Ponti vs muri
(Alberto Giorgio Cassani ha scritto un libro complesso e affascinante – Figure del ponte: Simbolo e architettura, Pendragon, Bologna, 2014 – che sa spaziare, enciclopedico, dalla letteratura alla filosofia, dalla architettura alla storia, etc. Qui ci regala un testo inedito sull’argomento del suo saggio, e noi per questo lo ringraziamo. G.B.)
Simboli e metafore di una figura architettonica
di Alberto Giorgio Cassani
Creare ponti e non alzare muri. Questo è l’aforisma newtoniano 1 – un altro segno dei cambiamenti epocali della Chiesa Cattolica? – lanciato al mondo da papa Francesco. E come sarebbe potuto non essere, venendo dal Ponti-fex Maximus, il costruttore di ponti? La società, invece, sta andando esattamente nella direzione opposta: i muri reali costruiti da Israele nei confronti dei Palestinesi, i muri virtuali che si levano alle frontiere per non far passare i migranti da un paese all’altro, i fondamentalismi di ogni genere che stanno fomentando gli odî fra i popoli. L’archetipo e la metafora del ponte come simbolo del collegare, del lanciarsi di là dall’ostacolo, nella volontà di unire e non dividere sembra sempre più un’immagine retorica e impopolare in questi tempi d’intolleranza, lacerazioni e paure.
Ma il ponte è davvero quella cosa che unisce due sponde opposte creando un legame che supera due polarità? O nel ponte si nascondono altri aspetti, celati nell’immagine apparentemente pacificante e di più scontata evidenza?
Nel 1893, Rudyard Kipling pubblicò un formidabile racconto dal titolo The Bridge-Builders, I costruttori di ponti 2. In quel testo sono contenute tutta la profondità e tutte le aporie che ruotano intorno alla figura di cui stiamo ragionando.
Il ponte, qui, è la rappresentazione della Tecnica dispiegata dell’Occidente che pretende di conquistare il mondo e davanti alla quale niente può resistere: religione, tradizioni, miti, leggende; in una parola, tutto ciò che ha a che fare con il “sacro”. Il rappresentante di questo Abendland è l’ingegnere Findlayson. Inglese, padrone della propria scienza, basa la sua visione del mondo sulla sicurezza dei calcoli matematici. Non ha fatto i conti, però, con il sacro, l’“irrazionale”. Kypling sa bene che le acque sono sacre e che i ponti sono sacrileghi. Certamente non poteva aver letto il meraviglioso libro di Anita Seppilli, di là da venire, dedicato proprio a questo tema: perché il ponte «non solo affonda i suoi piloni nel sottosuolo [come fanno tutte le costruzioni dell’uomo, tutte profananti l’intangibilità del sacro e tutte, perciò, richiedenti un sacrificio compensatorio, NdA], ma anche dissacra la corrente dei fiumi – delle acque, così cariche di valenze sacrali, e già esse stesse in comunicazione con l’oceano infero, col mondo dei morti – le varca, le aggioga, e persino penetra a volte nella profondità del loro alveo» 3 .
È proprio ciò che fa il ponte di Findlayson (erede letterario dei tanti ponti che Isambard Kingdom Brunel costruì in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo): ben ventisette piedritti di mattoni “profanano” le sacre acque del Gange, nel racconto chiamato Madre Gunga, e rappresentato, come animale totemico, dal Coccodrillo.
Findlayson, in questa sua opera creatrice, è come un dio: «con un sospiro di soddisfazione vide che la sua opera era buona» 4, con evidente rimando a Genesi I 10. Kypling, da grande scrittore, ci manda dei segnali inequivocabili: il ponte è «nudo e crudo come il peccato originale» 5, dunque ha commesso un sacrilegio che richiede un’espiazione e una vittima sacrificale. In una notte di tregenda, il sangue è proprio ciò che chiede Madre Gunga all’Assemblea degli dèi del pantheon Indù, riunita in seduta straordinaria. Dopo aver fatto ingrossare talmente le acque che persino il razionalista Fyndlayson si mette a pregare per la salvezza del suo ponte, Madre Gunga chiede infatti giustizia agli dèi suoi sodali per l’oltraggio subito. Krishna, alla fine di un’animata discussione, s’incarica di spiegare a tutti come andranno le cose con l’uomo bianco: «Troppo tardi, ormai. Avreste dovuto ammazzare all’inizio, quando gli uomini venuti di là dal mare non avevano insegnato nulla alla nostra gente. Ora che il mio popolo ha sotto gli occhi il loro operato, la cosa gli dà da pensare. E a tutto pensa meno che ai celesti. Pensa invece al carro di fuoco e alle altre cose che i costruttori di ponti hanno fatto, sicché, quando i vostri preti tendono la mano chiedendo l’elemosina, dà poco e a malincuore. Questo è solo l’inizio» 6.
