Non vorrei essere nei suoi panni
(A gentile richiesta, continuano gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi. Spassoso e imperdibile l’incontro di questa settimana. G.B.)
di Alberto Tonti
Alla Facoltà di Architettura, dove sono iscritto da tre anni, già si sente odore di ‘68. Ho deciso con convinzione da che parte stare e, nel frattempo, giusto per tirar su due lire in più rispetto al vaglia mensile che arriva da mio padre, sono sempre alla ricerca di qualche lavoretto.
Poi, improvvisamente, arriva la svolta: vengo tirato dentro una fantastica avventura editoriale da una coppia davvero eccentrica.
Lei è Donatella Foresio, fa la giornalista per la Rizzoli. E’ alta, magra, molto bella, molto chic, fuma una sigaretta dopo l’altra, ha una voce bassa, roca, sensuale. Lui è John Cowan, affascinante e geniale fotografo inglese. Ha fatto fortuna lavorando soprattutto per Vogue, ha prestato a Michelangelo Antonioni il suo studio per girare Blow Up, beve di tutto e in continuazione tanto che il suo assistente lo segue ovunque con un carrello sovraccarico di attrezzi per fotografare e per lo meno un paio di cassette di birre.
Si sono innamorati non so quando, né come, e hanno deciso di fondare a Milano un mensile speciale (che sa Dio perché hanno chiamato SENTA) fatto di foto rigorosamente in bianco e nero e di articoli molto sofisticati. Le foto arrivano gratis dagli amici di John, fra i quali un simpatico ragazzone che si chiama Oliviero Toscani, e gli articoli arrivano gratis dagli amici giornalisti di Donatella.
Tutti i soldi che servono vengono usati per la redazione (che poi sono io) e, soprattutto, per fotolito, composizione, stampa su carta di altissima qualità e distribuzione. Ci lavoro mezza giornata al giorno e, oltre ad essere ben pagato, mi diverto un sacco. La pacchia dura circa tre mesi perché, prima dell’uscita del quarto numero, i conti non tornano, i soldi stanno per finire e servono finanziamenti per tirare avanti.
John dice a Donatella che non ci sono problemi, ci pensa lui: quelli di Vogue America gli hanno offerto una serie di servizi fotografici sulle Ande e nel giro di quindici, venti giorni al massimo, tornerà pieno di soldi e si andrà avanti. Nel frattempo lavoriamo alacremente per impostare il quarto numero: si sa, quando la prospettiva è rosea si produce molto meglio.
Passano i quindici giorni annunciati, passano i “venti al massimo”, passa un mese intero ma di lui non si hanno notizie: nessuna telefonata, nessuna lettera, nemmeno una cartolina. Donatella inizia a preoccuparsi, tenta in tutti i modi di contattarlo ma non ci riesce, solo dopo altre due settimane scopre che John è stato colto dal famoso colpo di fulmine delle Ande e si è sposato con una fotomodella americana. Così: da un giorno all’altro. Scopre anche che non ha nessuna intenzione di tornare, che non vedremo mai più il becco di un quattrino, che SENTA ha solo debiti da pagare e che, quindi, l’avventura finisce lì.
Ci resto molto male, non tanto perché sono di nuovo senza lavoro ma perché la rivista è fatta molto bene e le foto sono straordinarie.
Donatella, oltre a doversi inventare qualcosa per pagare i debiti, è talmente gentile da procurarmi subito una nuova occasione.
“Ti ho fissato per domani un appuntamento con un tizio che pubblica una rivista di settore che si occupa di edilizia, sta cercando collaboratori e ho pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere qualche articolo di architettura”.
Da un lato resto colpito dalla rapidità con cui ha risolto il mio problema, soprattutto adesso che lei ne ha molti più di me e, dall’altro, una fitta mi attraversa lo stomaco perché mi rendo conto che probabilmente non la rivedrò mai più, che dopo i mesi passati insieme mi sono preso una cotta per lei e che quell’ubriacone casinista e traditore di Cowan non se la meritava proprio.
Al piano terra di un palazzaccio anni cinquanta, sulla porta d’ingresso c’è una targa enorme con su scritto: Cinque Mattoni. Quando l’editore (si fa per dire) mi riceve nel suo studio mi rendo conto di essere passato dalle stelle alle stalle. Mi spiega che il suo mensile si occupa a 360 gradi di architettura ed edilizia di alta qualità, che avrebbe voluto chiamarlo Quattro Mattoni ma la famiglia Mazzocchi, che pubblica Quattroruote e Domus, purtroppo per lui, aveva già depositato tutti i titoli di testate col numero quattro davanti: tipo Quattro Zampe, Quattro Assi, Quattro Lire, Quattro Palle e, naturalmente, Quattro Mattoni. Lo guardo con tristezza e, mosso da finta comprensione, tanto per arruffianarmelo un po’, riesco in un sospiro ad ammettere che è davvero un peccato.
