Zeno iper-personaggio e l’esperienza moderna

di Giovanni Palmieri

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Nei giorni scorsi è uscito in libreria Svevo, Zeno e oltre. Saggi, ed.G.Pozzi, Ravenna di Giovanni Palmieri, testo che raccoglie gran parte della produzione sveviana di questo studioso. Presento qui  a titolo d’anticipazione alcune pagine (265-270), g.m.

 

Fingere di scrivere di sé per il tramite di un personaggio che a sua volta sembra scrivere la propria storia è forse qualcosa di più di una pur geniale struttura narrativa. È forse un’intera poetica le cui articolazioni essenziali potrebbero essere così schematizzate: Schmitz inventa l’eteronimo Svevo; Svevo, a sua volta inventa il personaggio Zeno la cui “autobiografia” sembra ricalcare in parte quella del suo autore, cioè Svevo (e non Schmitz). Tuttavia, non solo Schmitz non coincide con Svevo, non solo Svevo non coincide con Zeno ma neanche Zeno coincide con se stesso dato che – come ben sappiamo – la sua è un’autobiografia reticente e freudianamente mendace.

Andando ora a ritroso nell’opera sveviana possiamo scorgere le tracce o meglio gli embrioni generativi di questa complessa e raffinata struttura. In Una vita – prima ancora di tentare di scrivere un romanzo a quattro mani con Annetta che dovrebbe raccontare “quasi” la loro storia d’amore – Alfonso aveva cominciato a stendere un velleitario trattato di etica dal titolo L’idea morale nel mondo moderno.

In Senilità, Emilio Brentani cerca due volte di scrivere di sé, della propria storia con Angiolina e non ci riesce…

[…]

Anche dopo la Coscienza i testi sveviani, in toto o anche solo parzialmente, risulteranno spesso scritti metatestualmente da personaggi narrati o da personaggi narratori come il vecchione nell’abbozzato quarto romanzo. Anche nella Novella del buon vecchio, il protagonista tenta, senza riuscirvi, di scrivere una conferenza “morale” sui suoi rapporti con la bella fanciulla e, in seguito, un vero e proprio trattato sui rapporti che dovrebbero intercorrere tra i giovani e i vecchi.

Attenzione, però: il vecchione non è più Zeno ma un falso Zeno, uno pseudo Zeno. Il lettore incappa così in un’altra identificazione fuorviante: se Schmitz è diverso da Svevo e Svevo è diverso da Zeno, anche il vecchione è diverso da Zeno. Non ci sono dunque «continuazioni» ma biforcazioni d’uno stesso ramo, biforcazioni cioè d’uno stesso personaggio. Il fatto che sia Svevo a parlare nelle lettere di «continuazione di Zeno» è depistante ma si spiega per due ragioni: da una parte il nuovo Svevo si attacca al carro vincente di Zeno e dall’altra non fa che proseguire, complicandolo, il gioco di identificazioni fuorvianti che aveva inventato scrivendo la Coscienza. L’idea era forse quella di creare una specie di ciclo narrativo. Ma si tratta di finte continuazioni, o meglio di continuazioni divergenti sin dalla loro origine. Zeno, infatti, in quanto vecchione, diventa lettore di se stesso, cioè lettore della Coscienza. Sì, Zeno deve rileggersi perché ha dimenticato molta parte della sua vita ma rileggendosi si reinterpreta e davvero non coincide più con il primo Zeno. Egli non è più lo stesso uomo. Eppoi manca il tempo ultimo al vecchione, gli manca il futuro. Insomma tra i due Zeni c’è uno iato, una frattura.

Il gioco delle identificazioni fuorvianti diventa così a quattro e non più a tre perché Zeno si sdoppia nel vecchione.