Kypling non poteva immaginare che, un giorno, una parte del mondo non occidentale avrebbe rifiutato la Tecnica dispiegata – tranne quella della comunicazione mediatica – in nome di una Tradizione altrettanto pervasiva e massimalista, tagliando teste nel folle tentativo di ridisegnare il mondo secondo una lettura settaria del Corano. Kypling, ai suoi tempi, vedeva ancora (con quanto entusiasmo?) la vittoria dell’Occidente sui valori tradizionali del mondo orientale.
Ma Kypling non aveva inventato nulla. Nel testo che è all’origine della cultura occidentale, I persiani di Eschilo, il motivo della sconfitta di Serse contro i Greci è individuato unicamente nel peccato di arroganza (hybris) del Grande Re, come riconosce l’ombra del padre Dario: aver “aggiogato” con catene “da schiavo” il sacro Ellesponto: «E mio figlio, ignorando queste profezie, le ha portate a compimento per giovanile temerarietà [thrásos i.e. hybris]: lui che pensò di trattenere con legami lo scorrere del sacro Ellesponto, la divina corrente del Bosforo, quasi fosse uno schiavo, e tentò di trasformare lo stretto, e chiudendolo in ceppi forgiati col martello creò un’ampia strada per un ampio esercito. Pur essendo mortale gli dèi tutti, e in particolare Posidone, credette di dominare, con mente non retta: come potrebbe non essere una malattia dello spirito questa che si è impossessata di mio figlio?» 7. Il ferro, il metallo, frutto del lavoro “demoniaco” del Fabbro, con cui Serse forgia le catene, si sa, non può venire in alcun modo in contatto col sacro. Ecco perché il ponte Sublicio, l’unico collegamento per secoli tra le due rive del Tevere, era costruito unicamente con travi di legno (sublicæ) e chiodi di bronzo e la sua cura era riservata al Pontifex Maximus. Ma anche tale ponte esigeva sacrifici, di cui è chiaro segno l’antichissimo rituale del 14 (o 15) maggio, ricordato anche da Ovidio ne VI libro dei Fasti, in cui le Vestali gettavano nel fiume ventisette fantocci di giunchi, detti Argèi, con i piedi e le mani legate: un inequivocabile gesto di “sacrificio”, di là dal vero significato, a tutt’oggi discusso dagli storici.
Il ponte non è dunque quella semplice «strada fatta sopra dell’acqua» 8 come lo definisce il pur grande Palladio, o quella linea che mira al suo scopo, con riferimento al Washington Bridge di New York, dell’altrettanto grande Ludwig Mies van der Rohe 9.
È molto di più. Se ne era accorto, alle soglie del XIX secolo, il “rivoluzionario” architetto Claude-Nicolas Ledoux che, in una tavola illustrante il progetto dell’École rurale de Meillant 10, aveva inquadrato quest’ultima attraverso l’arcata di un ponte progettato lì accanto. Un unico grande arco ribassato, vagamente ellittico, simile ad un occhio – diviso da colonne doriche a formare una grande finestra termale – inquadra il paesaggio e l’École. Il ponte di Ledoux sembra l’anticipazione, oltre un secolo prima, della figura (Heidegger scrive propriamente: «das Ding») filosofica del Brücke di cui parlerà Martin Heidegger: il ponte come riunione della Quadratura 11; Cielo, Terra, Divini e Mortali sono qui ricongiunti dal ponte. In verità, nell’immagine di Ledoux non vediamo gli dèi; ma, essi sono presenti nella celebre planche 33 del suo trattato (1804) 12, e, dunque, è lecito presupporli nascosti da qualche parte.