“La signora Foresio mi ha parlato molto bene di lei e allora ho deciso di metterla subito alla prova. Abbiamo la grande opportunità di presentare ai nostri lettori un nuovo complesso residenziale alle porte di Milano e vorrei che se ne occupasse lei. Se è d’accordo le fisserei subito un appuntamento col dottor Silvio Berlusconi, un imprenditore coi fiocchi alla sua prima esperienza in questo campo ma già avviato sulla strada giusta. Personalmente lo ritengo un genio. Ma giudicherà lei stesso…”
Dopo un paio di giorni, a metà pomeriggio, mi presento puntuale negli uffici della Edilnord in piazzale Cadorna. Una segretaria alla moda, con tanto di minigonna, come dai dettami di Mary Quant, mi fa accomodare in una saletta e, dopo un paio di minuti, mi introduce nello studio del capo.
Berlusconi è un giovane ometto fin troppo elegante per i miei gusti, ostenta un sorriso a trentadue denti, forse qualcuno di più, ha i capelli imbrillantinati Linetti o Tricofilina, porta le basette lunghe a coprire le mandibole e stringendomi la mano vigorosamente, dà la sensazione di sprizzare energia e sicurezza da tutti i pori.
“Si accomodi. Lei è molto giovane, oltre a scrivere, cosa fa di bello nella vita?”
“Sono iscritto ad Architettura, frequento il terzo anno e…”
“Ma allora forse conosce mio fratello Paolo. E’ di là, sta lavorando al tecnigrafo, venga…”
Lo seguo perplesso, anche perché il nome non mi dice nulla. Ma quando spalanca la porta e me lo indica, dopo aver accennato entrambi un ciao svogliato, capisco di chi si tratta. In tutte le scuole è sempre esistito ed esisterà il “ciccione della classe”, così come lo “scemo della classe”. Lui è magro, e in quel momento mi si stampa sul viso un’espressione inconfondibile, non faccio in tempo a nasconderla che il dottore, richiudendo la porta, mi dice soltanto:
“Guardi, però, che è un bravo ragazzo!”
Imbarazzato per la velocità con cui ha colto il mio pensiero occulto, annuisco senza tentare neppure di giustificarmi e lo seguo di nuovo nel suo studio.
Mentre non vedo l’ora di uscire da quell’ufficio, sia per la gaffe, sia per l’atmosfera che non mi si addice proprio, il dottore tira fuori le planimetrie, mi spiega il progetto nelle linee generali e mi propone di recarci assieme a Brugherio, dove sorge il complesso e dove, dal vivo, potrò meglio rendermi conto “della validità dell’opera”.
“Lei mi scuserà ma con gli impegni già presi, l’unica possibilità che ho di accompagnarla è domenica mattina. Le andrebbe bene alle dieci?”
“Benissimo”
“Se mi dà il suo indirizzo passo a prenderla”
“Perfetto: via Teodosio 9. A domenica allora…”
Mi alzo dalla sedia, lo saluto e appena fuori di lì mi metto a ridere come un cretino e, prima che i passanti mi prendano per pazzo, m’infilo velocemente in metropolitana.
Domenica mattina alle dieci in punto il citofono si mette a gracchiare.
“C’è un signore che t’aspetta, brutta bestia!”
E’ da quando abito lì che la portinaia usa sempre la stessa espressione nei miei riguardi. Non ho mai capito bene perché, anche se ho il forte dubbio che sia scaturito dall’andirivieni di ragazze sempre diverse che mi vengono a trovare. Sta di fatto che per ogni tipo di comunicazione la solfa è sempre la stessa: “C’è posta in casella, brutta bestia!”, “Stanotte quelli di sotto si sono lamentati, brutta bestia!”, “Quando torni tardi non sbattere il cancello, brutta bestia!”, “Sei pallido che fai schifo, brutta bestia!” e così via.
Il dottor Berlusconi, seduto nella sua BMW, mi saluta col solito sorriso e la solita stretta di mano. Mi spiega che incontreremo l’architetto progettista e lungo la strada mi racconta un paio di barzellette neanche tanto male. Ci mettiamo poco ad arrivare sul posto, posteggiamo davanti a un prefabbricato basso adibito ad ufficio, entriamo ma l’architetto non c’è.
“E’ a messa” ci fa sapere il suo braccio destro “sarà qui fra una mezz’ora”.
Andiamo bene, penso. Ma visti i precedenti, stavolta evito di mostrare il mio disappunto pre-sessantottino.
“Non c’è problema! Se intanto può mostrarmi qualche pianta e qualche prospetto, comincio a prendere appunti”
Man mano che prendo coscienza e conoscenza del progetto mi rendo conto di trovarmi di fronte a un grosso quartiere ghetto, isolato da tutto, privo di fascino e, soprattutto, di infrastrutture di servizio, ancora indietro coi lavori e, comunque, lontano mille miglia da tutto ciò che mi hanno insegnato negli anni durante i quali ho seguito diligentemente i corsi che contano. Insomma, un disastro. L’impressione avuta sulla carta peggiora quando con il pio architetto ce ne andiamo in giro per il complesso, ma avendo imparato la lezione nulla traspare dal mio volto, che resta attento ed interessato alle spiegazioni, alle puntualizzazioni, alla evidente volontà di “vendermi” un prodotto per quello che nella realtà non è: un piccolo capolavoro dell’architettura moderna, un’oasi felice immersa nel verde, dove vivere serenamente con la propria famiglia e la domenica andare a messa.
