può che uscirne, tant’è che a me le parti che più sono piaciute di Pausa caffè sono quelle apparentemente più narrative (ricordo di un fantastico pezzo su un ragazzo che lavora in un bar). Altrimenti, se si intende fare narrativa parlando del sociale, si deve ricorrere alla metonimia, alla ricerca di una dimensione metaforica e simbolica nelle storie che si raccontano.
Certo, se proprio si vuole evitare questo percorso, per parlare della “vita di merda che si fa in Italia” non resta che il metodo utilizzato da G. Genna con Dies Irae, ma mi sembra un atto unico, una prova difficilmente replicabile, specie da chi non si chiama Genna.
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Ah, che bello! Sono contento…
:-)
Bene, e allora che facciamo? Non lo dico ironicamente, ma seriamente..
Anzi, lo ribadico. Cioè, in Italia si vive di merda, è un fatto che sta davanti agli occhi di tutti. Rabbia e frustrazione sono la norma, perchè la vita è diventata di colpo (nel giro di pochi anni) durissima. E dici bene: non c’è più coscienza di classe. L’hanno spazzata via. Non so come hanno fatto, anzi lo so ma è lunga da dire e comunque lo sapete pure voi, ma è successo.
E allora, dico io: che fare? Che si può fare? Io non lo so.
ps: è appena rientrato mi’ cugino, con cui vivo, che c’ha culo e soldi e ha potuto permettersi una macchina costosa e strafica da 40.000 euro. Beato lui. Sinceramente, potessi, me comprerei il Suv, perchè immagino faccia godere (forse è questo il problema). L’ha presa tre giorni fa. Gliel’hanno rigata oggi. Che fare? Cioè, rigare una macchina costosa per invidia di classe è la risposta giusta? Non credo.
Ma allora, cazzo, che facciamo?
ah, era la macchina di tuo cugino? Scusa, se lo sapevo non la rigavo…
;-)
@ marco
Tra godere 10 secondi rigando una macchina costosa per invidia di classe sapendo che non è la risposta giusta, e non godere neanche un po’ lasciandola lì intonsa ad occupare due spazi-parcheggio, e magari anche lo scivolo per disabili, in attesa di trovare la risposta giusta io non avrei dubbi: ero uno che gridava “godere operaio”, mica “potere operaio”, io!
Gianni, se puoi mandarmi privatamente la targa del tuo suv, così evito di perdere un amico…
@ christian
bel pezzo, da scaricare, stampare e conservare. Attento però a nominare Pasolini e “Petrolio”, che arrivano i vendicatori de noantri…
grazie raimo per i titoli e per tutto lo scritto. per questa urgenza di dover per forza andare dentro e scavare, e la serietà dello scrivere.
Mettere in fila queste voci che scrivono attorno al lavoro, indicare assonanze, non è un atto vano. Anzi, è in qualche modo politico perché rende un’informazione a non tutti nota (a me, per esempio) e la trasforma in un fatto, automaticamente. Non sarà una presa di coscienza ma almeno è qualcosa. L’articolo è ricco di spunti e fa riflettere. Mi viene una domanda: a chi/che serve la verità? C’è qualcuno disposto a rinunciare a qualcosa per guardare in faccia il degrado, oltre il proprio immediato vissuto? Qualcuno c’è di sicuro, ma quanti? O non è forse che tutti sotto sotto prima o poi sperano di poter trovare un piccolo pertugio per entrare nel sogno di plastica, che si chiami Suv, Maldive o passaggio tv è lo stesso? E’ ormai quello, il mondo.
Come sempre il discorso di Christian taglia trasversalmente domande e risposte, e offre nuove interpretazioni. (La forma stessa di questo scritto è in fondo un’esposizione della tesi in esso esposta?) – E’ per questo che mancava – adesso però è qui, nel governo o appoggio esterno cambia poco, mica si tratta di Mastella…;-)
“Utilizzare tutti gli strumenti che si hanno, la documentazione, la propria biografia, la capacità di coinvolgimento emotivo. Evadere dalle categorie merceologiche della scrittura” – sono d’accordo, è peraltro ciò che mi propongo di fare. Esporre anche il proprio sguardo “tra” gli altri, per arrivare – nella disposizione reciproca degli sguardi sui fatti, e dei fatti – a un’interpretazione. Ma io, certo, non parlo da una creazione finzionale, racconto brani di reale. Se “inventassi” storie, probabilmente le tue cose mi suonerebbero diversamente.
Girolamo, via con le chiavi!!!
elena
la vedevo all’inizio della catena sorridere
ogni nuovo frigorifero era un atto d’amore
accarezzavo il pvc i tubi l’aria di plastica
poi l’amore clandestino di fuori nei campi al terminare
di un giro d’autobus extraurbano
e le gelosie e il manifesto ora credo
sta da qualche parte nel centro di genova
o alla sapienza o chi lo sa
e’ che finche sei giovane e giovane
puoi permetterti di leggere moravia a londra
di spiegare spensierato quant’era figa la loren
ai quattro polacchi con cui dividi una camera da otto
sognai elena sdraiato sotto le nuvole sull’erba di hyde park
fra le geometrie degli aerei
di come guardavamo le facce degli operai veccchi e le mamme
dei nostri compagni di scuola
ancora ancora
mi accontento
di angeli che volano in classe turistica
Un testo eccezionalmente noioso ed ondivago, al pari di tutti gli autori citati (esclusi i filosofi, noiosi si, ma non ondivaghi)…
l’esempio Nestlè è il meno azzeccato possibile, le culture antiche non sono facilmente permeabili, nè nelle attitudini sociali nè nelle abitudini alimentari (spero avrai letto della celebre catena anglosassone di bar specializzati in finti caffè, finti cappuccini, finte paste che da noi proprio non riesce ad entrare causa concorrenza troppo agguerrita) qualsiasi apparato mediatico si utilizzi…
Simone Caltabellota?
A quel che mi risulta dove mette mani lui è quasi certo che lo scrittore sullo sfondo sia una testa di paglia …
ma più spesso trattasi di giovane scrittrice .) …
e qui mette caso di citare per estratto il seguente celebre testo gnostico, ritrovato a Casaldiprincipe sotto un cespuglio di Cannabis sativa, testo conosciuto anche da Marx e da Mazzini e da Pancotto, nonchè fondamentale viatico alla comprensione Bagnaschiana e Gelminiana:
Co sta’ pioggia e co’ sto’ vento
chi è che bussa a sto’ convento?
E’ una povera vecchierella che si vuole confessar…
Mandatela via mandatela via
che questa è l’ora dell’Ave MAria…
Co sta’ pioggia e co’ sto vento chi è che bussa a sto’ convento?
E’ una giovane veginella che si vuole confessar…
Lasciatela entrare lasciatela entrare
è questa l’ora di confessare!
“Se tu vuoi l’assoluzione
prendi in mano sto’ cordone!…
“Non son cieca e non son orba
questo è c…o non è corda…”
alla fine avrà ragione l’Eccedenza ….
Ma, Raimo, non dovevi abbandonare la nazione indiana?? Mi pareva di aver letto qualcosa di tuo pugno al riguardo… non è che le dimissioni di Pecoraro Scanio stanno facendo lezione anche fuori dalle esecrabili aule?
P.s. propongo da ora in poi di alludere alle aule parlamentari italiane, almeno su nazione indiana, mediante l’elegante locuzione “le stalle di re Augia”.
Vale et ego.
Bellissimo pezzo, Christian! Lo citerò in una conferenza che devo fare lunedì prossimo. ne pubblico un pezzo sul mio blog, ok? Posso?