Sono invece presenti le altre tre componenti della Quadratura: Cielo, Terra e Mortali. Il Cielo, in parte inquadrato dall’arco del ponte e in parte sullo sfondo al di sopra di esso, è esaltato dalla presenza di un arcobaleno, ponte celeste esso stesso e simbolo, in molte culture, dell’unione tra Cielo e Terra. L’arco del ponte scavalca il piccolo fiume, ma ben dodici piloni s’infiggono nella sua corrente. Nonostante questo, la Terra non pare essere perturbata dal “sacrilegio”: le acque del ruscello scorrono tranquille e, sullo sfondo, un paesaggio fatto di lievi colline, di arbusti e di verde rende quasi l’immagine di un piccolo idillio, di un locus amœnus. E i Mortali cosa fanno? Utilizzano il ponte in tutte le sue parti: una carrozza lo attraversa, senza notare nulla di ciò che accade sotto il ponte: che alcuni cavalieri portano ad abbeverare i loro cavalli lungo la riva del fiume; che delle donne lavano i panni nella corrente; che un barcaiolo attraversa lentamente il fiume; che, sullo sfondo, ci sono figure di donne con bambini. Il punto di vista ribassato, scelto da Ledoux, non fa altro che enfatizzare questa visione di ciò che accade sotto il ponte (e sappiamo quanta viva vissuta sotto i ponti sfugga ai nostri occhi che i ponti li usiamo solo per attraversarli). In verità c’è un altro personaggio un po’ eccentrico rispetto a questo quadro quasi di genere: è un giovane, fermo sul ponte, apparentemente agitato perché un colpo di vento gli ha fatto volare il cappello a larghe tese. Un unico momento di pathos, all’interno della perfetta Quadratura. Sappiamo che i ponti sono i luoghi prediletti per i suicidi-sacrifici.
Tra Otto e Novecento, la figura del ponte assume la sua piena consistenza “filosofica”, arricchendosi via via di nuove caratteristiche: dalla sua presenza come figura centrale nella filosofia nietzschiana – il ponte come figura di transito: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo – un cavo al di sopra dell’abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione» 13. Senza dimenticare, però, gli “esili ponti” che il filosofo di Röcken utilizza come immagine degli antichi valori che la corrente del fiume travolge e distrugge 14; alla fondamentale riflessione di Georg Simmel, nel mai troppo ricordato saggio Brücke und Tür del 1909, in cui, per la prima volta, accanto alla funzione del collegare appare quella, inscindibile con essa, del separare: «Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» 15; alla già citata visione heideggeriana del ponte come quella cosa che «riunisce la Quadratura», e che crea un «luogo»: «Il luogo – infatti, per il filosofo di Meßkirch – non esiste già prima del ponte. Certo, anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume numerosi spazi (Stellen) che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché il ponte non viene a porsi in un luogo che c’è già, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte» 16.
Ma, a distruggere parzialmente quest’idea così “pacificante” del ponte, aveva pensato nel 1916 un racconto di Kafka intitolato semplicemente Die Brücke: anche qui, all’inizio, il ponte sembra apprestarsi a svolgere il suo compito storico di condurre di là dell’abisso lo sconosciuto che lo attraversa: «Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano» 17. Ma costui infligge inspiegabili torture al ponte con un bastone dalla punta acuminata e il ponte, dimenticando la sua rigidità strutturale, si volta sorpreso per vedere in viso lo sconosciuto, sancendo, in tal modo, la sua fine. Infatti, «una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» 18.
Il ponte Moderno è compreso tra questi quattro momenti: in una complessità di aspetti che include, insieme, la molteplicità delle forme dei ponti, dall’antichità ad oggi. Come non rimanerne “sommersi” ermeneuticamente? Come cercare un filo conduttore in mezzo a tante, apparentemente infinite, figure di ponti? Simmel ce ne ha fornito la prima, decisiva, traccia: un ponte collega ma, al tempo stesso, separa-divide. È necessario proseguire sulle orme del grande filosofo e sociologo berlinese. Il ponte unisce e divide, dunque, ma è anche sospeso – e, in tal caso, snon sacrilego, come afferma l’assistente di Findlayson, l’indigeno Peroo: «A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» 19 –; è isolato e abitato; può crollare, o solo fingere il crollo (come il ponte berniniano di palazzo Barberini a Roma, o la Teufelsbrücke di Friedrich Ludwig Persius a Potsdam (1838) 20; può infine, addirittura, muoversi (come i viadotti di Paul Klee nel loro tentativo di Revolution (1937).