Appena tornato a casa mi metto subito a scrivere l’articolo tentando di stare il più possibile sulle generali, tralasciando completamente la mia opinione, giusto per non farne carne da macello. Sto, quindi, attento a soppesare le parole e mi astengo da un vero e proprio giudizio. Riempio un paio di cartelle di aria fritta sperando di essere riuscito ad accontentare sia il magnifico imprenditore che il grande editore. Ma sbaglio di grosso perché quando consegno il pezzo al padre-padrone di Cinque Mattoni, dopo averlo letto scuote la testa, mi dice che non va bene, che ci sono troppe riserve nei riguardi dell’opera, che non ho colto lo spirito con cui questi articoli vanno scritti, che il dottor Berlusconi investe un sacco di pubblicità sulla rivista, che merita un altro tipo di trattamento.
“Insomma, forse è meglio che ci rimetta le mani io stesso. Per carità è scritto bene ma, siccome è la prima volta, glielo aggiusto come si deve, così in futuro saprà regolarsi di conseguenza. L’articolo resta naturalmente a sua firma, anche perché vedrà che basta poco per farlo diventare perfetto. Le farò sapere.”
Riprendo la mia solita routine convinto che tutto sia finito lì ma dopo un paio di giorni mi arriva una telefonata.
“Salve carissimo. Buone notizie. Il dottor Berlusconi ha letto l’articolo e ne è entusiasta, tanto che mi ha chiesto di poterla incontrare ancora. Le va bene domani alle dieci di nuovo alla Edilnord?”
“Dovrò saltare una lezione, ma va bene…”
“Ne vale la pena, mi dia retta. Allora mi faccia sapere come è andata e passi da me quando vuole così le pago l’articolo e ci mettiamo d’accordo per il prossimo. Addio caro.”
Nonostante la consapevolezza di dover incontrare qualcuno che è convinto di parlare con l’autore dell’articolo, quando non è assolutamente così, la mattina alle dieci in punto la solita segretaria, un filo più scosciata e decisamente più sorridente, mi fa accomodare direttamente nello studio del dottore. Accolto da un sorriso smagliante, mi siedo con nonchalance nel tentativo di nascondere il peso del forte sentimento di colpa.
“L’articolo è perfetto!”
Ti credo, penso dentro di me, l’ha scritto quel lecca culo dell’editore, mica io.
“Ha colto in pieno lo spirito del complesso di Brugherio. Scrive su altre riviste?”
“Scrivevo su un mensile ma ha chiuso…”
“Che mensile?”
“SENTA, una rivista di fotografia e…”
Lo vedo illuminarsi in volto, aprire un cassetto della scrivania e tirar fuori gli unici tre numeri di SENTA pubblicati.
“Complimenti, davvero! Questa è la più bella rivista che mi sia capitato di avere fra le mani: foto stupende, articoli scritti bene, impaginazione di classe, bella carta…un vero peccato che abbia chiuso….”
Sbalordito più che sorpreso riesco solo a biascicare:
“Purtroppo sono finiti i soldi. E’ una storia lunga…”
“Caspita, se ci fossimo conosciuti prima…magari…sa l’editoria è uno dei miei pallini, perché l’altra volta non ho avuto tempo di dirglielo ma ho grandi progetti. Perché, terminato Brugherio, costruirò Milano 2 e dopo Milano 3 ma, poi, ho intenzione di diventare editore, senza dimenticare l’etere, naturalmente, perché come lei m’insegna l’etere è il futuro…”
E’ a questo punto che, dopo la sparata di un paio di Milano nuove di zecca, alla parola etere (che al momento mi rimanda con la mente all’assenzio o a qualche altro tipo di sostanza stupefacente) comincio a dubitare delle facoltà mentali di chi mi sta davanti, però mi sforzo di annuire in continuazione e come si fa con i visionari continuo a sorridere pervaso da un’espressione decisamente ebete.
“Quindi, come vede, gente come lei mi sarebbe molto utile nel prossimo futuro. Per esempio potrebbe cominciare ad occuparsi di tutti i testi delle brochure, che ne dice?”
“Eccome no! Guardi appena finiti gli esami vado via un mese per le vacanze, ma al mio ritorno la contatto senz’altro.”
Appena fuori di lì, mentre tiro un lungo sospiro di sollievo, il mio proverbiale fiuto per gli affari mi porta ad avere un’unica certezza: ho bisogno di trovarmi un altro lavoro in fretta perché non ho nessuna intenzione di avere più a che fare né con l’editore di Cinque Mattoni, né tanto meno col dottor Silvio Berlusconi che evidentemente dà già i numeri, pur non avendo superato neppure i trent’anni di vita. Poveretto, non vorrei essere nei suoi panni.
stupendo!
Molto bello, una storia curiosa raccontata da un ottimo narratore!
Ne vorrei altre
Si, interessante!