Avere trent’anni
di Federica D’Amato
Nacqui bizantina in epoca televisiva
d’alto lignaggio in participio d’amore
creatura d’avanzo nell’affamato universo
di sete e bassezze carestia bestiale d’amore
presto divenni eresiarca monumentale
il fuggire delle speranze
i mendicanti tutti ai miei piedi,
costretta a diventare la solita rosa.
*
Con te farei un’altra corsa
saltare in alto così una ruota
che ti fruscia la gonna
azzurra dei giochi la stanza
e tua madre non entra
e tua madre ricorda cosa significa
avere trent’anni?
Non ci faremo domande
loro ne fanno tante
la sera, lingua dopolavoro batte
dove la linea del bicchiere cade
che forse ci amavamo,
quante chiacchiere per un fiore
reciso.
Eppure un fiore resta fiore
una corsa quando lo salta
nel cielo lo salva, ombra che segna
ristoro alto il sole della sete
ma a trent’anni diventa fame
di essere una madre diversa.
*
E ogni morte mi stupiva
perché poteva essere la mia
e ogni addio era peggio di
quel nuotare nel sale
rifiuto che ti strappa la pelle
se non lo copri con un po’ di male.
E poi c’era questo dover crescere
a tutti i costi diventare
imparare a stare soli
ma io volevo dire
non tutti sanno
non tutti possono
qualcuno va tenuto per mano
fino alla fine
meglio va tenuto angelo
dannato creatura triste
qualcuno va tenuto
vicino e curato meglio
di quanto vuoi curare te
o solo una parola gentile
coprilo con un po’ di bene.
*
NOTA DELL’AUTORE
I testi dell’avere trent’anni più che poesie sono dei tentativi di raccontare l’approssimarsi della perdita, l’andarsene dell’innocenza verso una fedeltà più matura alla propria infanzia. Si potrebbe leggere come un poemetto spezzato e delirante, a tratti conscio di un ragionamento formale, a volte ubbidiente al solo infuriare della tragedia, precisione in cui il volto inizia a farsi destino, tappa finale di ogni amore. La catarsi è ritrovarsi vivi, nonostante tutto ancora esili creature in cammino.