È quanto ho cercato di fare col libro Figure del ponte: Simbolo e architettura. Mantenendo intatta la complessità e singolarità di ciascun ponte, vedere quale aspetto predominasse, attraverso le griglie interpretative sopra ricordate. Scoprendo, naturalmente che uno stesso ponte può unire, ma anche dividere o tentare un (impossibile?) movimento, come il puente de la Mujer a Puerto Madero di Santiago Calatrava, col suo pilone inclinato come un ballerino di tango sulla sua tanguera.
«Allora io capisco […] – scriveva il grande Alberto Savinio – perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» 21.
NOTE- «Men build too many Walls and not enough Bridges»🡅
- Rudyard Kipling, The Bridge-Builders, trad. it. I costruttori di ponti, in Id., I figli dello Zodiaco, A cura di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2008, pp. 159-197🡅
- Anita Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti. Persistenza di simboli e dinamica culturale, Palermo, Sellerio, 1977, p. 241. I corsivi sono nel testo.🡅
- R. Kipling, I costruttori di ponti, cit., p. 161 [testo originale: «and with a sigh of contentment saw that his work was good»].🡅
- Ibid. [testo originale: «raw and ugly as original sin»].🡅
- Ibid., p. 191 [testo originale: «It is too late now. Ye should have slain at the beginning when the men from across the water had taught our folk nothing. Now my people see their work, and go away thinking. They do not think of the Heavenly Ones altogether. They think of the fire-carriage and the other things that the bridge-builders have done, and when your priests thrust forward hands asking alms, they give a little unwillingly. That is the beginning, among one or two, or five or ten – for I, moving among my people, know what is in their hearts»].🡅
- Cfr. Eschilo, I Persiani, vv. 739-751, ed. cons.: Id., Tragedie e frammenti, a cura di Giulia e Moreno Morani, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1987, p. 163.🡅
- Andrea Palladio, I qvattro libri dell’architettura Di Andrea Palladio. Ne’ quali, dopo vn breue trattato de’ cinque ordini, & di quelli auertimenti, che sono piu necessarij nel fabricare; si tratta delle case private, delle Vie, de i Ponti, delle Piazze, de i Xisti, et de’ Tempij, in Venetia, Appresso Dominico de’ Franceschi, 1570, Il terzo libro dell’architettura. Nel qvale si tratta delle Vie, de’ Ponti, delle Piazze, delle Basiliche, e de’ Xisti, cap. IV, p. 11.🡅
- Cfr. Una conversazione con Mies, in Ludwig Mies van der Rohe, Gli scritti e le parole, A cura di Vittorio Pizzigoni, Torino, Einaudi, 2010, p. 266: «Il Washington Bridge, secondo me è un esempio elegante di un edificio moderno. Va direttamente al punto essenziale. Forse permane l’immagine delle sue torri, ma io parlo del principio e non di questo. Andare con questa semplice linea dritta da una parte all’altra del fiume Hudson, una soluzione diretta: questo è quello a cui miro».🡅
- Claude-Nicolas Ledoux, École rurale de Meillant, veduta prospettica, incisione di Piquenot e Ransonnette, da Architecture de C.-N. Ledoux. Collection qui rassemble tout les genres de bâtiments employés dans l’ordre social, Lenoir, Paris, 1847, pl. 288.🡅
- Martin Heidegger, Bauen Wohnen Denken, in Id., Vorträge und Aufsätze, Teil III, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1954, pp. 153-159, trad. it. a cura di Gianni Vattimo, Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 96-108.🡅
- Claude-Nicolas Ledoux, L’architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation, tome premier, à Paris, de l’Imprimerie de H.L. Perronneau, chez l’auteur, rue Neuve d’Orléans, M.D. CCCIV, pl. 33 [testo pp. 104-106].🡅
- Friedrich Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Ein Buch für Alle und Keinen, «Zarathustra’s Vorrede», 4, trad. it. di Mazzino Montinari, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Id., Opere, Milano, Adelphi, 1968, vol. VI, «Prefazione di Zarathustra», § 4, p. 8. [testo originale: «Der Mensch ist ein Seil, geknüpft zwischen Thier und Übermensch, – ein / Seil über einem Abgrunde. / Ein gefährliches Hinüber, ein gefährliches Auf-dem-Wege, ein / gefährliches Zurückblicken, ein gefährliches Schaudern und / Stehenbleiben. Was gross ist am Menschen, das ist, dass er eine Brücke und kein / Zweck ist: was geliebt werden kann am Menschen, das ist, dass er ein / Übergang und ein Untergang ist. / Ich liebe Die, welche nicht zu leben wissen, es sei denn als / Untergehende, denn es sind die Hinübergehenden»].🡅
- Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra…, cit., «Von alten und neuen Tafeln», trad. it.. cit. «Di antiche tavole nuove», pp. 245-246.🡅
- Georg Simmel, Brücke und Tür, in «Der Tag», 15 settembre 1909, ora in Id., Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, im Verein mit Margarete Susman, herausgegeben von Michael Landmann, Stuttgart, Koehler, 1957, trad. it. Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, introduzione e note di Massimo Cacciari, Padova, Liviana, 1970, pp. 1-8: 3, corsivo mio[testo originale: «Indem wir aus der ungestörten Lagerung der natürlichen Dinge zwei herausgreifen, um sie als »getrennt« zu bezeichnen, haben wir sie schon in unserem Bewusstsein aufeinander bezogen, haben diese beiden gemeinsam gegen das Dazwischenliegende abgehoben»].🡅
- M. Heidegger, Costruire abitare pensare, cit., pp. 102-103, corsivo nel testo [testo originale: «Aber nur solches, was selber ein Ort ist, kann eine Stätte einräumen. Der Ort ist nicht schon vor der Brücke vorhanden. Zwar gibt es, bevor die Brücke steht, den Strom entlang viele Stellen, die durch etwas besetzt werden können. Eine unter ihnen ergibt sich als ein Ort und zwar durch die Brücke»].🡅
- Franz Kafka, Die Brücke, 1916, in Id., Ein Landarzt, 1918, trad. it. Il ponte, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di Anita Rho, Milano, Frassinelli, 1935, 19686, pp. 319-321: 321 [testo originale: «Strecke dich, Brücke, setze dich in Stand, geländerloser Balken, halte den dir Anvertrauten. Die Unsicherheit seines Schrittes gleiche unmerklich aus, schwankt er aber, dann gib dich zu erkennen und wie ein Berggott schleudere ihn ans Land»].🡅
- Ibid. [testo originale: «Ohne einzustürzen kann keine einmal errichtete Brücke aufhören, Brücke zu sein»].🡅
- R. Kipling, I costruttori di ponti, cit., p. 166 [testo originale: «I like sus-sus-pen-sheen bridges that fly from bank to bank with one big step, like a gang-plank. Then no water can hurt»].🡅
- Davvero curiosa e paradigmatica la vicenda del ponte: progettato da Persius come finta rovina nello Schlosspark Glienicke di Potsdam, fu restaurato dai nazisti che non potevano concepire un ponte che non fosse perfettamente compiuto e perenne; derestaurato (dimenticandosi però di togliere un pezzetto di parapetto, come da progetto originario) nel dopoguerra; infine crollato in parte (nel pilone centrale) nel 2009. In attesa di restauro, per quanto si può dedurre dalle fonti sul web.🡅
- Ad vocem «Zoografia», in Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 20025, p. 401.🡅
grandissimo testo. grazie Gianni, e un grazie all’autore per averlo condiviso qui
effeffe
ps
lo userò a lezione
Gentilissimo Francesco Forlani, sono io che la ringrazio per il suo cortese apprezzamento. Quello del “ponte” è un grande tema, ed è veramente inesauribile.
Alberto Giorgio Cassani
Ho usato spesso la metafora ponte, specialmente ogni volta che mi è sembrato arduo superare differenze che non consentivano comodi sentieri, ma trovo in questo testo ulteriori interessanti spunti di approfondimento. grazie.
Gentile masafuera,
la bellezza del simbolo è proprio nella sua complessità, non riducibile ad un solo aspetto. Ma non lo sapevo prima di leggere Georg Simmel che è uno straordinario autore, conosciuto sì, ma non abbastanza. Gli hanno fatto la guerra per non fargli avere la cattedra all’Università, ma lui, per fortuna, ha potuto mantenersi in altro modo, lasciandoci alcuni dei testi più belli di sociologia-filosofica (se così si può dire), come i saggi su L’ansa del vaso, sulla Cornice, sulla Moda, sulla Metafisica della morte, sulla Metropoli e la vita spirituale e altro ancora.