[…]

 

Insomma: il rapporto cruciale di Schmitz con il proprio scrivere è stato

fatto rientrare nella pagina (abreagito) in forme “poetiche” particolari e del tutto originali. Zeno non è dunque – come pure è stato scritto – il fratello maggiore di Emilio e di Alfonso. Credo, al contrario, che sia esistito un solo personaggio, un iper-personaggio se vogliamo, che Svevo ha costruito pazientemente per tutta la vita e che si è sviluppato ontogeneticamente dall’ “infanzia” di Alfonso ed Emilio sino a giungere alla maturità di Zeno per finire con la vecchiaia nel vecchione. Insomma,  Zeno personaggio ha assorbito in sé, assimilandoli, tutti i protagonisti sveviani precedenti. L’evoluzione di questi ultimi mi pare sia andata nella direzione di un riscatto: se Alfonso ed Emilio erano dei letterati falliti e pericolosamente inadatti alla realtà della vita, Zeno, pur inetto ma solo nel senso rilkiano di “uomo senza qualità”, da scrittore per caso è riuscito a diventare un ottimo narratore, un abile speculatore e infine un uomo “non malato”. Tutto ciò grazie ad un rovesciamento della sua primitiva debolezza e della sua (inesistente) malattia in uno straordinario punto di forza: la consapevolezza, o meglio la conquistata coscienza, che i sani (il suocero, Guido ecc.) non sono meno “malati” dei cosiddetti “malati” e che solo questi ultimi possono capire qualche cosa della vita. Non “vivendo”, infatti, essi possono riflettere sulla vita (ecco l’intervento della psicoanalisi) e infine possono o meglio devono scrivere. Così riflettere e scrivere hanno finito in Zeno per identificarsi.

[…]

Dalla progressiva identificazione sveviana tra riflessione e scrittura è così scaturita una poetica generale in cui la vita narrata del personaggio narratore e quella degli altri personaggi si è intrecciata indirimibilmente con una descrizione-riflessione analitica sulle loro azioni. Svevo non riflette tanto sulla propria narrazione (semmai questo lo farà solo Zeno), ma costringe i personaggi a riflettere costantemente e spesso dubitativamente sul senso del loro agire nel tempo. Questo è il vero collante che unifica tutta la letteratura di Svevo, includendo l’attività epistolare, la critica, gli appunti, le pagine di diario, gli abbozzi e la scrittura teatrale.

La riflessione sulle azioni comporta, però, la presupposizione logica di un immediato passato di tali azioni, anche quando queste sono espresse al presente. Così l’illusione affabulatoria della narrativa tradizione è del tutto abolita. Svevo narra infatti sempre un commento alla vita (di tutti) perché la vita per lui non ha senso al di fuori di una sua immediata descrizione. Una descrizione però analitica e direi fenomenologica.

La forma di questa costante riflessione critica (morale, psicoanalitica, filosofica, sociologica, pedagogica, fisiologica, politica ecc.) che non interrompe la narrazione ma la segue determinandola, è costituita in molti casi dalla scrittura del personaggio. È questo ciò che fa scattare il processo delle false identificazioni autobiografiche. Può trattarsi della scrittura quasi dell’intero testo (come nella Coscienza o nello Specifico del dottor Menghi) oppure di brevi frammenti metatestuali e non tradizionalmente metanarrativi, dato che interviene esplicitamente il verbo “scrivere”.

In altri casi in cui il narratore o nessun altro personaggio scriva, tale riflessione è espressa nel testo sotto forma di pensiero del narratore. È un pensiero che non è qualificato come scritto ma è come se lo fosse. È un soliloquio del narratore a partire dall’atto presupposto della scrittura. È il caso di Senilità, ad esempio, dove la voce narrativa, che formalmente risulta in terza persona, anche quando non ricorre allo stile indiretto libero, assume spesso i pensieri o il punto di vista del suo personaggio.

Insomma, nei testi sveviani non si dà vita o vissuti senza il loro ricordo e sono solo i ricordi e le riflessioni che li accompagnano costantemente a rivelare la vera vita e le azioni dei personaggi. Il presente a Svevo non interessa se non come rivelatore del passato o preannunciatore del futuro. Ma non è tutto: alla riflessione critica sugli eventi dei personaggi o dello stesso narratore si accompagna spesso anche una metariflessione cioè una riflessione teorica sul senso del processo riflessivo in sé e in particolare su quello imposto dal tempo.

