Essendo il dentro un fuori infinito #12
Io e gli altri fabbricavamo ipotesi : cappi, lampadari caduti, specchi spaccati dalle piccole dita gonfie, un taglio, una metamorfosi. Gli avvelenatori passavano e ripasssavano davanti alla porta della stanza con velocità doppia, un andirivieni di tracce umane per prendersi cura della donna come ci si prende cura degli animali: metterla in una gabbia, legarla, aspettare che passasse la crisi, aspettarsi la seconda, la terza, una via d’uscita.
Le mandibole che crediamo di poter muovere sono ferme, non ammettono parole, non ammettono boccate d’aria : qui tutto è fumo e silenzio, il silenziatore degli organi, la fame. All’alba abbiamo visto la barella trasportarla nella camera oscura, scattare le foto per il mattino successivo e poi svilupparle nell’anticamera del cervello.
Quando cammino mi sento debole, ho i piedi piccoli, sono quasi un mollusco. Mi aggrappo alla roccia come una sirena senza coda, riduco le dimensioni : è necessario chinarsi per accendermi, muoversi lenti per abbracciarmi, abbassare le spalle, sono la nana del laboratorio che vive una vita senza vita. Qui tutto non è permesso, devo chiedere che mi allaccino i piedi alle braccia, devo disossarmi, prepararmi alla visita di chi non mi è caro, piangere perché tu te ne vai, consegnarti il bracciale portafortuna. Appenderesti questa fotografia per me? Sì. Il muro è secco, la colla non resiste.
Siamo noi la colla : non vedi bambina come siamo incollati a questo tremito?
Ancora, dalla stanza verde, vedevamo passare ossa di cani e piccole piante in fiore. Se era una morte doveva essere quella di una bambina – e invece non era morte, e invece non era bimba, e invece non era niente. Loro passavano e ripassavano le leggi che li avevano portati fino a lì. Formule chimiche, distanze di elettroni, apertura dei corpi, membra rotte, membra legate, legami tra neutrini. Noi aspettavamo nel cassetto : avevamo a disposizione lacci di scarpe, cordoncini e piccoli oggetti in miniatura. Ci sedevamo sui letti spiando l’irreparabile, immaginando le teste spaziare nel perimetro della consapevolezza. Noi eravamo noi, lei non c’era : in un altrove senza misura poteva finalmente dirsi salva.
Cos’è un corpo che si dimena se non un grido rivolto all’infinito?
Non abbiamo piedi per calpestare il mare, bambina. La felicità è solo una porta da cui osservare la vita dei mondi, degli astri nascenti, della luna piena. L’infelice è una fessura, la portiamo tra le gambe per nasconderla : andrebbe riportata alle origini, sopra il mento, andrebbe mostrata come una bocca. Piena o vuota poco importa. Noi siamo gli infelici senza gambe, tu sei una bambina dalle braccia lunghe. Hai visto quanto mondo c’è nel mondo? Quanto da queste grate è possibile vedere? Il riflesso della luce ci appartiene : basta un balzo fuori dal vetro per poterlo raccogliere, mettere in tasca e incastrarlo tra le costole. Questa è la zona fertile, bambina : la possibilità di un lago, il lago in un riflesso.
Riflettendo sulle cose morte abbiamo dedotto che non fosse un rito funebre ma piuttosto un appello : lei c’era ancora, e noi eravamo gli stupidi combattenti che attendevamo il via per poter fuggire dalla stanza al luogo buio del corridoio. Fabbricavamo armi con i pochi oggetti che nascondevamo dietro i cassetti : aprire un cassetto e non trovarci niente, ma dietro, tra la fine e la muraglia, dietro c’erano spille, oggetti appuntini, cordoncini, lamette, profumi pronti a rompersi per magazzinare il vetro prodotto. Ci piaceva dichiararci custodi di un arsenale invisibile pronto all’uso. Non lo usavamo mai.
M. era stata portata nell’ultima stanza, colle braccia legate alla ferraglia del letto. Il corpo in piena si dimenava come un fiume, traboccava oggetti da ogni parte. E noi, pronti all’attacco, non ci attaccavamo a niente. Restavamo aggrappati alle nostre particine da teatro : fare uno sguardo buffo, mettere una maschera sulla testa, danzare un balletto per i nuovi arrivati. Lei era legata, noi annegavamo.
Non partite senza di me. Il mio cuore è fragile ma pulsa come una stella remota, se mi dimeno è per raggiungere l’infinito, quello che non sapete, quello che non sappiamo. Mi è stato dato un corpo in miniatura, mi è stato chiesto di abitarlo : ma è possibile abitare un corpo estraneo attaccato e che rigetta? Guardate fuori : il possibile è questo noi che non abbiamo ancora avuto la capacità di pronunciare.
Mariasole Ariot dovrebbe scrivere un atlante del corpo umano. Sarebbe una gran cosa.
Giuro che lo sto facendo, Filippo. Un po’ crudo e crudele, ma lo sto facendo…
a chi si interroghi sul senso della letteratura – sempre che vi siano ancora persone poste di fronte a un tale semplice interrogativo- consiglierei di leggere un testo così, semplice. effeffe
Ottimo testo. Da limare nelle parti sentenziose
Marco, grazie di aver letto. In che senso “parti sentenziose”? Spiega meglio
A me sembra bellissimo.. “Il mio cuore è fragile ma pulsa come una stella remota”: una frase (o un verso) che si staglia, direi quasi un “classico”.
Non mi sembra ci siano parti “sentenziose”: se si riferisce alle frasi con il “noi” non è certo un “noi genere umano”, ma “noi che stiamo qui dentro”, un gruppo definito di persone.
C’è qualcosa di grande, nella scrittura di Mariasole, che eccede e invalida le classificazioni: poesia in prosa? Prosa poetica? Chi se ne frega. E’ come circonfusa da una luce bianca quasi mistica e da un nitore che sulle prime ti può ingannare, quando ti ci accosti; ma poi ti rendi conto che il suo movimento interno fondamentale è una specie sui generis di transustanziazione: le parole si fanno corpo, si tramutano in carne e sangue.
(E infine, magia o miracolo, un attimo dopo sei lì, in quell’altrove, dietro quel vetro, dentro quel dentro, trascinato dall’altra parte dello specchio…)
Grazie a tutti per queste parole importanti, una a una.
Non lo so neppure io se sia poesia in prosa o prosa poetica, Sergio: a diciassette anni dicevo “io scrivo una specie di pRoesia”, non sapendo che rispondere alla domanda “e cosa scrivi?”. Non so risponderci neppure oggi.
Quello che so è che attraverso questa serie di “ritratti” di cui forse questo è/era l’ultimo, volevo mostrare la vita che infuoca e brucia anche in quei luoghi (interni ed esterni) in cui tutto segna lo zero, il mondo si fa muto e grida solo per uscire da se stesso. Dove tutto è bianco e si pensa sia morte, e invece c’è vita che pulsa, c’è fiamma, c’è corpo.
Se ci sono riuscita non lo so: ma dedico questi testi a tutti i loro protagonisti. Reali più del reale.