Grazie a lei
Alberto Giorgio Cassani
che meraviglia, mi fa molto piacere tra l’altro vedere citato un bellissimo libro di Anita Seppilli, accanto a quell’altro suo “Alla ricerca del senso perduto”: una straordinaria studiosa purtroppo scarsamente frequentata in questo paese. E complimenti per tutto il pezzo.
Ha ragione,
Anita Seppilli è stata una grande studiosa troppo poco ricordata. Grazie per la sua gentilezza. Leggerò “Alla ricerca del senso perduto”.
Alberto Giorgio Cassani
E’ buffo vedere come dopo decenni di attività in un certo tipo di ambiente culturale si sviluppi una certo fiuto per le citazioni apocrife: Newton avrebbe detto «Men build too many Walls and not enough Bridges»? Ma soprattutto Newton chi? Isaac Newton o il reverendo Joseph Fort Newton (1876-1950)?
Gentile Anna DI Rufo,
è sempre giusto riconoscere i propri errori. L’unico modo per verificare se il vero autore è Joseph Fort Newton è cercare se nelle sue opere massoniche esiste questa citazione. Ho provato con Google Libri a verificare, ma per il momento non ho trovato corrispondenze. Il problema è che non tutti i suoi libri sono digitalizzati da Google. Dunque, per il momento, a mio avviso, non resta che sospendere il giudizio, in attesa di una prova indiscutibile. Oppure, se lei ha trovato il passo, me lo dica gentilmente ed io sarò ben lieto di correggere il mio errore.
Grazie davvero
Alberto Giorgio Cassani
Gentilissimo Cassani,
Il fatto è che non posso fare a meno di notare che, mentre le altre note hanno ricchi riferimenti bibliografici, la citazione di Newton è riportata nuda e cruda. Lei da dove l’ha presa?
Nulla di personale, ma, vede, nel corso degli anni mi sono fatta un ritratto abbastanza accurata dell’intellettuale italiano medio. Tra le caratteristiche ricorrenti degli scritti ho notato che:
1. Le citazioni in forma di slogan senza riferimento alla fonte originale sono di frequente apocrife.
2. I nomi propri stranieri sono spesso scritti male. Ad esempio, Rudyard Kipling nel suo testo viene scritto due volte su tre senza “d” finale, Glienicke viene scritto senza “c”.
3. Le citazioni in lingua straniera contengono spesso errori. Alcuni di questi sono semplici errori di battitura che il correttore automatico non coglie (Ad esempio in «Vorträge und Aufsätze» viene a mancare una “d”), altri richiedono più sforzo, come mettere un’umlaut su “zur” e “Kunst” (come lei ha fatto nel titolo della raccolta di saggi di Simmel) – per mettere un’umlaut con una tastiera italiana bisogna mettercisi d’impegno.
4. Le date sono spesso sbagliate. Prendo la prima data che vedo nel suo testo: The Bridge-Builders è stato pubblicato nel 1893 (nel numero di Natale dell “Illustrated London News”, successivamente inserito nella raccolta “The Day’s Work” del 1898) e non nel 1885.
Gentile Anna Di Rufo,
accidenti, quanti errori. L’ho proprio scritto di fretta senza riguardare il tutto. Grazie della correzione di bozze, che di solito gli autori su se stessi non sanno fare. Vedrò di chiedere a Gianni di intervenire, perché così, effettivamente, l’articolo è un po’ sciatto. Per la data di The Bridge Builders mi sono fidato di quanto era scritto nel libro consultato. Evidentemente non bisogna mai fidarsi.
P.S. Volevo rassicurare che ilmio libro non ha tutti questi errori, anche se nessun libro ne è privo.
Ancora grazie per l’attentissima lettura.
Alberto Giorgio Cassani
Non vorrei essere risultata troppo polemica. Non è che io mi diverta a far notare gli errori, ma quello che genuinamente mi interessa è come gli errori nascono.
Ad esempio, io ho scritto “un’umlaut” come se umlaut fosse femminile. E’ sbagliato: umlaut è maschile in italiano (e Umlaut è maschine anche in tedesco, se per questo). Come mai è diventata femminile nel mio commento di sopra? Probabilmente perché stavo pensando a dieresi (che in italiano viene indicata coi due puntini sopra la vocale) o a metafonesi (l’effetto di mutamento vocalico).