Nei testi narrativi di Svevo, soprattutto dopo la Coscienza, non vi sono quasi mai azioni pure, scevre da aloni commentativi e interpretativi riferibili alla voce narrativa (personale o impersonale). L’esemplarità dell’azione narrata, cara ai naturalisti, non basta più a Svevo o addirittura non esiste del tutto.

 

Ciò è dovuto al fatto che questo autore e i suoi eroi, a partire da una città paradigmatica come Trieste, registrano e vivono in modi diversi il sentimento dell’espropriazione dell’esperienza nel mondo moderno della civiltà delle merci. Nella società del tardo Ottocento, infatti, l’uniformità della vita nella società di massa, l’accelerazione dei ritmi di produzione e dei ritmi sociali, il declino morale delle autorità globali (Dio, la Chiesa, l’Imperatore), la tecnologia dei trasporti, l’avanzamento delle scienze ecc. avevano contribuito a sminuire il valore dell’esperienza vissuta. La merce stessa, non essendo più solo il prodotto necessario al consumo ma anche il risultato di un valore di scambio, aveva imposto di fatto una distanza tra l’uomo e l’uso diretto dei suoi stessi manufatti. Ciò ha finito per determinare una sorta di singolare sostituzione: ad un tipo di esperienza non più esperibile, che si può solo avere per accumulo e non fare in direzione d’una maturità e d’una crescita individuale (avrebbe detto Kant) è stato sostituito lo sguardo introspettivo del soggetto su se stesso, l’inquisizione, il “sospetto” niciano e la riflessione analitica. Si pensi ad esempio alla Novella del buon vecchio… dove il protagonista vive un’esperienza che capisce solo in parte e alla quale non sa e forse non può dare alcun senso, neanche teorico.

Insomma la carta geografica ha sostituito il territorio.

Si pensi in tal senso all’Ulrich di Musil. Io vedrei, pertanto, l’inetto sveviano non come un incapace ma piuttosto come un’inattuale niciano che tende però al riscatto. Il sentimento di eccentricità degli eroi di Svevo rispetto al conformismo ipocrita della struttura sociale è stato inizialmente incarnato nella figura dell’artista. È infatti questi che, non ancora sufficientemente alienato, può riflettere e analizzare meglio di altri la crisi moderna dell’esperienza. In seguito è arrivato Zeno che è posto dal suo autore ben oltre l’orizzonte di rimpianto tragico dell’artista nei confronti del mondo pre-moderno ormai perduto.

Così al crollo della poetica romantica e dannunziana del grande gesto e dell’azione esemplare, o al venir meno dell’oggettivismo rappresentativo dei naturalisti, Svevo nella sua letteratura ha reagito sostituendo all’esperienza vissuta la sua rappresentazione scritta, alle azioni la riflessione sulle azioni, alla vita la descrizione della vita e, infine, all’Io l’Es. Compito dello scrittore modernista, all’interno di un’ontologia negativa, è stato dunque essere quello rivoluzionario di additare il vuoto e la mancanza di un’esperienza autenticamente vivibile. «Io non sono colui che visse ma colui che descrissi»,[1] dirà Svevo, anzi scriverà lo Zeno vegliardo.

Ecco perché il postulato romantico «la vera vita non è quella vissuta ma quella sognata» (cioè l’Ideale nel progetto dei romantici di Jena) è stato radicalmente sostituito da Svevo e da Proust, sia pure in modi molto diversi, con un altro e ben diverso postulato: «la vera vita non è quella vissuta ma quella scritta, quella raccontata sulla pagina». Un esempio decisamente modernista.

 

[1] Italo Svevo, [Le confessioni del Vegliardo], in Id., Romanzi e «continuazioni», a cura di Nunzia Palmieri e Fabio Vittorini, Mondadori, Milano 2004, p. 1116.

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