Roma, ore 11
di Christian Raimo
Buttiamola là: Roma ore 11 è lo spettacolo teatrale dell’anno. Forse non sarà quello più sconvolgente, né la messa in scena più mirabolante, né la prova d’attore più virtuosistica, però è lo spettacolo che può fare da modello per quello che vuol dire oggi in Italia cercare di metter su un progetto indipendente. Adattato dal libro-inchiesta omonimo di Elio Petri, messo in scena prima in piccoli spazi a Roma, e ora applaudito, strarecensito, e portato in tournee (al Piccolo Eliseo romano fino al 20 gennaio, poi a Napoli, Genova, Pistoia, Cremona, Udine, Milano e Brescia), Roma ore 11 della compagnia Miti Pretese, è lo spettacolo dell’anno perché, nel panorama abbastanza prevedibile (nella sua divisione per target di spettatori) della produzione contemporanea italiana, è suo malgrado un’anomalia, anzi un concentrato di anomalie. Una compagnia tutta femminile, un’autoproduzione, una regia collettiva, l’adattamento ibrido (tra racconto e dramma) a partire un testo contemporaneo disperso, un tema – quello dell’illusione del lavoro e delle morti bianche – difficile da portare in scena senza cadere nella retorica civile, nel ricatto del contenuto. Che il risultato sia uno spettacolo di cartellone e non di nicchia è insomma un esito per niente scontato, ma perseguito con tenacia dalle quattro attrici che l’hanno pensato, costruito, allestito, e curato. Ossia: Alvia Reale, Sandra Toffolati, Mariangeles Torres e Manuela Mandracchia. E proprio con quest’ultima abbiamo parlato della genesi e dell’evoluzione del progetto.
Siamo un gruppo di colleghe che sono anche amiche, e veniamo tutte da percorsi professionali diversi che ci hanno fatto incrociare in varie occasioni. Ma tre, quattro anni fa ci siamo messe in testa di lavorare insieme, a un progetto nostro. Abbiamo cercato allora una drammaturgia che ci piacesse e su cui avesse senso collaborare: un testo per delle attrici. E per un bel po’ non l’abbiamo trovato. I personaggi femminili in cui ci imbattevamo andavano sempre a scavare nella condizione femminile come tema a sé – per cui: madri, mogli, compagne. Rappresentate nella maggior parte dei casi come figure mancanti: mogli tradite, donne addolorate, personaggi ipersensibili. Mentre noi non volevamo parlare di donne per parlare di donne. Per questo abbiamo scartato alla fine anche testi che sulle prime ci convincevano come From Medea di Grazia Verasani, o La pianista di Elfriede Jelinek. Poi da Paola Petri, che fa l’agente teatrale, ci è venuto il suggerimento di un testo di suo marito, Elio Petri, che nel 1951 scrisse questa inchiesta preparatoria alla sceneggiatura del film di Giuseppe De Santis, indagando su un emblematico fatto di cronaca. A un colloquio di lavoro per un posto da segretaria dattilografa si presentarono 150 ragazze e la scala della palazzina di Via Savoia dove si erano concentrate, crollò, travolengendole. Una morì, molte altre restarono in ospedale per giorni.
Ed era quello che cercavate.
Sì, ma non solo per l’attualità evidente del tema, anche qui. Quanto per la scrittura di Petri che è bellissima e che crea dei personaggi recitanti da subito, anche se non si tratta di un testo teatrale. È ovvio che in questa inchiesta si parlasse di donne e se ne parlasse quindi anche per il loro ruolo sociali, madri etc… Ma c’era in questo caso il filtro del lavoro, che ci coinvolgeva anche da altri punti di vista. Perché, per esempio, era un modo per parlare del nostro, di lavoro. Del lavoro delle attrici. Che sono molte di più, numericamente proprio, degli attori, ma che sono relegate spesso a parti di secondo piano. Non è un’eccezione, per dire, che a teatro di vedano spettacoli con soli trenta attori uomini, mentre uno spettacolo con sole donne sembra una mosca bianca. E poi delle donne, in Roma, ore 11, veniva fatto un ritratto a più toni. Questo era il punto: volevamo raccontare e raccontarci come esseri umani, andando anche al di là del discorso di genere, che diventa spesso banalizzante, rivendicativo. Davvero fateci caso, quando intervistano una donna, anche una personalità affermata, a un certo punto c’è sempre la domanda su: ma come ha fatto a conciliare famiglia e carriera? E io mi chiedo, perché a un uomo non viene mai fatta la stessa domanda: non è che il suo lavoro le ha fatto trascurare i figli?
Come avete coordinato il lavoro, dall’adattamento alla messa in scena. Qualcuna si è più occupata del testo, qualcuna più della regia.