Perciò, ripeto, quello che mi interessa è: da dove viene la presunta citazione di Newton?
Mi creda, non mi è apparsa polemica.
A me interesserebbe moltissimo scoprire la fonte certa della frase e spero che qualcuno, adesso, sia invogliato a farlo. Io, per parte mia, ci proverò senz’altro. Sperando che non sia una traduzione inglese da una frase in latino di Newton. Allora la ricerca sarebbe effettivamente un po’ complicata.
A risentirci per novità e cordiali saluti
Alberto Giorgio Cassani
Sono io che chiedo scusa per aver pubblicato il pezzo senza aver fatto la corretta revisione delle bozze. Ero così preso nella selezione e pubblicazione dell’iconografia che non ho notato i refusi. D’altronde non è il mio mestiere, e si vede. :-)
Sulla citazione: sì, è di Joseph Fort Newton e si trova a pagina 52 di “The One Great Church: Adventures of Faith”, pubblicato a New York da Macmillan, nel 1948. In realtà è una perifrasi. L’originale diceva qualcosa come (scusate ma anche come traduttore sono quello che sono): (parlando di persone inibite dalla paura, incapaci d’essere felici) “…come l’uomo della parabola dei talenti, erigendo muri attorno a sé, invece di costruire ponti nella vita degli altri”, etc. (“Because they are inhibited by fear, like the man in the Parable of the Talents, erecting walls around themselves instead of building bridges into the lives of others”) Curiosità: in rete, in una citazione “affidabile” ho trovato “inhabited” al posto di “inhibited”. in fondo il senso resterebbe simile se non addirittura più “poetico”.
Pare che l’errore di attribuzione sia colpa del premio nobel Dominique Pire che nella sua Nobel Lecture, l’11 dicembre 1958, attribuiva a Newton (sì, ma quale?) la citazione inesatta.
Insomma, se sbagliano persino i premi Nobel lo possono anche fare gli intellettuali medi italiani senza che questo vada a detrimento della qualità del discorso.
La filologia è cosa seria e certi “slittamenti” raccontano molto del periodo e della cultura di un posto, Anna di Rufo ha ragione. Ridiamo tutti degli “spagetti ai zuchini” che ti tocca leggere in molti menù stranieri (persino di ristoranti stellati). Ma alla fine, se li si mangia, quello che per noi conta è che siano cucinati bene. (giusto ieri mia figlia, 15 anni, in una pizzeria chic del centro, a due passi dal Duomo, ha letto “Pizza da sporto”, inorridendo. Abbiamo fatto notare, con tutto il tatto, l’errore. Dopo aver mangiato la pizza, che era buona).
Ché in fondo, per quanto apocrifa, e lo dico senza polemica alcuna, che la frase l’abbia detta Newton 1, Newton 2 o direttamente inventata Papa Francesco, per quanto filologicamente inesatto, inficia in modo determinante il discorso portato avanti da Cassani?
Peace and Love, G.
E’ presumibile che Dominique Pire, uomo di chiesa negli anni 50, sapesse quello che faceva riferendosi a Joseph Fort Newton. La confusione con il Newton maggiore è quasi sicuramente successiva, da parte di qualcuno che non era a conoscenza né dell’esistenza di Joseph né della biografia di Isaac, il quale era sicuramente più propenso a costruire muri e mettere paletti tra sé e gli altri che a costruire ponti.
Voglio dire, se in un numero del Corriere della Sera degli anni ’60 vedo attribuito il motto «Il Bourbon deve essere doppio altrimenti non è buono» a Manzoni, dovrebbe essermi chiaro che non si può trattare di Don Lisander anche qualora non mi ricordassi di Carletto — per inciso, si tratta di una riformulazione di un frammento di dialogo da uno dei romanzi di quest’ultimo.
A prescindere, quello che a me interessa è come le leggende urbane si propaghino nell’ambiente intellettuale italiano, e se mi limito a quello italiano e al suo abitante tipico, l’italiano intellettuale medio, è semplicemente perché questi sono ciò che conosco.
E’ per questo che mi sarebbe interessato sapere da Cassani lui da dove l’aveva copiata la citazione.
Quanto poi la confusione di attribuzione possa influire sul resto del discorso ognuno avrà le sue idee: nel mio caso, devo ammettere, non ha alterato di molto il giudizio.