Tutto a otto mani. Ognuna ci ha messo la propria sensibilità e la propria competenza. Chi è più concreta, chi è più visionaria. Abbiamo cercato di sfruttare tutti i registri del nostro repertorio attoriale. Quello fraterno, quello ironico, quello dolce. L’assenza di una guida registica autonoma, che non è un deprezzamento per il ruolo figuriamoci, ci ha dovuto però far attingere all’esperienza viva del palcoscenico. Abbiamo giocato appunto a fare quei genere di personaggi che magari un regista non ti affiderebbe mai. In scena facciamo tutto: bambine, vecchie, popolane, borghesi, uomini, lo stesso Elio Petri. Abbiamo cercato di mettere noi stesa alla prova. Fregandocene del casting giusto per quella o quella parte. Che ne so, io magari sono alta per cui sono adatta a quei ruoli fatti così e così…
Roma, ore 11 è un’esperienza di teatro importante, ma è anche uno spettacolo con una forza narrativa precisa. Il racconto del lavoro, che è centrale. Di un’attualità talmente evidente che voi giustamente neanche risottolineate.
All’inizio, quando abbiamo scelto il testo, abbiamo fatto una lettura pubblica a Napoli per verificarne la forza. E abbiamo capito subito che non avevamo a che fare con un testo datato, anzi. Allora abbiamo cercato di non fare l’errore opposto, ossia di non calcare la sua attualità. Non volevamo usare un tono battagliero. A che serve sovrapporre la carica della polizia degli anni ’50 a quelle del G8 di Genova – al quale peraltro sono stata – quando invece c’è un racconto di cinquant’anni fa che ha la forza di imporsi da solo? Per capirci: a un certo punto ci era venuta l’idea di leggere all’inizio di ogni replica il bollettino dei caduti sul lavoro della giornata. Ma poi ci siamo dette: la sincerità dello spettacolo o parla da sé o non parla. Altrimenti stiamo facendo un’altra cosa: propaganda, una cosa di moda, un istant-drama. Il rapporto con la contemporaneità dev’essere fatto a suo modo, attraverso una specificità artistica.
La vostra compagnia si chiama Miti Pretese, che erano quelle che venivano richieste alle aspiranti dattilografe al colloquio che dà il la alla vicenda di Roma, ore 11. È una scelta di stile, una direzione, programmatica?
Abbiamo fatto questo spettacolo facendo una cosa diversa da ciò che avevamo fatto in precedenza E ora vorremmo fare il prossimo spettacolo facendo una cosa diversa da Roma, ore 11. Altrimenti codifichiamo uno stile, o un ambito tematico, ed è inutile. Non c’è una crescita nel nostro percorso d’attrici. Magari nel prossimo spettacolo daremo più spazio alla parte emotiva che a quella riflessiva. Qui entriamo e usciamo dai personaggi, un po’ per gioco, un po’ brechtianamente. Magari invece dovremmo approfondire l’aspetto empatico tra interprete e ruolo.
Fa effetto vedere i pezzi dei cinegiornali di cinquant’anni fa che usate per fare da controcanto al racconto della vicenda essere anche quelli così attuali, congruenti con la cronaca di oggi, così anche esemplificativi. C’è un filmato che parla dello sgombero del campo di baraccati sotto Parioli. È uno spettacolo, ti chiedevo, questo, anche su Roma, anche su un modello sociale?
Certo, noi lo pensiamo molto. Anche se – per i motivi che ti accennavo – non lo diciamo. Nel materiale preparatorio, avevamo accumulato tanto materiale d’inchiesta che avevamo realizzato noi stesse: foto, interviste. Questa roba è servita a noi a trasformare Roma, ore 11 dall’interno, senza appunto la denuncia esplicita. Noi, proprio come gli spettatori, ci mettiamo a guardare quei filmati dell’epoca ogni volta che facciamo quello spettacolo, e c’è un secondo – fateci caso – in cui tutte ci fermiamo, come se avessimo bisogno anche noi, come gli spettatori, di una piccola pausa, in cui usciamo da tutto, dal ruolo, dalla messa in scena, e siamo dei semplici cittadine che prendono coscienza di quello che è il mondo che stiamo vivendo.
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passa anche da Pistoia leggo, ma quando si sa?
a pistoia il 5 febbraio, ore 21, al Manzoni. questo spettacolo ha vinto anche un premio ETI/Olimpici, come miglior spettacolo d’innovazione. il premio degli Olimpici lo danno in tv, su raiuno, condotto da tullio solenghi. sono le premiazioni più veloci della tv. in un’ora, senza interruzioni pubblicitarie, e magari con il taglio del finale perché sennò dura troppo. ah, va in onda tipo alle 23, o alle 24…in settembre/ottobre, non ricordo bene.
comunque, detto questo. vedrò il prossimo martedì di esserci. via.
http://www.horrorblood.com/a_volte_ritornano.jpg
Ho sentito parlar solo bene di questa pièce. Peccato che finora non mi sia riuscito andarci – sta ancora un po’ all’Eliseo? Raimo, dimmi di sì (solo a conferma che ancora si può andare a teatro qui a Roma per vedere questo spettacolo!).
…e film documentario dell’anno, parole sante di ascanio Celestini
effeffe
visto ieri sera. grande spettacolo. grazie (per avermi ricordato, altrimenti anche questo passava, sigh)
[…] un’intervista alle Mitipretese, QUI […]